Prova


Non preoccuparti della pioggia, lasciala cadere” (Marco Brignoli, Rifugio Baroni al Brunone, Sentiero delle Orobie Orientali)

lunedì 16 settembre 2013

Marche & Abruzzo - Undicesima parte

Il mattino seguente si parte con l’incognita del maltempo: le previsioni danno acqua dal primissimo pomeriggio, e se così fosse, non ci sarebbe verso di evitarla. C’è come un senso di fatalismo e pacata rassegnazione in quest’ultima cavalcata: se anche pioggia fosse, ormai siamo al capolinea. Lasciata Roccamorice si scende lungo la Provinciale n.22 che aggira la forra e in un attimo siamo sull’altro versante. Un ultimo sguardo a questo angolo incantato di mondo e si riparte. Scendendo lungo una stradina stretta e tortuosa, superiamo una miniera abbandonata da tempo immemore, con tanto di macchinari arrugginiti e alloggi diroccati. Da queste parti, fino agli anni trenta del secolo passato, si estraeva bitume, e qui operava la ditta tedesca RHE&C. Pare che fosse tra le miniere meglio attrezzate del Regno d’Italia e che competesse alla pari con quelle del nord Europa. La strada poi s’impenna all’improvviso e si raggiunge Lettomanoppello. Superiamo quindi il Parco delle sorgenti sulfuree del fiume Lavino, e in breve siamo a Manoppello. Dalla guida turistica di Alfio apprendiamo che in questo luogo vie è un Santuario che conserva l’effigie del Volto Santo, ovvero l’immagine vera (“Veronica”) di Cristo. Seguendo le indicazioni stradali ci cimentiamo in un aggraziato esercizio canoro. Ci sono momenti nella vita che si è così felici che non si può contenere dentro di sé quest’emozione. E così si canta, o anche si fischia, come fischia la valvola di sicurezza di una pentola a pressione. E questo è uno di quelli. Una signora ci osserva dall’uscio della propria casa e ci dice sarcastica: “Si, si, vediamo se cantate anche dopo quella curva…!”. Ed in effetti la strada s’impenna e i tornanti si susseguono aspri, accompagnati dalle nicchie della Via Crucis che sale al Santuario. Al termine della salita ci accoglie la facciata policroma della Basilica, affiancata dal campanile. Il Volto Santo si trova conservato all’interno di una nicchia sul retro dell’altare e su di esso sono fiorite leggende e si sono susseguite accurate ricerche scientifiche. Secondo la tradizione quest’immagine sarebbe “acheropita”, ovvero non dipinta da mano umana, e secondo eminenti studiosi la somiglianza, ed anzi la sovrapponibilità alla Sacra Sindone, sarebbe pressoché assoluta. Tra l’altro questo velo ha la singolare caratteristica di essere visibile identicamente da ambedue le parti. E tanto per aggiungere qualche altro elemento al mistero, pare che esso sia giunto da queste parti nel 1506, portato da un enigmatico pellegrino che, dopo averlo consegnato nelle mani del fisico Giacomo Antonio Leonelli, scomparve improvvisamente e senza lasciare tracce.
Prima di salutare Manoppello facciamo un giro per il centro, un insieme di pittoresche viuzze, bassi sottopassi e piazzette, abbellite da incantevoli vasi di fiori colorati. Incrociamo anche un cartello che parla del “Cammino di Tommaso”, ma non ci si fa troppo caso. Sempre dalla guida turistica Alfio legge che il paese è caratterizzato da una serie di piccole botteghe d’artigianato locale, e la curiosità è tanta. Lungo il viale principale però non scorgiamo nulla di tutto ciò e, a domanda rivolta ad un passante, ci viene risposto che l’informazione non corrisponde al vero: proprio per nulla. Scesi da Manopello imbocchiamo la statale che porta al mare. Ancora una deviazione per visitare Santa Maria Arabona, un’abbazia cistercense del XII secolo, e si prosegue. Alessandra è dalle prime ore della mattinata che insiste per trovare un distributore di benzina fornito di pistola ad aria compressa per gonfiare le gomme della sua bicicletta. Verificandone la durezza mi accorgo che sono molto più gonfie delle mie, ma lei insiste. E la faccenda mi ricorda un po’ quei ciclisti che, non sentendosi “in giornata”, guardano continuamente i pattini dei freni pensando, e forse sperando, che ci sia un attrito involontario che rallenta la marcia. Alle porte di Chieti finalmente troviamo ciò che fa al caso nostro.
La salita in città è lunga e tediosa. Anche perché la pace e la tranquillità dei giorni passati è già un ricordo lontano, e il traffico automobilistico incrudelisce. Il centro non ci dice granché, e così ci dirigiamo verso la Cattedrale di San Giustino, forse l’unica vera attrazione del luogo. Giungiamo però mentre il custode sta serrando le porte. E sembra anche irritato perché i visitatori si attardano verso le uscite. Riaprirà alle 16.30. Troppo tardi. Dobbiamo accontentarci di ammirarla da fuori.
Prima di ripartire ci fermiamo presso un bar per un breve spuntino. Il cielo si è riempito di nuvole minacciose e l’aria è diventata più fresca. Si riparte con la remota speranza di scamparla anche questa volta. Veniamo giù da Chieti a tutta velocità e sulla nazionale incrociamo un gruppetto di ciclisti agguerriti che ci salutano beffardi. Lancio la sfida e invito gli amici ad agganciare il treno. Spingo forte sui pedali e, assumendo la posizione più aerodinamica possibile, si vola sul filo dei quaranta all’ora. Ci siamo, li abbiamo ripresi. Mi volto per strizzare l’occhio ai compagni, ma dietro di me c’è il vuoto…! Per centinaia di metri. E così sono costretto a rialzarmi e ad aspettare le tartarughe. Anzi, le “locuste”.
Senza quasi accorgercene, eccoci di nuovo al mare. Lasciamo la statale nei pressi di Francavilla e continuiamo in direzione sud. Un sottopasso ed eccoci sulla ciclabile che lambisce il mare. Ce l’abbiamo fatta. C’è un senso di grande felicità e soddisfazione, abbiamo portato a termine il nostro sogno su due ruote. E stiamo tutti incredibilmente bene. La foto con lo sfondo del mare è d’obbligo: peccato che predominino tonalità grigiastre e non i colori vividi di un bel pomeriggio d’estate.
Ad Ortona mancano ancora una decina di chilometri ed il cielo plumbeo ruggisce sempre più insistentemente come a volerci spingere, come ad avvisarci che non abbiamo più molto tempo. Seguiamo la ciclabile, ma usciti da Francavilla, essa termina nel nulla. Siamo costretti ad un avventuroso attraversamento di un tunnel molto basso, che probabilmente non è altro che uno scolo delle acque piovane a mare. Per fortuna asciutto. E così, un attimo prima che si scateni il diluvio, eccoci a destinazione.
Ortona è una cittadina di oltre ventimila abitanti e s’innalza su di un promontorio che domina il mare, al centro della costa adriatica abruzzese. Un balzo di oltre settanta metri consente infatti di osservare, oltre alla zona portuale sottostante, una grande porzione di costa che a nord si presenta ampia e sabbiosa, mentre a sud è costellata di golfi, insenature, scogliere e promontori.
Perché ho scelto Ortona come meta ultima del nostro viaggio? Per dare seguito all’iniziale proposito di terminare l’avventura con un paio di giorni al mare, “magari alle Isole Tremiti”. Durante le mie ricerche infatti mi ero imbattuto in un sito di promozione turistica che affermava: “Nel periodo estivo un veloce e moderno aliscafo collega quotidianamente il porto di Ortona, proprio sotto la città, con l’arcipelago delle Isole Tremiti”. Proprio ciò che faceva al caso nostro, dunque. Negli ultimi giorni prima della partenza, tuttavia, quando ormai era già tutto prenotato, Alessandra ed io ci siamo accorti di un piccolo particolare: sul sito della Tirrenia, compagnia di riferimento per la tratta, non vi erano informazioni aggiornate, né prezzi per raggiungere le Tremiti. E così, ho chiamato la Pro Loco e, solo allora, ho scoperto la verità: il servizio è stato interrotto qualche mese prima. L’unico modo per raggiungere ora le isole da Ortona è prendere il treno che va a Termoli e imbarcarsi da là. Con orari agghiaccianti, tra l’altro. Almeno per dei “vacanzieri” al termine di un tour come il nostro. E così, di fronte a questo imprevisto, siamo costretti a cambiare programma: la giornata di domani, la impiegheremo facendo l’ennesimo giro in bicicletta, nell’entroterra ortonese. Senza esagerare, sintende.
Ha smesso di piovere ed è giunto il momento di fare due passi per la città. Il primo luogo che visitiamo, così come suggerito dall’albergatore, è il vicino Museo della Seconda Guerra Mondiale. Ortona, tra il novembre del 1943 e il giugno del 1944, fu teatro di una delle più sanguinose battaglie che si combatterono sul suolo italiano. La “Linea Gustav” passava da qui e l’esercito tedesco, prima di cedere terreno di fronte all’avanzata degli Alleati, vendette cara la pelle. L’ordine di Hitler del resto era perentorio: “Resistere fino all’ultimo uomo”. Tra le macerie della cittadina, distrutta dai bombardamenti per oltre l’80 per centro del proprio patrimonio edilizio e monumentale, si combatté casa per casa, rione per rione, e i morti, tra militari e civili, furono più di tremila. In particolare furono i soldati del Commonwealth Britannico a pagare il tributo più altro, con gli oltre 1.600 caduti in combattimento. Poco fuori da Ortona, lungo la Statale n.16 Adriatica, sorge il Moro River Canadian War Cemetery, il luogo in cui vennero raccolte le spoglie dei ragazzi venuti a combattere per liberare l’Italia. Centinaia e centinaia di tombe disposte su file parallele e raggruppate a formare tredici settori indipendenti. E al centro del campo una croce issata su di un basamento ottagonale. Un’infinita distesa di lapidi bianche con il simbolo del paese cui apparteneva il caduto (la foglia d’acero per i canadesi, la felce argentata per i neozelandesi etc...), il nome, la data e il battaglione d’appartenenza. Ed un silenzio assoluto, interrotto solo dal ronzio di qualche insetto che accompagna la lettura di alcune di esse, si eseguono calcoli rapidi che sottraggono data di morte e data di nascita, scoprendo che si tratta quasi sempre di ragazzi poco più che diciottenni. Ragazzi venuti da altri continenti, e che forse neanche sapevano il perché di quella guerra. Come A.E. Lutz, del 48esimo reggimento Highlanders, anni 19; o G.A. David, del Royal Canadian Regiment, anni 24.
Passeggiando per Ortona, c’imbattiamo quasi per caso nella Basilica di San Tommaso, l’apostolo che prima dubitò della resurrezione di Cristo e poi credette (“Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!” - Vangelo di Giovanni, 20, 20-31). Ora si capisce il perché di quel cartello misterioso visto a Manoppello, Cammino di Tommaso: si tratta di un percorso religioso (ma anche turistico) di oltre 400 chilometri, un pellegrinaggio che da Ortona porta a Roma. La Basilica, durante l’ultima guerra fu quasi completamente distrutta, e nel 1949 venne riconsacrata. Al suo interno, in una cripta posta sotto l’altare maggiore, c’è la tomba di Tommaso, un sarcofago ricoperto di lamine d’oro in cui riposano i resti dell’apostolo. Durante la sua opera di evangelizzazione, quest’uomo raggiunse i confini della Terra allora conosciuta. Fu dapprima in Siria, poi in Mesopotamia, e ancora in India. E seguendo la Via della Seta si spinse fino in Cina. Subì il martirio in India e, dopo alterne vicende, i suoi resti giunsero ad Ortona nel 1258, grazie al navigatore Leone Acciaiuli, di ritorno da una missione nell’Egeo.
È strana la vita, le combinazioni che regolano la sorte dei nostri giorni a volte ci lasciano senza parole: chi mai avrebbe potuto immaginare che qui avremmo fatto questo incontro? Davanti a noi, dentro quell’urna c’è davvero quell’uomo che vide il Cristo risorto, che ne sondò incredulo le ferite ancora aperte. Questa constatazione non può lasciare indifferente chi si professa credente, e ancor di più fanno pensare i risultati della ricognizione scientifica svolta tra ’85 e ’86 dall’Università di Chieti e della Soprintendenza alle Antichità: “[…] i resti scheletrici sono quelli di un longitipo con ossatura genericamente gracile, di statura 160 + - 10 cm, di età scheletrica compresa tra i 50 e i 70 anni, affetto fra l’altro da una malattia reumatica che molto probabilmente è inquadrabile come spondilo-artrite anchilopoietica di Strumpell-Marie. Mostra le tracce di una frattura dell’osso zigomatico marginali al taglio dimostra che non dovette trattarsi di un fendente pesante, ma soprattutto di un tagliente ben affilato, la cui azione si è limitata al taglio, piuttosto che alla spezzatura meccanica”. E negli Atti di Tommaso così si descrive il suo martirio: “[…] Quand’ebbe terminata la preghiera, disse ai soldati: su, eseguite gli ordini di chi vi ha inviato. Quelli vennero e lo trapassarono tutt’insieme con le lance. Cadde e morì”.
Poco più oltre ecco spuntare come una sentinella di guardia, l’imponente Castello Aragonese, risalente al XV secolo e da poco restaurato. Da qui si domina tutta la costa e s’intuisce l’importanza strategica che Ortona ricoprì per secoli, in un continuo rapporto di amore e odio con la Repubblica Marinara di Venezia. Sulle mura che s’intervallano tra una torre e l’altra, crescono rigogliose piante di capperi che stuzzicano l’animo free cliber di Simona. Ah, se solo avesse le scarpette d’arrampicata…! [continua...].

Nessun commento:

Posta un commento