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Non preoccuparti della pioggia, lasciala cadere” (Marco Brignoli, Rifugio Baroni al Brunone, Sentiero delle Orobie Orientali)

lunedì 21 ottobre 2013

Halloween: la morte come farsa

Sui mezzi d’informazione si comincia a parlare della notte di Halloween: è il ciclo della notizia e purtroppo ci tocca. In effetti la tradizione americana negli ultimi tempi si è consolidatasi anche da noi, e intorno a quest’evento si fa sempre un gran clamore. Il globalismo non risparmia ormai neanche più la Ricorrenza dei Morti. L’economia d’altra parte deve pur girare e dunque perché perdere l’occasione di far baldoria agghindandoci con maschere e costumi a sfondo (fintamente) macabro? E così anche questa ricorrenza, che pure aveva conservato fino a qualche decennio fa un barlume di sacralità, è stata ridotta a puro esercizio consumistico. Al pari di un qualsiasi “San Valentino”. Che poi, a ben vedere, non si tratta neanche di una tradizione americana. Sì certo, la zucca è invenzione yankee, ma tutto il resto ha radici antichissime. Come spiega il Professor Barbero nel libro intervista Dietro le quinte della Storia, la festa di Halloween affonda le sue radici in epoche ancestrali: “Halloween è una festa dei morti, e si sa che già prima del Cristianesimo c’era l’uso di esorcizzare i morti andando in giro in maschera per rappresentare i defunti che ritornano; e lo si faceva all’inizio dell’inverno, che è la morte della terra. Poi i monaci medievali inventano il giorno dei Morti e il giorno di Ognissanti, e li collocano proprio nel momento in cui la gente celebrava già questi riti, all’inizio di novembre: il tentativo è quello di rabbonire i defunti offrendo loro preghiere cristiane, anziché un rito pagano”.
Eppure, nonostante quest’intervento della Chiesa, per tutto il Medioevo e fino al Rinascimento, i giovani hanno continuato a imperversare per le strade spaventando i passanti e chiedendo cibarie bussando alle porte delle case. Col passare del tempo tuttavia, le autorità riuscirono a soffocare questa tradizione e la giornata dei Morti divenne una ricorrenza esclusivamente religiosa. Il tutto però avvenne dopo che i primi pellegrini avevano già attraversato l’Oceano Atlantico, portandosi appresso tutto il proprio bagaglio culturale. E qui, nel perfetto isolamento del Nuovo Mondo, le tradizioni furono àncora di salvezza e fondamenta sulle quali costruire una patria e un futuro. E così, mentre in Europa la festa pagana scompariva definitivamente a favore di quella religiosa, nelle colonie americane continuava a vivere e a perpetuarsi. Identica e immutabile - salvo la zucca, come detto - fino ai nostri giorni. Esattamente come tante altre abitudini derivanti da epoche medievali e da noi scomparse: tipo le unità di misura (pinte, galloni, pollici, miglia etc…).
Nel giorno dei morti è consuetudine visitare i cimiteri e portare fiori sulle tombe dei propri cari. Da bambino le miei visite ai defunti di famiglia avvenivano sempre in differita, ovvero in agosto. Dato che i miei genitori erano emigrati a Milano poco più che ventenni, non avevamo morti da onorare al nord e solo con le ferie d’estate, che ci riportavano verso sud, si poteva ottemperare a quell’obbligo. La visita al cimitero era una delle incombenze prioritarie e si svolgeva il giorno successivo al nostro arrivo. Lungo quei silenziosi viali alberati, carichi di ombra e profumi mediterranei, ritrovavo antiche radici d’appartenenza. Si passava prima a trovare i nonni: quelli paterni se ne andarono quando ancora ero bambino. Foto in bianco e nero sulle lapidi, gesti lenti di mio padre, carichi di sacralità e rispetto. Un fazzoletto passava sulle immagini a pulire dalla polvere, le mani recapitavano baci e lo sguardo a stento tratteneva lacrime. Non mi perdevo un solo fotogramma di quell’immagine: i genitori sono gli esseri viventi più scrutati al mondo. Da qui poi, a scendere per vicinanza parentale e per comodità di visita, si andava a trovare i bisnonni, gli zii, gli affini e i conoscenti. Per me era come assistere ad un film: le immagini erano le architetture monumentali del luogo, i sotterranei freschi che odoravano di acqua stantia e fiori marcescenti, i campi con le distese di croci; il sonoro era il racconto di mio padre. È davanti a queste lapidi che ho appreso quasi tutto ciò che so dei miei antenati. Mia madre invece da bambina attendeva il 31 ottobre con una trepidazione tutta particolare: sua mamma era morta che lei aveva neanche tre anni e la tradizione di famiglia le aveva insegnato che in quella notte magica i morti erano soliti far visita ai vivi, anche se questi ultimi non se ne accorgevano. Unica traccia del loro passaggio notturno erano i dolcetti lasciati ai bambini, e ritrovati in una calza sul comodino della cameretta. Una notte la bambina decise che non si sarebbe addormentata: questa volta ci sarebbe riuscita a vedere sua mamma. L’attesa fu carica di suspance: il timore di quella manifestazione spiritica si mischiava al desiderio di rivedere quella madre strappatale via troppo presto e quasi dimenticata. Ma il sonno alla lunga la vinse e così anche quella volta i morti poterono adempiere ai loro uffici. Al mattino i dolcetti erano come sempre sul comodino, e alla bimba rimaneva la rabbia, temperata da un cioccolatino alla nocciola, di non essere riuscita a rivedere la madre.
Ecco, tutto questo era ciò che ci univa al mondo dei trapassati: il senso del sacro, l’affetto che affondava nelle profondità del mistero, il chiaro-scuro dell’oltre la vita che dava dimensione e contorni alla nostra esistenza. Ora invece, a dare la dimensione della distanza siderale che ci divide dal concetto antropologico della morte, abbiamo Halloween: una festa pacchiana, insulsa, comica piuttosto che spaventosa, estranea ai nostri costumi (quando ancora ne avevamo qualcuno…) e intrisa di guitterie carnevalesche. Una manifestazione chiassosa e banale, che non ha più nulla di quell’antichissimo rito celebrato dai nostri antenati. Un set hollywoodiano aviotrasportato su ciò che rimane della nostra povera cultura. E così anche la morte diviene farsa.

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