Prova


Non preoccuparti della pioggia, lasciala cadere” (Marco Brignoli, Rifugio Baroni al Brunone, Sentiero delle Orobie Orientali)

venerdì 18 ottobre 2013

Il viaggio e il tempo sospeso

Soriano nel Cimino
La mia amica Fiorella un paio di giorni fa ha postato sul suo blog un bell’articolo che racconta di un viaggio a Bomarzo, nella Tuscia laziale. Ci sono tante foto e tante descrizioni, soprattutto del Parco dei Mostri. Guardando quelle immagini mi è venuto in mente il viaggio che feci alcuni anni fa nelle stesse zone. Luoghi meravigliosi, colline incantate e piccoli borghi medievali in cui si vive una vita assai diversa da quella che siamo usi conoscere nelle nostre megalopoli. Terminato quel viaggio scrissi un racconto che poi andò ad aggiungersi agli altri di “Santiago Express”. Eccolo.

Aprile 2006

Un viaggio parte da lontano, si nutre di speranze e aspettative, viene cullato e protetto come qualcosa di prezioso, ma non ci appartiene fino a che non diventa parte di noi, della nostra realtà e dei nostri ricordi. La scelta della meta e della data di partenza non è facile quando si è in gruppo, c’è sempre qualcosa che non va bene: chi non ha le ferie, chi è già stato in quel posto, chi ne preferirebbe un altro. Certo viaggiare da soli comporterebbe minori problemi organizzativi (Terzani aggiungerebbe che in compagnia si finisce per fare conversazione), ma non sarebbe la stessa cosa: rivedere persone care dopo molto tempo consente di riaprire quella finestra della memoria appena socchiusa e che, spalancata, fa riemergere momenti di vita vissuta. Raggiunto un accordo almeno sulla data, cominciano le ricerche su luoghi particolari, curiosi e immersi nella natura. Questa volta la nostra meta è Bomarzo, paesino del viterbese, avvolto nei misteri del suo parco centenario, e nelle boscose colline dell’alto Lazio, alla ricerca delle tracce degli antichi etruschi. Il viaggio è “itinerante”, il che, nell’accezione di quei matti che organizzano questi trekking, significa portarsi in spalla tutto ciò che serve: nessun mezzo di trasporto. È ovvio che stando così le cose, prepararsi lo zaino non è impresa delle più semplici: “Cosa ci metto dentro…? Questo mi servirà… quest’altro pure… forse è meglio una felpa in più…, ma sì dai che vuoi che sia”. E ti ritrovi alla fine con un arnese in spalla più pesante del masso di Obelix. Allora giù a rifare tutto: “Tolgo questo… in fondo non l’ho mai usato prima… anche quest’altro… anche se però…! Va be’ basta, ci penso domani!”. Poi viene domani e sei ancora lì. A quel punto fai lo zaino come capita e immancabilmente, come tutte le volte, ti ritrovi con metà della roba inutilizzata e altrettanta che avresti dovuto portarti dietro, lasciata a casa. Come ad esempio la torcia per andare tra i boschi di notte. L’esperienza però conta molto in queste circostanze: ad esempio ho capito che quella della borraccia è una gran fregatura. Se tu vai in un qualsiasi negozio di attrezzatura per il trekking, ne trovi un intero bancone, di ogni genere e forma: ti garantiscono la tenuta a temperatura costante del liquido contenuto oltre che un “design accattivante” ed una forma perfettamente compatibile con la conformazione anatomica del tuo zaino. Ebbene dall’alto (o dal basso…fate voi) della mia esperienza posso dirvi, senza tema di smentita, che non vi è al mondo miglior borraccia della mia bottiglietta di plastica San Pellegrino! Leggerissima, discreta, senza troppe pretese in fatto di eleganza, ma al contempo solida ed austera in quel suo involucro verdolino. L’unico dispiacere è che l’ho buttata via alla stazione di Orte a fine trek… indegnamente abbandonata in un cestino. È proprio vero che apprezziamo le cose belle della vita soltanto quando non le abbiamo più. Lo zaino è pronto, mi guarda quasi con sfida, è solido e appartiene all’epoca dei boy scout, ma è pur sempre un signor zaino. Sono pronto a partire. Un ultimo sguardo dietro di me: sul comodino del letto c’è un libro, “La fine è il mio inizio” di Terzani. Un pensiero mi sfiora: “me lo porto dietro”. La parte razionale dice “pesa troppo…che te lo porti a fare…quando avrai il tempo di leggerlo..!”. Ma la parte emozionale prevale: “i suoi libri mi hanno fatto viaggiare fino ad ora…adesso sarà lui a viaggiare con me!”. L’appuntamento con Francesca è in stazione Centrale alle diciassette di venerdì. Destinazione Roma, con pernottamento da Teresa. Il treno parte in orario, stranamente: è bello stupirsi delle cose del mondo. Durante il viaggio si parla di viaggi e vacanze: questa vita ci va proprio stretta. Puntuale arriva l’sms di Elena: «Siete partiti? Tutto bene? Ci si vede stasera: a che ora arrivate?”». E immancabile scatta il mio consueto scherzo: «Ma che partiti…? Chi parte…? L’appuntamento è per domani…». Risposta: «Ma come, non era per oggi? Vuoi dire che non ci sei te» (Elena è di Siena e usa dire anche – “noi ci s’ha questo, ci s’ha quello” – meraviglioso). Arriviamo a Roma quando da poco ha smesso di piovere. È umido, ma si sta proprio bene. Dico a Francesca: «La senti l’aria diversa?». Risposta: «È perché c’é stata pioggia». E io: «No…, no: è proprio un’aria diversa». Insomma andiamo avanti così per venti minuti fino a che non intravediamo il bar dove ci attendono Teresa ed Elena. Entriamo, ma non le vediamo. Vado dal barista e dico testualmente: «Scusi che ha visto due ragazze di cui una di Siena?». Certo la domanda è un po’ vaga, ma la risposta mi spiazza: «Ah more’, siamo a fine giornata… a fianco alla stazione… ma te rendi conto de quanta gente passa de qua? E daje, lassame perde. Fa ‘r bravo. Se voi te posso dà na bibbita». Avendo capito il dramma di quest’uomo non insisto: usciamo. Fuori intravediamo Teresa ed Elena, accanto ad un’auto bianca, un vero catorcio (scusa Teresa, ma lo sai che sono sempre per dire la verità, null’altro che la verità, anche quando fa male). Dopo gli abbracci di rito, ce ne andiamo a cena. Intanto mi accorgo che mi sono perso una chiamata ed ho ricevuto un sms (vorrei in questa sede scusarmi con quanti chiamandomi non ottengono risposta…forse sono distratto…forse sordo….o forse odio semplicemente i cellulari…boh!). E’ Antonella che avendo letto la mia e-mail sul nostro arrivo a Roma, vorrebbe raggiungerci e salutarci. Quando la richiamo ha il telefono staccato. Vabbè non importa, prima ceniamo, poi si vedrà. Teresa ci conduce in un’enoteca sotto casa sua: qui dovremmo fare solo l’aperitivo, per poi andare in pizzeria. Niente da fare, ci troviamo bene qui, il cibo è ottimo, ottimo il vino e sublimi i cantuccini della sora Giovanna (..Teresa informiamoci bene del nome dell’ostessa….bisogna essere precisi quando si scrivono racconti…). Mentre si parla e ci si abboffa arriva ancora una telefonata di Antonella: è la prima volta che ascolto la sua voce. Fino ad ora l’ho conosciuta solo via e-mail ed ho potuto vedere una foto in cui è ritratta con altri partecipanti ad un trekking in Corsica. La voce è simpatica, piena di verve, molto amichevole e quasi familiare, tipicamente romana (anche se l’inflessione è appena percepibile). Purtroppo è tardi e non riesce a raggiungerci. Mi fa molto piacere sentirla, ma al contempo sono dispiaciuto che non si possa unire a noi. Prima di chiudere la telefonata chiedo alle mie amiche se vogliono parlarle. Risposta in coro: “Si si salutacela!”. Certo che le donne sono ben strane. Usciamo dal locale e ci avviamo verso casa di Teresa. È una magnifica serata, l’aria è tiepida e dolce, le piante sono tutte in fiore, profumate, appena bagnate da quell’acquazzone primaverile. Continuo a sentire un’aria diversa da quella di Milano: un’aria più giusta (direbbe Gaber). Entrati in casa la prima cosa che fa Teresa è disfare il trolley e fare lo zaino: non aveva capito che il viaggio era itinerante. Per fortuna che ci siamo visti prima, sennò le sarebbe toccato valicare colline, guadare ruscelli, discendere dirupi con la valigia a rotelle. Magari veniva pure meglio… ma non sarebbe stato per niente elegante! Mi tocca dormire con Francesca su un materassino da mare due piazze. Lo gonfio troppo, ma me ne accorgo solo la mattina dopo…tra i dolori lombo-sacrali. Bastava solo sgonfiarlo un po’ e sarebbe stato il migliore dei giacigli desiderabile. Vabbè…tutta esperienza…come la borraccia! Il mattino dopo ci attende il treno per Orte. Nello scompartimento troviamo un’americana del Texas che viaggia da sola per l’Europa. Appartiene all’US Army ed è molto orgogliosa di quello che fa il suo paese in giro per il mondo. Secondo lei i media dicono solo le cose negative e non quelle positive che l’esercito americano fa ad esempio in Iraq. Ovviamente io non la penso così, ma è comunque interessante ascoltare questa versione e soprattutto vedere che i suoi occhi non mentono, sta dicendo la verità in cui crede. Arriviamo alla stazione di Orte e subito vediamo altre persone affardellate: sono sicuramente altri “sventurati” partecipanti al trek. La giornata è magnifica, fa caldo, c’è il sole: e questa è una benedizione per i viandanti! Il ritrovo è davanti alla stazione alle undici. Attendiamo dopo aver fatto qualche compera. All’improvviso ci viene incontro un ragazzo in calzoncini corti e camicia da boy scout: “Anche voi partecipate al trek?”. È Alessandro, la nostra guida. Alessandro è di Firenze ed ha deciso di fare questo lavoro per passione, alternandolo ad un altro in part-time. È un giramondo impenitente, simpatico e discreto (è appena tornato dalla Turchia e sfoggia un’abbronzatura invidiabile… soprattutto per degli impiegati sedentari come noi). È molto misurato nei suoi atteggiamenti ed ispira fiducia. Possiamo fidarci! Arrivano piano piano anche gli altri trekker. Si fanno le presentazioni: 15 persone che declamano il proprio nome… che non verrà regolarmente ricordato dagli altri. Forse sarebbe meglio saltarle le presentazioni: “Come ti chiami? Anam, il senza nome”. Ecco come bisognerebbe fare. Spero fino all’ultimo che tra i partecipanti ci sia anche una ragazza carina seduta su uno scalino in piazza, ma purtroppo non è dei nostri. Certo le sue scarpe con i tacchi a spillo non mi inducevano ad essere molto fiducioso. Da Orte ci spostiamo in pullman fino a Soriano del Cimino (circa 30 minuti di strada). L’autista è un po’ burbero, ma si vede che ha una gran voglia di parlare. Ha sistemato accanto al suo posto di guida tre vassoi di piantine di pomodoro, ed ogni volta che qualcuno sale o scende dal pullman dà loro un calcione ed il burbero si inalbera: «Aho e statte attento… noo! Li vedi li pomidori!!!» (Dà del tu a tutti). Io giustamente dico: «Ma dai… come si fa a non vedere quei vasi? Sono proprio dei vandali sti passeggeri!». Lui apprezza e rincara: «Noo… è che so cecati!!». Arrivati a Soriano ci sbarca alla fermata sbagliata e nello scendere inciampo nei pomodori e li riduco ad una passata di pummarò. E mentre ci allontaniamo sentiamo l’autista imprecarci dietro «Ma li morteee…!». Facciamo un giro per Soriano, paesino medievale, fino a che raggiungiamo una fontana storica: Fontana Papacqua. Purtroppo è cinta ed il cancello è chiuso. Non possiamo visitarla. Alessandro ci da qualche spiegazione e poi si riparte. Mentre si va via scorgo una donna anziana ad un balcone e lesto come una faina non mi lascio scappare l’occasione: «Signora… signora… ma la fontana è chiusa?». «E si fijo mio, se apre na vorta ar mese». E io: «Va be’ peccato. Comunque ci sono altre fontane più avanti… vero? Per riempire le borracce!». La povera donna resta interdetta e noi si ride come matti! Si prosegue verso il Monte Cimino (1.053 metri). Il paesaggio è magnifico, la boscaglia si infittisce man mano che si sale. Prima di giungere in vetta ci fermiamo alle rovine della chiesa della S.S. Trinità, colpevolmente lasciata all’incuria. Si fa una piccola sosta e uno spuntino. Teresa butta pure una buccia di banana nel bosco! All’improvviso Alessandro tira fuori da una sacca un libretto e ci recita una bella poesia. Che personaggio. Si riparte: purtroppo durante lo spuntino mi sono conficcato nella natica destra un puntutissimo riccio. Che dolore! Ad una svolta giungiamo al “Sasso Menicante”, detto anche “Sasso di Plinio” (e non chiedetemi se il vecchio o il giovane: neanche Alessandro lo sapeva). Un masso di 250 tonnellate, che se spinto in un determinato punto oscilla: facciamo la verifica ed è vero. Già lo storico-naturalista romano descriveva questa stranezza. Immancabile la foto ricordo. Di fianco al bar c’è un ristorante/bar che accoglie i viandanti che si apprestano a salire sulla vetta del Monte Cimino. La barista è una ragazza simpaticissima alla quale chiedo se il vulcano del monte è ancora attivo. Lei mi risponde con un accento ciociaro: «Noo è spento… so tanti migliaia di anni ormai…!». Ed io subito ad Alessandro: «Porca miseria… s’è fatto tardi…lo sapevo…!». L’ultima salita la si fa in silenzio, ognuno per conto suo, in meditazione. C’è una strana atmosfera, come se ci trovassimo in una foresta incantata. Si odono solo i canti dolcissimi e melodiosi degli uccelli che interrompono il silenzio. Il sole non filtra tra gli alberi. Si sta bene in questa frescura ombreggiata e silenziosa. Mi fermo su un dirupo, mi sdraio e poggio la testa su un morbido cuscino di muschio (incredibilmente molto più comodo del materassino di Teresa). Si stenta a credere che possano esistere ancora posti così belli e incontaminati. E come mi sembra lontano il caos di Porta Romana, lo strombazzare delle automobili, e i gas asfissianti dei motori. In cima al monte c’è una torre. Alessandro ci recita Thoureau e altri poeti e ci distribuisce alcuni fogli. Anche noi saremo poeti: compito di ognuno di noi sarà scrivere un pensiero anonimo che a fine trek verrà letto alla presenza di tutti. Ci rilassiamo e riposiamo dalla fatica. Tiziana si aggira con fare sospetto… dicendo “ma qui ci sono dei pezzi di vetro”. Alla fine anche lei trova pace e si distende. Si torna giù verso il paese. Ad un certo punto Alessandro ferma la marcia e ci fa fare un gioco: metà gruppo si benderà e l’altra metà condurrà i bendati lungo il sentiero. Poi i ruoli si scambieranno. È una strana sensazione, un esperimento che è teso a creare fiducia reciproca. Divertente e nuovo. Piace un po’ a tutti. Vedere con gli occhi degli altri, fidarsi, come si suol dire, “ciecamente”. Emilio (detto Abramo), forse distratto, invece di curarmi, mi lascia andare quasi in un burrone. Verrò salvato all’ultimo momento. Giungiamo a Soriano e da qui con le macchine di Alessandro, Valerio e Carlo raggiungiamo località Il Pallone, frazione di

Vitorchiano
Vitorchiano, dove ci attende la cena e il pernottamento presso una casa/albergo gestito da preti (non ho ben capito di quale ordine). Nel tragitto in auto Carlo spara a raffica una ventina di barzellette sui Carabinieri: fortissima è la tentazione di buttarmi in corsa giù dalla macchina! Per fortuna il tragitto è brevissimo. Presso la struttura in cui ci fermiamo per la notte c’è una confusione impressionante: ci deve essere una festa di matrimonio in corso! Nel refettorio, affollatissimo, ci troviamo sistemati su una lunghissima tavolata, accerchiati da decine e decine di parenti degli sposi vocianti e chiassosi (per la verità gli sposi non li abbiamo visti, forse se l’erano già squagliata! Come dar loro torto?). Siedo a fianco di Elena e Alessandro. Di fronte ho Tiziana e Rosa Maria. Improvvisamente ricompare Carlo che spara un’altra delle sue agghiaccianti barzellette. Mi sovviene un libro di Paolo Villaggio in cui vi sono tre consigli assai utili per difendersi dal barzellettaro: «La so già…»; «Mi scusi… mi vibra il telefonino…»; «E, in casi gravi, abbatterlo con una violentissima testata sul naso». Nel corso del trek utilizzerò prevalentemente la prima soluzione. Il cibo non è il massimo, ma siamo stanchi ed affamati: a questo punto andrebbe bene qualunque cosa commestibile. I tavoli si svuotano e finalmente riusciamo a scambiare quattro chiacchiere senza dover urlare. Si finisce a parlare di chi siamo e cosa facciamo. Guardando Tiziana le dico: «Tu lavori in banca». Lei resta incredula e un po’ sconcertata: «Adesso mi dici come hai fatto…» (la realtà è che ho semplicemente tirato ad indovinare, ma in quella sede mi vanto di riconoscere le persone a prima occhiata: infatti subito dopo dico che Rosa Maria fa l’insegnante, ma sbaglio clamorosamente). Dopo cena decidiamo di fare un giro per Vitorchiano. Il paesino è incantevole, avvolto da mura medievali, composto da vicoletti tortuosi e piazzette adornate di fiori coloratissimi. Nella piazza principale troneggia un Moai, realizzato da indigeni maori nel 1990. Carlo è con noi, ma questa volta non racconta barzellette, racconta la storia del paese, infarcendola di aneddoti curiosi e interessanti. Carlo è una persona coltissima, è uno dei notai più importanti di Massa Carrara, ed è probabilmente anche nobile: ha infatti due cognomi. Ed è in questo momento che maturo un’idea: mi faccio adottare da Carlo. Ma sì… vuoi mettere che soddisfazione per mio padre: “Papà, sono stato adottato…!”. “Bravo figlio mio…, finalmente hai fatto qualcosa di buono nella vita!”. Purtroppo Carlo alla mia richiesta mi risponde senza troppo parole: «Ma chi, tu…? Che schifo…!». In compenso continuerà ad allungarmi altre barzellette per il resto del viaggio. La mattina dopo ci mettiamo in marcia alla volta di Bomarzo: il tragitto è di 16 km. Percorrendo un sentiero ben tracciato, che attraversa campi di noccioleti a perdita d’occhio, raggiungiamo la Selva di Pietreto. Uno strano posto, quasi magico, una spianata in cui si ergono dal suolo enormi massi, quasi a formare un inestricabile labirinto. È un’area rupestre sacro-funeraria dell’epoca etrusco-romana. In questo luogo Alessandro ci dice: «Coraggio, fatevi un giro, ognuno per conto proprio…! In silenzio…, poi ci scambiamo le impressioni». Dopo circa mezzora torniamo tutti. Manca all’appello Marina, esperta escursionista del Cai. Ormai è passato troppo tempo: si è persa. Cominciamo a chiamarla a gran voce: nessuna risposta. Ci preoccupiamo. Alessandro si immerge nuovamente nel fitto del sentiero e dopo un po’ ricompare con Marina. Marina barcolla ed ha una benda stretta al braccio. Alessandro, tra il serio e il faceto dice: «È grave… è grave…!». Ci spaventiamo ancora di più fino a che giunti tra noi i due scoppiano a ridere dicendo che è uno scherzo. Scherzo un cazzo mi verrebbe da dire, ma mi taccio per una volta. Effettivamente Marina si era persa: correndo dietro ad un topolino, aveva perso l’orientamento e non sapeva più ritrovare la via d’uscita. Per fortuna però la nostra guida è meglio di Kit Carson.

Bomarzo
Dopo la sosta pranzo riprendiamo la marcia e a tardo pomeriggio giungiamo nei pressi di Bomarzo. Il gruppo si sgrana, la fatica si fa sentire. Come al solito Elena resta indietro ed io con lei. Alla fine dovrò farla attaccare dietro al mio zaino e trainarla di peso fino alla meta. Nel paese c’è una festa: si stanno assegnando i cavalli per il palio del giorno successivo. C’è molta gente e a fatica ci facciamo largo. Finalmente giungiamo al nostro agriturismo. Il posto è bellissimo, e si affaccia su una terrazza naturale che guarda il paese di Bomarzo. Comincia ad imbrunire, il cielo si accende di rosso e in lontananza le luci del paese punteggiano l’oscurità incalzante. La cena non è male, il vino accettabile, la compagnia deliziosa. Complice la stanchezza e un bicchiere di vino in più, l’ilarità ci pervade. Ridiamo e schiamazziamo come una scolaresca in gita. Che bella serata. Facciamo un giro giù in paese. Anche questo è un tipico borgo medievale con le sue strade strette e le mura che lo cingono. In piazza c’è la banda musicale che suona: il sindaco sta per scoprire la statua di Sant’Anselmo, rimessa a nuovo. Prima di togliere il velo comincia a ringraziare tutti i benefattori del paese: la banca, il macellaio, il fruttivendolo etc. Non riesco a stare zitto e sbotto: «Tutti uguali ‘sti politici… sempre li a prenderti per il culo». Tiziana mi redarguisce aspramente. Ma le donnine del paese che mi stanno intorno e che mi hanno sentito dicono: «Noo, noo, lo lasci parlare, signorina…, c’ha ragione…, so tutti uguali ‘sti disgraziati…!». Si torna indietro: tutti a nanna! La mattina successiva ci svegliamo di buon ora (si dice sempre così nei racconti) e partiamo: destinazione Monte Casoli, dall’altra parte della vallata. Qui visitiamo le famose grotte ipogee, scavate nel tufo da popolazioni arcaiche, ed ancora utilizzate da pastori e cacciatori della zona. Per la verità anche dalle pecore: appena ci avviciniamo ad una di queste grotte salta fuori un gregge guidato da un montone. Lo spavento è potenzialmente clamoroso. Elena nel frattempo inciampi e cade su una sporgenza. Niente di grave. La giornata corre veloce: nel pomeriggio l’appuntamento è al Parco dei Mostri di Bomarzo. Siamo più riposati: oggi s’è patito meno di ieri. C’è anche più tempo per parlare tra di noi. Tiziana mi racconta della sua passione per la storia e per l’araldica: è riuscita a risalire, attraverso i registri della chiesa, ai suoi antenati, fino all’inizio del 1800. Emilio ci racconta della sua vita un po’ grigia, a sentir lui (si lamenta del suo lavoro e soprattutto del luogo in cui pranza nei giorni di lavoro). Valerio oggi sfoggia un magnifico completino da tirolese! La moglie, come al solito, non porta lo zaino. Parliamo di colonie estive: a quanto pare ci siamo stati un po’ tutti, chi con bei ricordi chi meno. Carmen parla di libri: è incredibile, ha letto perfino Gogol: sono commosso! Credevo di essere l’unico in Italia ormai a leggere libri di questo genere. Il Parco dei Mostri venne realizzato da un personaggio assai originale nel 1500, tale Vicino Orsini, patito alchimista, che per completarne i lavori si svenò completamente, lasciando i suoi eredi in bolletta. È composto da una serie di statue e costruzioni architettoniche ispirate ai concetti alchemici. La materia trattata è assai ostica, ma ci viene in soccorso Tania, amica di Alessandro. Comincia a fornirci una serie di spiegazioni, molto dettagliate, sull’epoca e sul fenomeno della “scienza alchemica”. Non ce la faccio a sorbirmi le spiegazioni e comincio a sbadigliare come un toro, suscitando il disappunto di tutti. Per fortuna anche questa tortura ha temine. Ci sdraiamo sul prato ben curato, proprio ai piedi del cartello che indica “non calpestare il prato”. Si discute un po’. Cerco anche di assumere la posizione yoga del fior di loto: mi ribalto tragicamente e tutti ridono. Carlo e Tania parlano tra loro: più che una chiacchierata sembra un simposio tra menti elette. Si torna all’agriturismo. Questa sera in paese ci sono i fuochi pirotecnici per la festa di Sant’Anselmo. Li attendiamo impazienti. Sono previsti per mezza notte, ma è quasi l’una e non si vede nulla. Ce ne andiamo a dormire, convinti che ormai siano stati annullati. Appena il tempo di dire buonanotte ed ecco il primo botto. Corriamo tutti fuori. Lo spettacolo vale l’attesa. La mattina dopo si va a visitare la Torre di Chia, appartenuta a Pier Paolo Pasolini. Purtroppo non possiamo entrare dal momento che è abitata dai suoi familiari. Suono comunque il campanello avendo già in mente di dire: «Siamo dei viandanti… non è che ci fareste dare un’occhiata dentro?». Ma non risponde nessuno. Proseguiamo il cammino, lungo un fiumiciattolo inquinatissimo. Da poco hanno chiuso una discarica più a monte, ma la zona è ancora contaminata. È un grande dispiacere vedere un posto così bello ridotto in queste condizioni. Ci sono pure dei ragazzi con le canne da pesca. «Che si pesca a regazzi’…?» – chiedo a uno di questi. «Gnente se pesca… li sorci!». E io: «Ma che ve fate er bagno qua?». «Fossi matto: te becchi a rogna se te bagni…!». Si prosegue. Ormai siamo alla fine del viaggio. Facciamo una sosta per rifocillarci. Prima di andarcene Alessandro raccoglie i pensieri che abbiamo scritto in forma anonima. Li mescola in un cappello e ne fa prendere uno ad ognuno di noi. Cominciamo a leggerli. Alcuni scritti sono bellissime riflessioni, altri sono componimenti in rima. Altri solo brevissime frasi. Valerio legge il mio biglietto: è una riflessione direi filosofica e ne sono orgoglioso. Ma appena termina di leggerlo c’è un breve silenzio carico di patos. Poi qualcuno dice “amen”. Verrebbe voglia di andarsi a impiccare alla più vicina pianta di nocciolo, ma dissimulo meglio di un camaleonte! E si parte per Orte. Carlo ci saluta subito perché fa un’altra strada; Jani, la moglie, mi abbraccia e mi dice: «Allora a presto figlio mio…». Ad Orte Scalo ci troviamo per l’ultima volta tutti insieme davanti alla stazione. I saluti sono sempre un po’ tristi, ma a sto giro prevale la preoccupazione per il ritorno: ci attende un orrendo trenaccio interregionale, proveniente da Roma, che farà tutte le fermate fino a Milano. In più l’altoparlante, per la prima volta nella storia delle ferrovie annuncia: «Si avvisa la clientela che il treno è molto affollato…». In altre parole “se volete allarmarvi fatelo pure”. Francesca ed io convinciamo Tiziana a prendere il nostro treno, senza aspettare il suo di mezzanotte. Effettivamente il treno è stracarico. Per salire siamo costretti a farlo dalle porte della carrozza di prima classe. Raggiungiamo i nostri posti in seconda, ma ovviamente li troviamo occupati. Li reclamiamo non senza un po’ d’imbarazzo. Ci dividiamo due posti in tre. Alla fine ci va pure bene. Francesca e Tiziana passano tre ore di fila a cercare di risolvere un tremendissimo sudoku. Io non ci provo neanche. L’unica cosa che mi riesce sulla Settimana enigmistica – non senza qualche difficoltà – è unire i punti numerati che fanno saltare fuori la figura. Ed è già gran cosa. Nella circostanza preferisco scherzare con delle ragazze di Firenze in gita. Arriviamo a Milano poco prima di mezzanotte. Riesco a spuntare per Tiziana un passaggio in auto da una famiglia che abita nella sua stessa città, e che ha fatto il viaggio con noi (il mondo è proprio piccolo). Accompagno Francesca al tram e ritorno a prendere il mio treno per Treviglio. È incredibilmente affollato anche questo. All’una di notte mi ritrovo a passeggio per Treviglio in calzoncini corti e con uno zaino pesantissimo in spalla: sono contento. Svolto la strada. L’auto c’è ancora. In dieci minuti sono a casa. E domani a lavoro.

Fare un viaggio non è solo uscire dalla noia quotidiana: è tempo sospeso e d’attesa, vacanza dalla vita. Quando ti trovi a condividere un’esperienza di pochi giorni con persone che probabilmente non vedrai più, se non altro nelle medesime circostanze, nasce spontaneo un moto di essenzialità di sentimenti: non c’è tempo da perdere, deve avvenire tutto ed ora. Non ci sono alternative, non puoi nasconderti, devi giocare a carte scoperte. Deve necessariamente verificarsi un momento di straordinaria intensità esistenziale. Non c’è bisogno di inventare niente: occorre solo essere se stessi. Conosco ormai molte persone che condividono il piacere del trekking e con ognuna di esse ho deliberatamente voluto instaurare un rapporto che prescindesse dal “chi sono io, cosa faccio nella vita, qual è il mio passato”. Non ho passato, né futuro quando sono con queste magnifiche persone. Ho un nome impostomi dalle convenzioni, ma potrei chiamarmi semplicemente “Boo”, o “Yop” o “Yanez” o qualunque altro verso vi venga in mente. Sono io come sono, come appaio, come mi vedete: non sono colui che c’è scritto sul biglietto da visita. E così voglio che sia anche per gli altri. Conosco Teresa, Francesca, Elena, Michele, Cecilia e tutti gli altri…..ma non voglio sapere chi sono nella loro vita di tutti i giorni. Sono solo coloro che mi stanno davanti adesso, in questo momento. Esiste solo il presente. Né passato, né futuro. La vita è adesso e va assaporata ora! Carpe diem!

Guarda anche: http://www.latartaruga-fio.com/index.php/2013/10/il-parco-dei-mostri-di-bomarzo/
Santiago Express: http://www.lafeltrinelli.it/products/9788856700923/Santiago_Express_e_altre_storie_di_viaggio/D%27Ausilio_Luigi.html

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