Prova


Non preoccuparti della pioggia, lasciala cadere” (Marco Brignoli, Rifugio Baroni al Brunone, Sentiero delle Orobie Orientali)

venerdì 14 febbraio 2014

In memoria di Marco

Il 14 febbraio 2004, dieci anni fa, in un hotel di Rimini veniva trovato il corpo senza vita di Marco Pantani. Dagli esami clinici si scoprì che la morte era stata causata da un’edema polmonare e cerebrale, conseguente ad un’overdose di cocaina. 34 anni e un mese, la vita di un uomo che ha cambiato per sempre la storia del ciclismo.
La notizia giunse come il classico fulmine a ciel sereno, e quella morte solitaria e disperata lasciò sgomenti tutti, non solo gli appassionati delle due ruote. Pantani era stato un idolo in vita, al vertice della notorietà e della stima, e in quel fantastico 1998 divenne il ciclista più amato dell’epoca moderna, vincendo nello stesso anno Giro e Tour. Un’impresa riuscita a pochissimi. Questa vicenda mi fa pensare al mio avvicinamento al ciclismo. In fondo ci si avvicina ad uno sport soprattutto perché ci facciamo travolgere dal mito del campione, dell’eroe osannato, faro dell’Umanità. Siamo alla fine degli anni 90’ e il mio collega – e amico – Marco, che in gioventù era stato un discreto sprinter, aveva coinvolto me ed altri in questo sport. Alcuni acquistarono una bicicletta nuova, altri riattarono quella di un qualche parente, e via sui pedali. Le nostre erano uscite per lo più domenicali su per i colle brianzoli. Uscite da pensionati verrebbe da dire. Verrebbe da dire per chi non conosce i pensionati che vanno a correre sulle due ruote. Ci volle poco infatti per capire che quella categoria di veterani andava trattata con molto, ma molto rispetto. Un giorno partii spocchioso e baldanzoso, confidando nella freschezza della mia gioventù, ma già al quindicesimo chilometro stramaledivo me, la bicicletta e tutti quei dannati vegliardi che filavano via sul filo dei quaranta all’ora. Giunsi a casa strisciando su gomiti e ginocchia, sfiancato. Per settimane lasciai la bicicletta appesa al chiodo, meditando di darmi al curling (nel ruolo del portatore di scopetta mi ci vedevo benissimo). Poi col tempo ripresi a correre. Quando a maggio giungeva il Giro d’Italia dalle nostre parti, si decideva di andare a seguire una tappa. Di solito la più impegnativa. E così in quel lontano 1999 Marco ed io optammo per la tappa del Mortirolo. Il campionissimo del momento era Marco Pantani. Qualche mese prima avevo avuto il privilegio di conoscerlo personalmente, presso la fiera di Milano, in occasione dell’Eicma, il “salone della bicicletta”. Egli veniva dai trionfi dell’anno prima, dalle vittorie al Giro e al Tour. Era all’apice della carriera, osannato e venerato come un semidio. La società per la quale lavoravo si occupava anche di sicurezza e così quel giorno venne organizzato un servizio di scorta per lui. Avrebbe visitato alcuni stand della fiera, tenuto una conferenza, stretto mani, firmato autografi, ma in quella calca di visitatori-tifosi era necessario un minimo di servizio d’ordine. L’entusiasmo che ci accompagnò per tutta la sua permanenza in fiera fu incredibile, la confusione totale. Durammo fatica a contenere tutta quella massa di persone che spingevano per toccare Pantani, per stringergli la mano, per farsi fotografare insieme a lui. Egli si aggirava spaesato, lo sguardo come assente, distaccato. Non c’erano lampi di gioia nei suoi occhi, né di afflizione o tristezza. Sembrava che la sua mente fosse altrove, lontana. Le ultime parole che pronunciò dal palco della Gazzetta dello Sport furono quelle di risposta alla domanda del giornalista che gli chiedeva quale vittoria di tappa avrebbe desiderato per il prossimo Giro. Ed egli rispose: «Il Mortirolo». Un boato di tifosi accompagnò la sua uscita dal padiglione.
E così in quel maggio del ‘99 Marco ed io salimmo in mattinata verso la vetta di quel passo, transitando da Tirano e poi su da Mazzo di Valtellina. La corsa sarebbe passata nel primo pomeriggio e noi lì avremmo atteso i ciclisti. Fu una delle fatiche più immani della mia vita. Le pendenze erano talmente impegnative e costanti che lasciavano totalmente senza fiato. Giunti a metà salita, vale a dire intorno al sesto chilometro ci fermammo. Era il punto più infame di quella lunga e strettissima striscia d’asfalto che puntava verso il cielo, e qui i ciclisti avrebbero dovuto dare il meglio di loro stessi per prevalere sugli avversari. Ci accampammo a bordo strada e cominciammo a pregustarci lo spettacolo che sicuramente Pantani avrebbe offerto senza risparmiarsi. Intorno a mezzogiorno ci sintonizzammo su Radio-Corsa e solo allora scoprimmo che Pantani era stato fermato alla partenza per ematocrito fuori limite massimo. Fu una delusione che lasciò sgomenti, affranti e senza parole. E così perso il campione ci restarono Gotti, Heras e alcuni altri comprimari e portaborracce. I corridori furono preceduti dalle moto apripista e in brevissimo tempo furono da noi. I primi salivano come se non facessero fatica, solo una smorfia appena accennata di sofferenza e una sudorazione preoccupante facevano intuire l’enorme sforzo a cui si sottoponevano. Gli ultimi invece, opportunamente lontani dalle telecamere, non solo non rifiutavano le spinte dei tifosi, ma anzi le incoraggiavano. Il mio amico Marco, a rischio di un infarto, ne accompagnò una mezza dozzina spingendoli per venti-trenta metri. Per me invece c’era ancora la delusione, uno sconforto amarissimo che mi inchiodava sul mio pezzettino d’asfalto.
Senza più il mio idolo mi allontanai col tempo dal ciclismo: è il destino che tocca a tutti coloro che amano troppo intensamente. Le corse ciclistiche senza Pantani non furono più le stesse: là dove un tempo c’era la certezza che prima o poi sarebbe accaduto il classico coup de théâtre a cui ci aveva abituato tante volte, ovvero il gesto atletico che lascia senza fiato e riempie di entusiasmo e commozione, ora c’era una cupa monotonia, giocata da corridori sparagnini, timorosi e calcolatori. Cioè corse che si accendevano – per modo di dire – solo negli ultimi 2-3 chilometri: così, tanto per fare un po’ di scena per il pubblico, senza tuttavia farsi troppo male. No, non faceva più per me quel genere di spettacolo.
Io non so con certezza se Pantani facesse o meno uso di droghe: un’analisi particolare del midollo osseo, eseguita dopo la sua morte, ha escluso un uso frequente e in quantità elevata di Epo durante la sua carriera. Può essere che in determinate circostanze, in momenti particolarmente bui della sua carriera, abbia ceduto alla tentazione. Questo non lo escludo. E pur tuttavia, considerato tutto ciò che è emerso nel corso degli anni, vale a dire la scoperta continua e sistematica di episodi analoghi legati a campioni e vincitori delle più prestigiose gare, viene da pensare davvero che il doping sia purtroppo una pratica largamente diffusa. E che di conseguenza, per emergere tra i migliori, sia quasi obbligatorio doparsi. Questa è il sospetto più che legittimo.
Qualche mese dopo la morte di Marco, andai a Cesenatico, a fargli visita. Al cimitero c’era ancora una sistemazione provvisoria, un loculo anonimo tra i tanti. Guardare la sua fotografia, là dentro a quella cornicetta dorata, mi dava una strana sensazione: come di incredulità. Non mi sembrava possibile che fosse vero che Pantani fosse morto. Eppure il fatto che fosse là in mezzo agli altri, insieme a tutti quei volti di persone che se n’erano andati prima di lui, mi lasciava addosso come un senso di conforto. Come se non fosse solo in quella dimensione che pure non capivo e non accettato. Oggi invece, chi va a trovarlo, scopre una tomba monumentale, adorna di fiori, sculture, ricordi, trofei. Un altare alla memoria. Eppure in questo trionfo di marmi e luce, che pure celebra la sua grandezza in vita, lo sento più lontano, più solo, come se non appartenesse più alla gente che l’amava. “La morte è ‘na livella”, diceva Totò: non sottrae grandezza ai grandi e non innalza i piccoli. Nell’uguaglianza di tutti di fronte alla fine c’è il conforto ultimo: perché ciò che tocca a te, tocca a tutti. E l’immagine di un uomo famoso e osannato, accanto ad un volto sconosciuto, regala sensazioni di pace e serenità. Anche nella tragedia della morte.
 

Nessun commento:

Posta un commento