Prova


Non preoccuparti della pioggia, lasciala cadere” (Marco Brignoli, Rifugio Baroni al Brunone, Sentiero delle Orobie Orientali)

lunedì 20 gennaio 2014

La magia della montagna

Sabato scorso il quotidiano La Stampa ha lanciato il concorso fotografico “La mia montagna”. L’iniziativa è rivolta a tutti coloro che intendono mostrare al pubblico una fotografia che illustri un luogo particolare, un’immagine che evochi ricordi speciali, sensazioni rimaste dentro, emozioni esplose all’improvviso e che fanno parte del nostro vissuto.
“Sarebbe troppo semplice se i lettori de La Stampa mandassero tanti Cervini e K2, tante Marmolade e Cime di Lavaredo, che sono le montagne dei libri e delle cartoline illustrate. Sarebbe semplice e falso - si legge sul sito del quotidiano torinese - . Invece le montagne del cuore possono anche essere bruttine, defilate, non illustri, apparentemente insignificanti: per chi non le ama, naturalmente. I luoghi, come le persone, si assomigliano terribilmente finché non impariamo a riconoscerne i tratti e amarne le differenze. Proprio come le persone, le montagne hanno personalità, fascino, colore, tagli di luce e ombra, debolezze, asprezze e rotondità. Sono i dettagli a renderle vive, desiderabili e soprattutto uniche”.
Ed in effetti non c’è bisogno di andare in cima all’Everest per provare sensazioni uniche e straordinarie, basta trovarsi nel posto giusto e al momento giusto. Io stesso, che pure non sono uno scalatore, ma un semplice appassionato della montagna, spesso mi sono trovato a calpestare luoghi che mi hanno fatto entrare all’istante in uno stato di grazia, al cospetto di panorami che impongono silenzi contemplativi. Quasi religiosi. Raggiungere una cima - dopo piccoli o grandi sacrifici, o anche dopo piccoli o grandi rischi - è sempre una soddisfazione diversa: e non è mai come ce lo si aspetta. Erri De Luca dice che la vetta di una montagna non è mai conquista, ma sconfitta: perché più oltre di là non si può andare. Eppure, affacciarsi sulle immensità che si aprono al di là di un picco, ha un fascino impagabile, spalanca la porta sulla magia del creato. L’alta quota dà visione d’insieme, regala sguardi di profondità e, più si spinge in là la nostra vista, più ci si accorge di quanto siamo piccoli di fronte al tutto. I pochi metri che circoscrivono una vetta dunque hanno il sapore del terreno sacro, del sancta sanctorum su cui è più facile sentirsi vicini al grande mistero: non per nulla gli eremiti hanno sempre scelto le alture più impervie per trascorrere la propria vita contemplativa.
La mia prima volta su una cima fu nel 2007. Stavo partecipando ad un trekking in Val Maira, seguendo le orme di Maurizio Barbagallo, una guida simpaticamente burberaccia. Giunti sull’altopiano della Gardetta, nei pressi di Preit, ci fece lasciare lo zaino e ci propose di salire sulla vetta del Cassorso, una montagna di roccia dolomitica alta 2777 metri. C’era da salire per una quarantina di minuti su di un terreno impervio e pietroso, con qualche difficoltà tecnica nell’ultima parte. Qualcuno non se la sentì e rimase giù. Altri, pur timorosi, decisero di tentare ‘l’impresa’. Ricordo che ad un tizio di Roma, preoccupato di poter soffrire di vertigini, Maurizio consigliò - anzi impose - di portare il suo zaino pesantissimo: “Così avrai la mente occupata sul peso e non penserai alle tue paure”. Quando giungemmo in vetta, la fatica venne ampiamente ripagata. E con gli interessi. Ecco come descrissi l’arrivo in cima nel libro Santiago Express: “Giunti in vetta ci si presenta uno spettacolo che da solo vale tutta la ‘vacanza’. Dalla cima del Cassorso, più alta di diverse nuvole intorno, si domina tutta la valle, con una prospettiva simile a quella che si potrebbe avere da un aereo di linea. Il paesaggio ha assunto colori diversi, più intensi, con contrasti più marcati. A ovest si scoprono le prime vette francesi, mentre a nord le nuvole ci lasciano appena intravedere il Monviso. La nostra soddisfazione è enorme, e tale da fornire una risposta definitiva alla mia domanda sul perché si venga in montagna”.
Già, perché si va in montagna…? Perché mettere a rischio, a volte, anche la propria stessa vita? Bonatti non aveva dubbi: perché la bellezza non ha prezzo.
Seguirono poi altre esperienze, sempre più intense e spesso adrenaliniche. Sul Pasubio, ad esempio - e non mi vergogno di dirlo - provai in diversi punti sensazioni che a buona ragione posso definire strizza: strizza vera. Lungo i sentieri d’arroccamento si aprivano baratri talmente abissali e spaventosi che toglievano il fiato, e facevano rimpiangere le calde spiagge di Rimini lasciate la settimana prima. E pensare che in questi luoghi, durante la Grande Guerra, italiani e austriaci si pigliavano pure a fucilate…! Eppure, nonostante il terrore, c’era dell’altro: la paura porta sempre con se qualcosa di fascinoso, ed anche in quell’occasione vi era qualcosa di indicibilmente piacevole: il gusto della sfida, del rischio totale, un’iniezione di vita vissuta al limite, un gioco sul filo della morte.
L’anno dopo, sulle Orobie Orientali, altra esperienza al limite: salita lungo un canalone innevato in cordata, con ramponi e picozza. Il gestore del rifugio, la sera prima e tanto per ‘tranquillizzarci’ ci disse: “Una volta che sarete lassù, scoprirete se la montagna vi piace veramente…”. Seguì naturalmente una caduta che ci fece capire per la prima volta quanto fosse rischiosa la montagna e quanto rispetto le si dovesse. Giunti in cima però, dalla vedretta di Scais, scoprimmo che la montagna ci piaceva davvero.
Negli anni a seguire poi, mi sono cimentato su altre alture, sul Mont Chétif, nelle Alpi Graie (un piccolo gioiello che apre sguardi a 360 gradi su tutto il massiccio del Monte Bianco); sul Gran Sasso; sul Monte Pollino (una montagna che non ha nulla da invidiare alle Alpi…); sul Rocciamelone (il gigante della Val di Susa, creduto per molti secoli la montagna più alta del mondo). E tante altre. Vette spesso insignificanti dal punto di vista alpinistico, ma che per me hanno contato molto. Ed ogni volta che ci si affaccia da questi balconi, sempre la stessa sensazione: un tuffo al cuore, respiro mozzato, sguardo perso all’orizzonte. Ecco, per dirla con Leopardi “… mi sovvien l’eterno, e le morte stagioni, e la presente e viva, e il suon di lei. Così tra questa immensità s’annega il pensier mio: e il naufragar m’è dolce in questo mare”.

Fonte: http://www.lastampa.it/2014/01/18/societa/montagna/dimmi-qual-la-tua-vetta-del-cuore-5y3rP7uz7lOnTgf6n5BF2L/pagina.html

Nessun commento:

Posta un commento