Prova


Non preoccuparti della pioggia, lasciala cadere” (Marco Brignoli, Rifugio Baroni al Brunone, Sentiero delle Orobie Orientali)

martedì 17 settembre 2013

Marche & Abruzzo - Ultima parte

Il mattino successivo si parte in bicicletta senza il peso delle borse. Il cielo non è ancora completamente sgombro dopo la perturbazione di ieri, e l’aria è piuttosto fresca. Ci lasciamo Ortona alle spalle e ci addentriamo verso l’interno seguendo la vecchia linea ferroviaria “Sangritana”. Oggi attiva solo su alcune tratte ed esclusivamente per il trasporto merci. La nostra idea iniziale era di arrivare fino a Guardiagrele, un paesino al confine con la Majella, ma sia la distanza, sia l’altimetria, ci inducono a desistere. Anche perché la stanchezza nelle gambe comincia ad affiorare prepotente. E così ci fermiamo molto prima, vale a dire a Crecchio, un piccolo e grazioso borgo medievale, al centro del quale si eleva il Castello Ducale. Siamo in quella zona geografica intermedia, che si frappone tra la costa adriatica e la fascia pedemontana della Majella. Di più non si può dare oggi. In questi luoghi, nei secoli, si sono succeduti Frentani, Romani, Goti, Bizantini, Longobardi, Franchi, Normanni. E chissà quante altre genti. Questa zona è una delle più ricche dal punto di vista agricolo, e la coltivazione dell’ulivo e della vite qui trova uno delle sue massime espressioni. Non per nulla qui si produce il Montepulciano d’Abruzzo, il primo vino italiano (della categoria DOC) per produzione. Nel castello c’è allestita la mostra dedicata ai bizantini e non ce la perdiamo di certo in questa giornata di relax.
E si riparte. Poggiofiorito, Arielli, Spaccarelli, paesini solitari che spuntano qua e là in un mare di tralci di viti e oliveti. Lanciano è là, a distanza di sguardo. Ma per oggi basta, non abbiamo più voglia di faticare: è tempo di mare. E così si punta verso San Vito Chietino. Da qui comincia la Costa dei Trabocchi, un tratto di litorale sul quale spuntano antiche strutture in legno per la pesca. Simili a giganteschi ragni, dalle zampe esili e lunghissime, queste palafitte sono collegate alla terraferma da un sottile ponticello e si protendono verso il mare con due o più bracci, dai quali vengono calate delle reti enormi. Queste strutture caratterizzano il basso Adriatico e punteggiano qua e là la costa fin giù nel Gargano. Quando ero bambino, e scendevo in treno a trovare i miei nonni, l’avvistamento dei trabocchi significava che mancava poco a Foggia, termine ultimo del viaggio notturno. La linea ferroviaria allora correva sul mare e la loro comparsa avveniva nella luce tenue del primo mattino. Quella scena aveva il sapore del sogno appena interrotto e del caffè-latte che mi porgeva mia madre, shakerato dal lungo sballottamento del treno in corsa. E per un bambino abituato alla città, alle strade e alle automobili tutto l’anno, quella visione improvvisa del mare, appena sveglio, aveva il gusto indicibile della felicità.
Giunti sul Promontorio Dannunziano, un luogo in cui il Vate soggiornò nell’estate del 1889, il nostro gruppo si divide: Simona e Alfio scendono al mare tramite un sentiero ripido che si ricollega all’ex tracciato ferroviario; Alessandra ed io, per nulla intenzionati a sorbirci quell’ultima fatica, ce ne torniamo verso Ortona, dove attenderemo i nostri amici presso il Lido dei Saraceni. L’ultima serata abruzzese trascorrerà tra i prelibati piatti dell’osteria La Vecchia Lanterna (indimenticabile il mio guazzetto di cozze, nel quale tutti attingeranno…), due passi in centro, e qualche attimo trascorso guardando le sfilate delle ragazze impegnate nelle selezioni di Miss Italia. Giusto qualche attimo, naturalmente, sennò poi Alessandra e Simona se la prendono.
Il mattino seguente si riparte alla volta di casa. Tornare in giornata è impossibile con i regionali, dato che occorrono ben cinque cambi, e così s’è deciso per un’ulteriore sosta a Rimini. Da Ortona riprendiamo la Statale Adriatica e risaliamo verso Francavilla. Il traffico è fastidioso e pericoloso e così, appena la viabilità lo consente, optiamo per stradine secondarie. E su una di queste incrociamo un’automobile in panne: un omone rubicondo, con moglie e figlioletta al seguito, ci chiede una spintarella per avviare il motore. Alfio ed io, con le gambe super allenate, gli diamo un tale abbrivio che la Cinquecento si mette subito in moto, senza fiatare…! Siamo molto fieri di noi stessi: un’opera buona a fine corsa è proprio quello che ci voleva. Simona nel frattempo è andata avanti da sola, e probabilmente non s’è accorta di nulla.
E così, dopo aver percorso poco più di una ventina di chilometri, eccoci a Pescara. Seguiamo tutto l’elegante lungomare fino al monumentale Ponte del Mare, un ponte ciclopedonale strallato che, con i suoi 446 metri di lunghezza, supera il fiume cittadino. Attraversiamo alcune vie del centro e raggiungiamo la stazione. La città è in pieno fermento e ci sono migliaia di turisti per strada. Il confronto con la silente l’Aquila è impressionante. Il Regionale per Ancona arriva puntuale, e durante il tragitto c’è il tempo di ripercorrere passo per passo tutte le meravigliose giornate trascorse insieme fino ad ora. È tempo di bilanci: da un’analisi sommaria, è la seconda tappa quella che è piaciuta di più in assoluto, ovvero quella collinare che da Urbino ci ha condotto a Jesi. 92 chilometri attraversando le Marche direzione est-sud-est. Al secondo posto si classifica l’ottava tappa, Amatrice - l’Aquila: il passaggio dal Lago di Campotosto e il Gran Sasso d’Abruzzo resteranno a lungo nei nostri ricordi. Sul gradino più basso del podio si piazza la Sulmona - Roccamorice, con l’ascesa al Passo di San Leonardo e la Majella. Nella classifica delle strutture più apprezzate invece la spunta il Nené di Urbino con una media voto superiore all’8,5. E mentre siamo intenti a commentare questi risultati arriva un sms di Lorenzo: “Avete sentito il terremoto? Si è staccata una frana dal Monte Conero nei pressi di Sirolo. Le rocce sono cadute in spiaggia”. No, per fortuna non abbiamo sentito nulla: a quell’ora eravamo ancora ad Ortona.
Ad Ancona si cambia: altro regionale. Superiamo Falconara Marittima, Senigallia, Fano. A Pesaro lancio la proposta: “Allora, che si fa? Scendiamo e rifacciamo la panoramica in senso inverso?”. Alfio mi guarda con grande freddezza, la sua espressione è al limite del disgusto: “Ma fa caldo…”. Alessandra le va dietro; Simona è indecisa. E così si tira dritto. Ripropongo l’idea a Gabicce. Alfio ed Alessandra scuotono il capo. Simona ci pensa su un attimo, e poi dando fiato ai suoi ariosi pensieri dice: “Come si scrive Gabicce? Ga-beach? Beach come spiaggia?”. Scoppiamo a ridere all’unisono. In effetti Simona non ha mai amato troppo questi luoghi balneari, e perciò non li conosce. Per lei mare significa Corsica, Sardegna, spiagge selvagge, solitarie, lontanissime dalla civiltà. Luoghi in cui per chilometri e chilometri non si vede anima viva. Ed infatti, pur essendo lei una persona estremamente adattabile ad ogni situazione, s’intuisce il suo disagio tra ombrelloni e lettini da mare.
L’arrivo a Rimini è come un ritorno a casa. Ci sono mille posti meglio di Rimini sulla riviera, questo è indubbio, ma per noi questo è un luogo speciale. Qui è nata la biciclettata di primavera, qui ogni anno ci si trova per dare il benvenuto alla bella stagione. E poi da queste parti ci troviamo a nostro agio, la gente è cordiale, si mangia bene, i prezzi sono onesti, e appena fuori dall’abitato ci sono strade solitarie che salgono dolcemente verso l’Appennino.
E così raggiungiamo il nostro hotel e ci concediamo un ultimo pomeriggio di mare. E sarebbe tutto meravigliosamente bello e rilassante, se solo i lavoranti dei lidi privati non cacciassero noi e gli sventurati stranieri (ma che figuraccia…) dall’arenile di loro pertinenza. Perché la concessione è concessione, e va rispettata: se si desidera sostare con l’asciugamano occorre andare alla spiaggia libera. La giornata si chiude con una cena esagerata presso il Club Nautico. Innaffiata da litri e litri di vino bianco fresco. Che scende giù dolce dolce, regalando sensazioni di piacevole deliquio e andatura da navi in mezzo al mare. E per concludere l’intramontabile limoncello: con bottiglia lasciata sul tavolo e seccata alla goccia.
Il mattino seguente si parte senza fretta. Raggiungiamo la stazione e attendiamo sui binari l’arrivo del regionale che ci porterà verso casa. In queste prime ore del giorno l’aria è decisamente frizzante e così Ale ed io cerchiamo i raggi caldi del sole. La raggiungo su di una panchina e mi siedo dandole le spalle. «Oh Ale, hai già chiamato Mario?». E lei prontissima: «Per certi versi sì, per certi versi no…». La risposta, pur nella fumosità del post-sbornia, mi risulta oltremodo sibillina. Chissà che vorrà dire…? Forse ha litigato con Mario e con quella risposta vuol farmi intendere qualcosa di più profondo, magari un disagio di cui non intende parlarne con me ora. A quel punto cambio argomento e le rilancio: «Certo che ieri abbiamo proprio esagerato…! Il limoncello poi mi ha dato la mazzata finale…!». E lei: «Ma dove, al piede?». Come sarebbe a dire al piede? Mi volto verso di lei strabuzzando gli occhi: «Ale, sei sicura di sentirti bene…?». E solo allora mi accorgo che la mia amica sta parlando al telefono con un’altra persona. C’è da riderne fino a casa…!
Sul treno c’è una gran folla e la pilotina è piena di biciclette messe disordinatamente e bagagli. Un tipo che sembra uscito dal film Qualcuno volò sul nido del cuculo butta la sua bicicletta sulle altre e si siede sui gradini d’accesso della pilotina dicendo: «Bon, io mi siedo qui…». Noialtri siamo sul predellino, con le biciclette e i bagagli ancora tutti da sistemare e questo strano figuro tira fuori il giornale e comincia a leggere beatamente. Alfio gli fa presente che sarebbe opportuno che egli levasse le sue nobili terga dal passaggio, ma questi risponde: «Ma non c’è posto…». E Alfio, irritato: «Ora te lo faccio vedere io come salta fuori il posto…». Ed infatti, facendo ricorso a tutto il suo raziocinio e alle sue spiccate doti organizzative, il nostro amico sistema tutto nel migliore dei modi. Certo avesse buttato dal finestrino anche i bagagli degli altri passeggeri, tipo Totò a colori, ci sarebbe stato ancora più agio, ma va bene così.
A Bologna Alfio scende. Il saluto è fugace e avvolto dalla confusione dei passeggeri che salgono e scendono dal treno. Lo vediamo dal finestrino mentre si allontana con la sua bicicletta, in una folla di sconosciuti che ignora la nostra storia. E a noi sale un groppo alla gola, perché quelle spalle che si allontanano sono i titoli di coda di quest’avventura.
Il nostro treno prosegue fino a Piacenza. Una mezz’ora di attesa ed ecco quello successivo. Venti minuti e sono a Lodi. Anche in questo caso i saluti sono assai rapidi: mi sorge il sospetto che oltre alla fretta del treno che riparte, ci sia anche la volontà di non soffermarsi troppo su questo momento d’addio. Perché inevitabilmente tutto ciò comporta il dolore del distacco. Da domani non saremo più un gruppo, ma torneremo ad essere soli con le nostre esistenze, ognuno rapito dalla propria vita. Ci resteranno i ricordi, e la voglia di ripetere quest’esperienza il prima possibile. Fa uno strano effetto pensare che da ora in poi non si ripartirà, che non ci saranno più chilometri da percorrere per arrivare alla fine del giorno. Quello che abbiamo vissuto in queste due settimane è stato talmente intenso che sembra di essere stati via anni; viaggiare in bicicletta è un’esperienza che riempie ogni momento della giornata, che non spreca attimi esistenziali ed anzi li moltiplica all’infinito, regalando piccoli sprazzi di eternità. Anche perché pedalare riporta a quell’antica gioia provata da bambini, quando la bicicletta regalava le prime inebrianti ali della libertà. Un gioco che col tempo è diventato passione, condivisione, conquista. E dunque gioia. Rumiz nel suo libro Tre uomini in bicicletta scrive: “… domani non si riparte, le sacche non si rifanno, il cavallo resta nelle scuderie a far biada. Siamo increduli: non di essere arrivati fin lì, ma di non dover ripartire. Al nomadismo ci si adatta all’istante, per tornare sedentari ci vuole tempo”. E ancora: “Oggi me ne accorgo. Quel viaggio leggero ha ordinato tutte le esperienze precedenti, dando loro un senso nuovo. Dormire ogni notte in un posto diverso mi ha regalato stabilità interiore. Ridurre a due sacche tutte le mie cose è diventato un confort impareggiabile. Andare con lentezza, anziché caricarmi d’ansia, ha costretto una calma sconosciuta a immigrare in me. Allontanarmi dal mio mondo mi ha conciliato con me stesso, facendomi sentire a casa”.
Confermo e sottoscrivo.

Luigi Yanez d’Ausilio, 5 settembre 2013

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