Prova


Non preoccuparti della pioggia, lasciala cadere” (Marco Brignoli, Rifugio Baroni al Brunone, Sentiero delle Orobie Orientali)

lunedì 30 settembre 2013

La modernità e la pasta fatta in casa

Il fine settimana appena passato l’abbiamo trascorso a Porlezza, sulle rive del lago di Lugano. Ospiti di Simona. Venerdì pomeriggio ci siamo trovati in Piazzale Lotto a Milano, e siamo partiti in automobile. Poco traffico, strada quasi del tutto sgombra. Alle volte basta veramente poco per evitare code infinite in uscita dalle grandi metropoli: in questo caso è bastata una semplice allerta meteo.
Giunti comunque tardi abbiamo pensato di andare in pizzeria. Anche se a Simona l’idea di restare a casa non dispiaceva: lei è un’un’amante della cucina e mettersi ai fornelli non le pesa mai. Il giorno successivo lunga escursione nel cuore della boscosa Valsolda: partiti da Darsio, a quota 500, siamo arrivati fino ai 1.800 di Cima Fiorina. Perdendoci chiaramente. E sì perché l’idea era di fare un giro ad anello e di tornare per altra via al punto di partenza, ma a causa della scarsa – anzi pressoché inesistente – segnaletica sui sentieri, ci siamo ritrovati sul confine Svizzero. Uno di quei molti transiti in cui un tempo gli spalloni, aggirando la dogana, portavano merci e persone da un paese all’altro. Completamente fuori zona, e lontanissimi da dove avevamo lasciato l’automobile, abbiamo deciso di puntare verso la Val di Rezzo, per poi scendere a Seghebbia, un paesino che dai suoi 1.100 metri di quota domina la piana di Porlezza. Da qui, per fortuna, un amico di Alessandra ci è venuto a prendere in auto: risparmiandoci una dozzina di chilometri su asfalto. Alla sera, dopo aver fatto una rapida spesa presso il vicino supermercato abbiamo messo le gambe sotto il tavolo e abbiamo onorato più che brillantemente la cucina di Simona. Ed in effetti la nostra amica ha fatto del suo meglio per deliziarci: gnocchi fatti a mano e portati in tavola con ben tre tipi di condimento (ragù di carne, pesto alla genovese, sugo di pomodoro e peperoni); pasta corta condita alla stessa maniera; pane fresco casereccio; salsine varie, dolci e piccanti; torta di fichi; marmellate di frutta di stagione. Un tripudio di sapori che ha fatto felici tutti i commensali. Già peraltro resi euforici dalla fiasca del Chianti. Le donne presenti non facevano che lodare la bravura di Simona, il gusto delle pietanze, i giusti abbinamenti di sapori; e anche gli uomini non potevano chiudere bocca. Anche se, come si sa, la cucina di mamma è sempre la migliore. Sono nati poi spontanei i consueti paragoni, dai quali è emerso purtroppo, come l’arte culinaria si stia perdendo quasi definitivamente nelle nostre case: “non abbiamo tempo”; “non c’è più la voglia di cucinare”; “ormai c’è già tutto pronto e basta scaldare nel forno a in micro-onde”; “non siamo più capaci di cucinare”; “nessuno più insegna (e nessuno più ha voglia di imparare)”. Fa tristezza ascoltare questi discorsi: è un mondo che lentamente sta scomparendo, una sapienza che, non essendo più tramandata di madre in figlia, si sta spegnendo e che è destinata a lasciare immense praterie alla cultura dell’appiattimento, dell’approssimativo, della cucina rapida e meno impegnativa possibile; o peggio ancora, di quella propinata in televisione da novelli apprendisti stregoni. Una grande perdita che già oggi stiamo piangendo. L’arte della cucina è cultura, è storia, tradizione; una conoscenza che non è solo finalizzata al sostentamento e alla buona alimentazione, ma è anche rito, convivialità, condivisione, atmosfera, alchimia che lega la terra e i suoi prodotti agli uomini. Padre Enzo Bianchi, Priore della Comunità Monastica di Bose, ha scritto pagine immortali su questo argomento.
E così, riflettendo su questo tema, mi sono imbattuto in un articolo che parlava di come la tecnologia stia cambiando le nostre esistenze. Un recente sondaggio condotto dal sito britannico kaz-type.com ha stilato la classifica delle 20 abilità di cui l’uomo odierno non ha più bisogno. Al primo posto troviamo “l’arte del rammendo”. Ecco, non è più necessario saper mettere due punti. E se calandomi per tirar su una penna caduta mi si aprono i calzoni? Niente di che preoccuparsi: si portano dalla sarta (ammesso che ne esista ancora qualcuna) o si buttano via…! Conseguentemente troviamo la seconda voce: “lavorare a maglia”. Ormai gli ultimi esseri umani che si impegnano in tale attività, a parte i carcerati, pare che siano gli allievi dei guru della meditazione: sembra infatti che intrecciare fili e ricavarne tessuti aiuti a rilassarsi e a ritrovare equilibrio interiore. Sul gradino più basso del podio troviamo “lucidare l’argenteria” (forse perché, data la crisi, ci si è venduto tutto, compreso gli argenti di famiglia). E a seguire si scopre “fare il pane in casa” (che a Simona invece piace tanto…), “montare una tenda”, “scrivere cartoline” (in Italia credo che siano rimasti due soli soggetti disposti a scrivere e spedire cartoline: Salvo ed io…), “conoscere a memoria i numeri di telefono degli amici”, “fare la manutenzione dell’auto da soli” etc…! Da segnalare che tra le abilità di cui l’uomo moderno necessita, non v’è quella di saper “montare mensole o scaffali”. Difficile capire la ragione di tale esclusione: forse perché si da per scontato che comprando una mensola venga a casa nostra anche l’operario che ce la monta. E ancora non c’è bisogno di “conoscere le capitali del Mondo”. Ma sì, che ci frega di sapere queste inutili nozioni? Viva l’ignoranza. E comunque basta un click sullo smartphone. Più comprensibile la voce “avere una calligrafia chiara ed ordinata”. In effetti con l’avvento dei computer non c’è quasi più nessuno che scriva a mano.
Quello che tuttavia mi ha stupito di più di questa classifica è il punto numero 11: “conoscere il galateo a tavola”. Ovvero, all’uomo moderno assiso a tavola non è fatto obbligo di conoscere le norme di buona creanza. E perché poi solo a tavola, aggiungerei: a cosa servono, e soprattutto chi pratica più le buone maniere e l’altruismo per strada, sui mezzi pubblici, al supermercato? Ma si, cosa volete che contino queste bazzecole nella nostra ipertecnologica società proiettata verso il futuro? Oggi tutti hanno fretta, non c’è tempo, nessuno ha più un attimo da perdere: ogni momento della nostra vita è programmato e scandito da tappe forzate. E la fretta è la più acerrima nemica dell’altruismo e della buona educazione. L’educazione ormai non è più un valore quasi per nessuno ed anzi, quanto più ci si dimostra gentili e di buone maniere, più si corre il rischio di passare per deboli, e dunque di essere ignorati o peggio ancora vilipesi. Non per nulla, gli esperti di comunicazione, consigliano di infarcire le nostre e-mail di toni gretti e aggressivi, piuttosto che di leziosità e cortesia: in questo mare di indifferenza e maleducazione solo le prima infatti avranno qualche chance di essere lette e di ricevere una risposta.
Ecco, pare che tutto questo sia molto moderno…! Che Iddio protegga ora e sempre la nostra cara Simona…!

Fonte: http://www.corriere.it/tecnologia/13_settembre_07/abilita-vita-moderna-marchetti_8b5cd984-17a9-11e3-8a00-11cf802b0067.shtml

venerdì 27 settembre 2013

La pausa pranzo con i colleghi? Solo se siete dei creativi

Oggi è venerdì e come ogni venerdì, avvicinandosi l’ora della pausa pranzo, negli uffici pubblici e privati ogni impiegato, sentendo gorgheggiare il suo ventrone, comincia a chiedersi: “Dove si andrà a pranzo oggi, pizzeria o ristorante?”. E già perché l’ultimo giorno della settimana lavorativa, almeno quello - in quest’Italia alle prese con la crisi economica - , solitamente prevede questa piccola divagazione alla mortifera routine quotidiana, fatta di tramezzini nauseanti, insalatone monumentali, panini al limite della commestibilità e schiscette dai contenuti misteriosi. Pranzi consumati in tutta fretta davanti al pc o, peggio ancora, negli affollati bar prospicienti le strade trafficate cittadine; e conclusi con dei caffè tiepidi, che sanno vagamente di cimici spiaccicate. Che poi, agli sfortunati impiegati tocca anche sentirsi dire: «Siete i clienti più simpatici della piazza…! Proprio perché siete voi cerchiamo di offrirvi il meglio del meglio». E ad ognuno viene in mente questo leggiadro pensiero: “Caspita, allora se non fossimo neanche simpatici rischieremmo l’avvelenamento…”.
Ma oggi no, oggi ci si concede un pranzo come Dio comanda: e che diamine. In queste occasioni, ovviamente, vanno forte i primi: costano meno e riempiono. Spaghetti alla carbonara, pennette zucchine e gamberi, tagliolini panna e salmone: all’impiegato medio in libera uscita piace averci tanta “roba” nel piatto. E poi, perché no, anche un bel quartino di rosso. Fa niente che poi al ritorno si avverte un leggerissimo senso di pesantezza. Ma si sa, la vita non può essere solo sacrificio e privazioni: ben venga dunque anche un bel momento di convivialità assisi intorno ad una tavola ben imbandita. E poi è risaputo, mangiare in comitiva produce effetti rilassanti sulla mente e sul corpo, facilita la socializzare e contribuisce a scaricare tensione nervosa. E a quanto pare aiuta anche la digestione. Tutto bene dunque? E no: qui casca l’asino…! La rivista scientifica PLos One ha pubblicato recentemente uno studio condotto da tre università tedesche e guidato da Werner Sommer, della Humboldt University, nel quale si sostiene che pranzare al ristorante in compagnia riduce le funzioni cerebrali disturbando l’esecuzione di compiti dettagliati e riducendo la capacità di individuare errori. Per arrivare a questa conclusione i ricercatori hanno selezionato 32 donne e le hanno divise in due squadre: alla prima è stato concesso un’ora di tempo per pranzare al ristorante in compagnia; alla seconda soli 20 minuti, senza allontanarsi dal luogo di lavoro. Dai risultati è emerso che, se da un lato pranzare fuori e in compagnia aiuta a rilassarsi e a riprendere il lavoro con maggior ottimismo, dall’altro questo “stacco” rende meno attenti e meno concentrati nelle prime ore del pomeriggio. Ecco, figuriamoci se non saltava fuori qualcuno a dirci che anche la pausa pranzo in compagnia non va bene: c’era da immaginarselo di questi tempi. Eppure, come suggeriscono gli stessi ricercatori, non tutto è male: «La riduzione del controllo cognitivo può essere negativo per alcuni scopi, ma non per tutti. Ad esempio, un controllo cognitivo ridotto è uno svantaggio quando sono richiesti uno stretto auto-monitoraggio delle performance e un’attenzione dettagliata agli errori, come nei lavori in laboratorio e in fabbrica o nell’elaborazione numerica. In altre situazioni, l’attenuarsi del controllo cognitivo può essere un vantaggio, come quando si cercano l’armonia sociale o la creatività». Dunque riassumendo, se siete dei creativi potete pranzare fuori e in compagnia; se invece siete degli operai addetti alla catena di montaggio, meglio restare ben sigillati tra le quattro mura della fabbrica. Ditemi voi se è giustizia questa…! Qualche mese fa peraltro, il sito britannico London Offices.com, rese noti i risultati di un sondaggio sul momento di massima improduttività giornaliero. Dalle interviste condotte su 400 impiegati inglesi, risultò che la maggior parte delle risposte indicava le 14.55. Ovvero i minuti immediatamente successi al rientro dalla pausa pranzo. In questi stramaledetti momenti, in cui un sonno apocalittico suggerirebbe di sdraiarsi in un qualche dove e ronfare beatamente, agli sfortunati impiegati non resta che pascolare sui social network, chattare con qualcuno/a di intrigante e organizzarsi la serata. Qualsiasi altra attività è pressoché impossibile. Dal sondaggio inoltre è emerso che il momento più produttivo della giornata è alle 10.26; alle 15.00 si prova l’irresistibile voglia di concedersi una pausa caffè; e diciotto minuti prima del termine dell’orario lavorativo si lascia cadere la penna e si comincia a fissare nervosamente la lancetta dei minuti. E qui stiamo parlando di inglesi…, mica di italiani: figuriamoci…! Ed infatti da noi, quando qualcuno andandosene saluta con l’espressione “buon lavoro a tutti”, immancabilmente da un angolo remoto dell’ufficio si ode: «Buon lavoro? Ma buon lavoro non si augura nemmeno ai cani…».

Fonte: http://www.plosone.org/article/info%3Adoi%2F10.1371%2Fjournal.pone.0070314

giovedì 26 settembre 2013

Il test del portafogli smarrito: ecco qual è la città più onesta del Mondo

Vi è mai capitato di smarrire qualche oggetto a cui tenete particolarmente, tipo che so, il portafogli? Brutta sensazione, vero? Di solito si reagisce sempre alla stessa maniera, a qualsiasi latitudine della Terra: ci si irrita, volano improperi, si cerca nei luoghi più assurdi e impensabili – scoprendo tra la polvere reperti archeologici di cui si era persa memoria – , si importunano amici, parenti e conoscenti vari. Il tutto in un crescendo rossiniano di agitazione e nervosismo. La mente vaga in cerca di risposte, s’interroga sul dove e quando possa essersi verificato il triste evento, e soprattutto cerca di comprendere il come. Disattenzione, dimenticanza, casualità, furto: quale sarà il motivo di tale scomparsa? Quale che sia la ragione, di certo c’è che il risultato non cambia: siamo fottuti. Superato questo momento, lentamente l’aggressività si stempera lasciando in bocca il gusto amaro della rassegnazione. E da lì comincia angosciante la trafila per riottenere patenti, carte di credito, fidelity card, tessere della bocciofila e documenti vari. Passeranno mesi prima che tutto l’iter burocratico si concluda e nel frattempo ci resta tutto il tempo per stramaledirci e per escogitare nuove strategie per non incorrere in altre brutte sorprese: so di persone che si sono fatte cucire tasche interne per mutande ascellari, rigorosamente a prova di borseggio. In rarissimi casi poi, dopo giorni intensissimi passati tra agghiaccianti denunce di smarrimento e sfibranti formulari al cospetto di funzionari di banca fintamente costernati, giunge inaspettato un plico postale: qualcuno ha rintracciato miracolosamente il portafogli e con inaspettato senso civico, ha pensato bene di spedirlo al legittimo proprietario. Cosa ci sia dentro, e soprattutto cosa non ci sia più, è facilmente immaginabile. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, tale riconsegna non serve più a nulla: disperando nell’eventualità di un ritrovamento infatti, il cittadino medio ha già avviato le pratiche per i nuovi documenti. E così, onde evitare di fornire spiegazioni infinite e dettagli convincenti alle autorità preposte, si preferisce far finta di nulla e seppellire i vecchi documenti in un qualche remoto cassetto.
Recentemente la rivista Reader’s Digest ha voluto testare il livello di onestà degli abitanti di sedici città sparse in giro per il mondo. Per fare ciò alcuni reporter hanno lasciato cadere un portafogli per le strade di queste città e ne hanno seguito a distanza le sorti. All’interno del portafogli una somma di denaro – l’equivalente di cinquanta dollari – , un numero di cellulare, biglietti da visita ed una foto di famiglia. Insomma, quanto bastava per identificare e rintracciare il legittimo proprietario. Nel complesso sono stati lanciati 192 “ami”, 12 per ogni città. E cosa ne è saltato fuori da questo “wallet test”? Che meno della metà dei portafogli è tornato nelle mani dei legittimi proprietari (90 su 192). Il che è già un grande risultato tenendo conto dei nostri standard nazionali. Scorrendo la lista delle città messe alla prova, si scopre che non v’è neanche una italiana. Di certo una ragione ci sarà: non credo che si tratti di un pregiudizio nei nostri confronti. Anche se, tutto sommato, la cosa non sarebbe neanche particolarmente grave, considerato che tra elusione, evasione e frodi fiscali varie, in Italia scompaiono ogni anno 120 miliardi di euro dalle casse dell’erario. Analizzando i dati si scopre che ad Helsinki, su 12 “ami” lanciati, ben 11 sono state le riconsegne: un quasi en plein che ci da la misura dell’onestà insita nell’animo dei popoli del Nord Europa. A Mumbai (India,) invece sono state 9 le restituzioni; a Budapest e New York 8; a Mosca e Amsterdam 7. Se perdete invece il portafogli a Berlino e Lubiana avete il 50 per cento di probabilità di ritrovarlo. E a scendere troviamo Londra e Varsavia con 5; Budapest, Rio de Janeiro e Zurigo con 4 (si, avete capito bene…, Zurigo…); Praga con 3; Madrid con 2. In fondo alla classifica Lisbona: 1 su 12. Dalla ricerca emerge dunque che ricchezza o povertà di una città, poco hanno a che fare con l’onestà dei comportamenti: Mumbai è una delle città più povere dell’India, eppure si posiziona al secondo posto in questa speciale classifica; Zurigo è tra le città più ricche e care del mondo eppure si piazza nella ultime posizioni. Di certo ogni tessuto urbano del globo dispone della sua bella dose di farabutti e lestofanti, su questo non ci piove, ma questi dati forniscono comunque alcune indicazioni: sulla faccia della Terra esistono ancora società in cui l’onestà è sentita come un valore assoluto, sacro, imprescindibile. E dunque capillarmente diffuso.
E in Italia, come sarebbe andato a finire l’esperimento in una qualunque delle nostre città? Bah…, meglio sorvolare. Una volta mi capitò di trovare una borsetta in un padiglione della fiera di Milano: diligentemente mi recai all’ufficio oggetti smarriti ed effettuai la consegna. Persi più di un’ora tra generalità, verifica del contenuto, verbale di constatazione, tentativo di rintracciare la proprietaria alla mia presenza etc…! Una seccatura che tutto sommato potrebbe giustificarsi con il prezzo da pagare per avere un paese più civile. L’altra giorno però, parlando con un collega, ho appreso che nel Nord Europa la consegna di oggetti smarriti nelle mani delle autorità avviene in maniera rapidissima: “Oh trovato questo là fuori” – “Bon, perfetto: grazie tante e arrivederci”. Tutto qui. Da noi invece c’è bisogno della carta bollata, sempre ed ovunque. Anche perché il tasso d’illegalità è talmente diffuso che è meglio cautelarsi abbondantemente. Mi raccontava per esempio una mia amica ingegnere civile, che in Italia esistono le norme sulla sicurezza più restrittive di tutta Europa. Me ne sono immediatamente compiaciuto. E lei a me: «Ma che hai capito? Qui si stringono il più possibile le maglie, perché si sa che quasi nessuno rispetta le regole. Ecco perché s’innalza sempre più l’asticella della prevenzione e della sicurezza…! In altri paesi europei invece basta che la legge prescriva ciò che è strettamente indispensabile: in altre parole c’è la certezza quasi matematica che se per tirar su un pilastro ci vogliono i tondini sagomati e il calcestruzzo, a nessuno verrà in mente di metterci i tondini lisci e la sabbia…». Come dire che il livello di civiltà di un paese è inversamente proporzionale alla quantità di grida manzoniane necessarie a regolarlo.

Fonte:  http://www.rd.com/slideshows/most-honest-cities-lost-wallet-test/#slideshow=slide1

martedì 24 settembre 2013

Oddio, mi scordo tutto…!

È da un po’ di tempo che mi accorgo di dimenticare quasi tutto: vado in una stanza bello convinto e carico di entusiasmo, mi avvicino ad un mobile e tutto d’un tratto mi pianto: “Cosa diavolo sono venuto a fare qua…? Boh…”. E me ne torno da dove son venuto con le classiche pive nel sacco. Oppure scendo velocemente dal primo piano per andare in cucina, giungo davanti al frigorifero, ne apro lo sportello e… resto per un tempo indefinito a rimirar alimenti e bevande varie con un’espressione a metà tra il dubbioso e lo sconcertato. E intanto il mento si allunga e simultaneamente comincio a ondeggiare la mano destra, con le dita riunite a pera: “E quindi…?”. E così me ne risalgo su a scrivere, mentre la lasagna surgelata rimane ben conservata nel congelatore, tanto che poi a ora di pranzo, come di consueto, mi trovo costretto a darmi del “coglione”. E ancora, mi vesto velocemente, scendo in strada, salgo in macchina, allaccio la cintura, avvio il motore e… rimango con lo sguardo puntato sul parabrezza e perso nel vuoto: “Dov’è che dovevo andare…? Boh. Compleanni? Neanche a parlarne. Ricorrenze? Peggio che andar di notte. Una tragedia. Una volta addirittura mi persi il libretto di circolazione dell’automobile. Evidentemente, in un eccesso di zelo, avevo reputato necessario dare una pulita all’abitacolo e una riordinata ai documenti: mai dare retta alle manie per le pulizie. Da tutto questo fervore ne discese che il libretto scomparve. Dovetti andare all’Aci, fare denuncia di smarrimento, reimmatricolare il veicolo: una rottura di palle mai vista. Dopo un paio di mesi il maledetto saltò fuori da un anfratto del ripostiglio: come ci fosse finito là dentro è un mistero…! Ne feci un falò  a fuoco molto lento.
Nella mia vita ho conosciuto persone assai più distratte di me: il mio amico Stefano per esempio non riusciva a tenere a mente nulla di nulla, e come giustificazione a tale sua mancanza sosteneva, non senza una punta di orgoglio, che in famiglia tutti erano distratti: come se si trattasse di un blasone dinastico. C’era poi un collega di nome Lorenzo, che ogni mattina doveva percorrere una trentina di chilometri per giungere da casa al posto di lavoro. E ogni santo giorno dimenticava qualcosa d’importante a casa: era un continuo su e giù lungo le strade della Brianza. Una mattina raggiunse il colmo: nel silenzio sonnacchioso delle prime ore della giornata, un urlo squarciò l’atmosfera soporosa: “Porca puttanaccia vacca…”. Gli chiese cosa fosse accaduto ed egli: “Ho dimenticato di nuovo gli occhiali da vista a casa…”. Al che qualcuno lasciò cadere una frase incredula: “Ma guarda che ce l’hai sul naso…”. In effetti era molto distratto anch’egli. Ma tornando a me devo dire che non sono mai stato un fenomeno nel campo del ricordo a breve termine e questo mi ha sempre causato qualche problema. Ecco perché, ad esempio, quando viaggio tendo a prendere appunti. Sul lungo periodo, viceversa, ho una memoria prodigiosa. Tanto che coloro che mi conoscono solo parzialmente si sorprendono non poco di tale capacità. Alle volte, per esempio, mi capita di ricordare non solo pensieri e opinioni di una data persona, ma intere frasi pronunciate dalla stessa in un determinato contesto. E così, nell’ambito di un ragionamento, spesso mi diverto a ripetere parola per parola ciò che l’interlocutore ha detto tempo addietro, e di cui al momento non ha alcun ricordo. E l’effetto è sorprendente, quasi un naufragio sensoriale: lo sguardo manifesta sorpresa immediata e stupore totale, e la frase classica che vi si accompagna è quasi sempre la stessa: “Stavo per dire la stessa identica cosa…”. Ovvio che sì, sono parole tue.
Stando ad un recente sondaggio condotto dalla 3 M Company, azienda produttrice del “post-it” e riportato da La Stampa di oggi, pare che le persone in media tendano a scordarsi almeno quattro cose al giorno. Il che, tradotto equivale a dire che ognuno di noi si scorda almeno 1460 cose nell’arco dell’anno. Grave? Bah, dipende da cosa ci si dimentica: certo se si lascia il gas aperto e si accende una sigaretta potrebbe essere un problema. Ad ogni modo, sottolineano gli esperti, tali mancanze non equivalgono necessariamente ad un declino cognitivo. Possiamo tirare un sospiro di sollievo. Ma quali sono le dimenticanze più ricorrenti? Stando al sondaggio al primo posto si classifica “il non sapere dove si sono messe le chiavi”. In effetti o si dispone di una rastrelliera, dove d’abitudine si collocano i mazzi di chiavi, o l’eventualità che esse vengano smarrite è assai alta: svuota-tatasche, ripiani, comodini, cassetti, tavolini, ogni dove potrebbe essere il luogo adatto su cui lasciar cadere distrattamente questo fardello divenuto inutile una volta usato. Per le donne poi, esiste un’insidia ancora maggiore: la borsetta. All’interno di questo inseparabile accessorio femminile, si aprono sempre praterie sterminate in cui è quasi impossibile rintracciare alcunché: un enorme buco nero che divora tutto e tutti e lascia sgomenti ed esterrefatti. Un non luogo metafisico in cui pare esserci caoticamente tutto e invece non c’è nulla. Al secondo posto della classifica uno dei misteri più insondabili del creato: “non ricordare il perché si è andati proprio in quella stanza”. Come spiegato più sopra, tale situazione fa precipitare l’individuo in un drammatico stato confusionale che fa nascere spontaneamente domande come “Chi sono?”; “Da dove vengo?”; “Dove vado?”. Se l’individuo è fortunato troverà qualcuno che gli risponderà: “A Foggia…”. Scorrendo poi l’elenco delle dimenticanze troviamo: “uscire di casa senza telefonino”. Poco male se non fossimo ridotti allo stato in cui siamo. Pare infatti che un individuo di normali facoltà psichiche, di fronte ad un altro individuo che armeggia con il proprio telefonino, provi una spinta inarrestabile a mettere mano a sua volta al telefonino che conserva più o meno distrattamente da qualche parte. Recenti studi hanno quantificato in termini temporali la possibilità di resistere a tale impulso: dieci secondi netti. Non di più. Trascorso tale tempo, o il soggetto afferra il proprio telefonino o si scatena in lui un istinto feroce, incontrollabile e potenzialmente clamoroso. Ecco perché è meglio stare alla larga dalle persone che dichiarano di aver dimenticato il telefonino da qualche parte. Ci sono a seguire quelli che “dimenticano a casa il portafogli”. Anche in questo caso è meglio tenersene alla larga: come hanno dimenticato il portafogli, così dimenticheranno di restituire il denaro chiestovi in prestito. Spesso fingendo biecamente la dimenticanza. Vi sono poi coloro che “dimenticano di scongelare l’alimento che s’intendeva cucinare”. Io sono uno di questi disperati. Il sondaggio peraltro ha rivelato anche una differenza di genere nell’ambito delle dimenticanze più ricorrenti: dai dati pare infatti che gli uomini abbiano il doppio delle probabilità di scordarsi anniversari di nozze e date di compleanno della propria partner. Vecchio stereotipo da sempre oggetto di sghignazzo e sberleffo. Da che mondo è mondo, l’uomo si è sempre scordato di queste ricorrenze, ed anzi la donna attuale, così bene abituata fino ai nostri giorni, pretende che il suo partner giunga a casa la sera del compleanno e dell’anniversario di nozze completamente dimentico. Segue scenata di collera – anch’essa artefatta – e a seguire riappacificazione. Fa parte del copione ormai e l’uomo che vuol bene alla sua donna, in queste occasioni deve cadere letteralmente dalle nuvole, o meglio ancora scendere dal pero: la parte però dev’essere completa e ben recitata. Sennò non vale.
Tra le note finali del sondaggio si legge che mentre le donne tendono a soffrire e provare frustrazione per le proprie dimenticanze, tra gli uomini prevale un maggior sentimento d’indifferenza: “Ah già…! Ma sì, chi se ne frega…”. O qualcosa del genere.
E per chiudere la chicca: tra i duemila intervistati, venti uomini hanno confessato di essersi dimenticati di un funerale. Poco male, finché non si tratta del proprio…!

Fonte: http://www.lastampa.it/2013/09/24/scienza/benessere/quante-cose-dimentichiamo-ogni-giorno-quattro-nceYiKsxKZBkX5LRlDtn5L/pagina.html

lunedì 23 settembre 2013

Ragioni e torti della caccia oggi

Domenica 15 settembre si è aperta ufficialmente la stagione venatoria in Lombardia. In tutte le campagne della regione, e fino ad inverno inoltrato, le doppiette avranno libertà di impallinare allodole, beccacce, conigli selvatici, fagiani, lepri, quaglie, tordi, tortore, merli, pernice rossa, cornacchie nere e cornacchie grigie. Questo fino al 30 dicembre. Fino al 30 gennaio è possibile cacciare inoltre beccaccini, codoni, colombacci, fischioni, gallinelle d’acqua, gazze, germani reali, ghiandaie, marzolaie etc… etc…! Sempre che sia rimasto qualche esemplare in circolazione, s’intende. Nel calendario venatorio 2013-2014 per la caccia vagante in pianura della Provincia di Brescia si legge anche: “La caccia alla volpe successivamente all’8 dicembre 2013 e fino al 30 gennaio 2014 è consentita per tre giorni settimanali a scelta anche con l’uso del cane da seguita e/o da tana, purché esercitata da squadre di cacciatori con le modalità stabilite dal Regolamento provinciale”. Caccia alla volpe…, ma vi rendete conto…? E chi se lo sarebbe mai immaginato che nelle nostre campagne si potesse ancora organizzare una battuta di caccia alla volpe…! Eppure, così è…
Come ogni anno impazzano le polemiche tra animalisti e sostenitori della caccia: i primi sostengono che la caccia debba essere abolita (come del resto ha fatto la Regione Piemonte), i secondi affermano che tale attività non provoca alcun danno all’ecosistema faunistico ed anzi ne migliora la selezione naturale abbattendo i capi più deboli e consentendo ai più forti di proliferare. Si dice poi che i cacciatori amano la natura e l’ambiente e che la caccia, oltre a essere uno sport sano (non certo per le bestie impallinate, immagino) sia anche un modo per procacciarsi cibo da consumare. Vale anche per le cornacchie e le volpi? Bah…, ne dubito.
Ad ogni modo, sabato scorso ho fatto una passeggiata a piedi per la mia campagna, e ovviamente mi sono imbattuto in alcuni cacciatori. Mi è andata bene: nessuno mi ha scambiato per un tordo. La cosa che più mi ha irritato è che costoro venivano fuori da ogni dove, perfino dai sentieri sui quali troneggiavano cartelli di divieto d’accesso e che io mai ho potuto percorrere. Il cacciatore infatti - dato che paga una discreta cifretta per la sua licenza - ha libero accesso quasi ovunque, a differenza dei comuni mortali. E così, non è raro che ci si trovi di fronte a qualche doppietta in luoghi inimmaginabili. Qualche anno fa un mio vicino di casa ebbe i vetri della finestra del bagno disintegrati da una bordata a pallettoni. E per fortuna non c’era nessuno in bagno in quel momento. Senza considerare tutti gli incidenti di caccia - perlopiù ridicoli, se non si trattasse di tragedie - che avvengono ogni anno e che vedono vittime molto spesso gli stessi cacciatori, divenuti improvvisamente bersaglio di altri cacciatori.
Questa mattina Giovanna ha postato su Facebook un pensiero sull’argomento, e a seguire alcuni suoi “amici” hanno lasciato dei commentati. Anche abbastanza veementi. Eccoli:

Stamattina alzando le tapparelle sento degli spari; perplessa all’inizio, capisco che è periodo di caccia. Mi sono sempre chiesta che tipo di Uomo c’è dietro il cacciatore che dice di esserlo per amore della natura, per il piacere di stare nella natura, come mi è capitato di sentire. A me però pare una contraddizione, amare la natura e sparargli addosso, boh… E io, che pure la amo e vorrei uscire ora a farmi una corsa senza la paura di essere io stessa impallinata e, correndo tra le campagne, godermi la vista di quei pochi animali rimasti a popolarla??? (Giovanna).

La Regione Piemonte ha cancellato la “caccia” dal vocabolario. Speriamo che le altre seguano a ruota (Luigi).

Anche se viene dall’uomo sfamato il gatto continua a cacciare topi e uccelli, forse anche sol per diletto… Direi che l’uomo anche se ora trova tutto sugli scaffali del supermercato, non può negare che una parte di lui caccia ancora il cibo della natura (Elena).

Non credo che l’HOMO ECONOMICUS abbia bisogno di cacciare per nutrirsi, c’è stata un po’ di evoluzione da quando era costretto a farlo, ora lo fa solo per sport e sparare su altri esseri viventi non è uno sport, secondo me (Giovanna).

Ma a qualcuno di voi piace l’anatra all’arancia…? Penso di sì e le anatre non si cacciano…? Quando fa comodo tutti contro la caccia e poi sui tavoli ti trovi i salami di cervo… Quindi lasciamo stare sti cacciatori che alla fine portano del cibo a casa e non lo buttano nei canali (Emiliano).

Ma cervi, anatre, cinghiali, fagiani, quaglie e quant’altro, si allevano e si macellano come gli animali da carne. Che bisogno c’è di sparare agli animali selvatici? Il fatto è che sotto sotto ogni cacciatore uccide per il gusto di ammazzare e depredare la natura (Gianfranco).

Mi dici dove ci sono allevamenti di cinghiali e cervi…? Sai sono molto interessato così se non li uccido io cacciatore li uccide l’allevatore. Ma ti rendi conto di ciò che hai appena scritto…? Se sono da allevamento va bene altrimenti no. Sai… la Natura…! Quando è da allevamento tutto va’ bene, ma se li cacci allora no. Alla fin fine sono animali anche quelli da allevamento, ma se mangi quelli tutto bene e se invece ne prendi uno in campagna no… (Emiliano).

Ueh bel fieu, cerca di ragionare: intanto io non ho scritto che “se mangi animali d’allevamento va bene e se mangi animali presi in campagna no”. Ho rilevato che avendo praticamente disponibile qualsiasi specie commestibile anche di allevamento, la caccia non si giustifica più come attività per procacciarsi cibo. L’uomo nasce raccoglitore e cacciatore per sopravvivere. Con l’evoluzione diventa agricoltore, addomestica animali e diventa allevatore, perché così facendo le disponibilità di cibo “sicuro” aumentano. Nell’era in cui viviamo, la caccia per sopravvivenza, si giustifica solo presso quelle popolazioni che vivono ancora allo stato primitivo come gli indios del Matogrosso. Per l’uomo delle società moderne non ha più una ragione di sopravvivenza, ma è diventata unicamente (per me) un pessimo fattore ludico, definito impropriamente sport. Quanto agli allevamenti di animali “selvatici” (che non sono più selvatici perché allevati), ti consiglio di informarti. Non solo le carni di cervo, di cinghiale, di fagiano e quant’altro ben di dio puoi comprare al supermercato è d’allevamento, ma d’allevamento sono pure le bistecche di struzzo, le orate, i branzini, le cozze, le vongole e chi più ne ha più ne metta. Checché tu ne possa pensare, ti posso garantire che non vengono catturate, ne con fucili, ne con canne da pesca (Gianfranco).

Quindi anche i pescatori che catturano il pesce in mare sono da additare…! Dato che possiamo benissimo allevare i pesci… (Elena)

Come battuta non è male. Ma solo come battuta. Mi sembra di essere stato fin troppo chiaro, ma vedo se riesco ad articolare meglio. Come la caccia, anche la pesca nasce per necessità: mangiare e sopravvivere. Il mare, purtroppo, è sempre stato considerato risorsa infinita. Al contrario degli allevamenti di animali terrestri, che risalgono agli albori dell’umanità, gli allevamenti ittici (salvo quelli di acqua dolce che risalgono al medio evo) sono una conquista abbastanza recente. La ragione è semplice: fino alla metà del secolo scorso non si era mai posto il problema dell’esaurirsi del pescato. Il prelievo intensivo ha drasticamente diminuito le disponibilità di pesce in diverse aree del mondo, i periodi di fermo pesca sono aumentati esponenzialmente e spesso l’attività dei pescatori non è più conveniente dal punto di vista economico. Da qui la necessità di “allevare”, e sempre più specie ittiche sono oggetto di allevamento. È notizia recente, che si sta pensando addirittura di allevare tonni, cosa non facile perché sono migratori. Chiarite le ragioni che hanno portato alla nascita degli allevamenti, resta il problema di stabilire fino a che punto hanno ragione di esistere in epoca moderna caccia e pesca per ragioni di necessità. Sicuramente molto meno di quanto non l’avessero in altri periodi storici. Ma l’oggetto di questo scambio di opinioni, era se ha ragione d’essere la caccia (e la pesca) come “sport”. A mio avviso, cessate le ragioni di sopravvivenza, no. Qualsiasi sport degno di questo nome, presuppone che gli avversari possano competere alla pari, e non può mai contemplare fra le sue regole la morte dell’avversario. Il cacciatore è armato, la cacciagione no. A differenza dei cacciatori che usano armi, i pescatori usano l’inganno (l’esca) tuttavia i più evoluti si limitano a stressare un po’ il pesce, lo tirano a riva, lo fotografano e poi lo rimettono in acqua. Per concludere: 1) Io credo che nel rispetto delle leggi vigenti di una determinata regione o stato, uno debba avere anche la libertà di fare “attività venatoria”. Purché, come sostengono alcuni cacciatori “evoluti”, ci si limiti a prelevare dalla natura gli interessi e non ci si mangi l’intero capitale. Qualora le leggi al proposito si rivelassero inefficaci (e sono inefficaci), è necessario cambiare le leggi e proibire l’attività venatoria. 2) Non è possibile definire sport ciò che sport non è. Se proprio uno non sa fare a meno di sparare, vada al poligono a fare tiro al piattello. Sport nel quale siamo pluricampioni olimpici (Gianfranco).

Emiliano io non mangio carne! Sono contro la caccia! Cerco di essere corretta utente della natura che mi circonda e vorrei lasciare ai prossimi almeno un fringuello da ascoltare all’imbrunire! (Ermelinda).

venerdì 20 settembre 2013

I soldi non fanno la felicità, ma essere felici paga

Che i soldi non facciano la felicità è risaputo. Anche se non si è mai capito chi abbia coniato questo proverbio. Qualcuno sostiene che il primo a pronunciare queste parole sia stato un tizio povero in canna, dopo aver letto la favola di Esopo, quella della volpe e l’uva. Di certo sappiano chi ha completato il concetto, aggiungendo “senza dubbio stanno parlando dei soldi degli altri” (Woody Allen). Qualcun altro, poi è andato più oltre: “Se i soldi non danno la felicità… figuriamoci la miseria!!?”. E ancora: “Si potrebbe obiettare che i soldi, è vero, non danno la felicità, però aiutano, eccome se aiutano!”. E via discorrendo. Nella sostanza però il concetto non cambia: fior di studi scientifici hanno scandagliato negli anni questo delicato rapporto che lega l’essere umano al denaro, all’avere, all’accaparramento, e dai risultati sembra davvero che la ricchezza abbia poco a che fare la felicità. Eric Fromm in Avere o Essere? scrive: «Marx affermava che il lusso è un vizio esattamente come la povertà e che dovremmo proporci come meta quella di “essere” molto, non già di “avere” molto». Poi però, ne L’arte di amare, aggiunge: «La felicità dell’uomo moderno: guardare le vetrine e comprare tutto quello che può permettersi, in contanti o a rate». E in questa considerazione amara e sarcastica, c’è tutto la sua visuale pessimistica sulla china che il genere umano ha intrapreso dal dopoguerra in poi.
Il professore Satya Paul, docente di economia presso la University of Western Sydney, ha preso per buono il vecchio proverbio, ma ha provato ad invertire i fattori e si è chiesto: “Ok, money can’t buy happiness, but being happy pays?”. Ovvero, assodato che i soldi non fanno la felicità, è possibile che le persone felici guadagnino di più delle persone infelici? E cioè che la felicità consenta un maggior successo in campo economico? Per dare una risposta a tale domanda il Professor Paul ha preso in esame i dati relativi all’indagine “Household, Income and Labour Dynamics in Australia”, comparandoli con i livelli di felicità dichiarati da 9.300 persone, negli anni 2001 - 2005. Il risultato ha dato conferma all’intuizione: le persone felici e ottimiste erano più attive e più produttive. E oltre a ciò, avevano un livello di stress lavorativo più basso rispetto a coloro che si dichiaravano infelici e pessimisti. La ricerca ha evidenziato che le persone soddisfatte e in armonia con loro stesse e con l’ambiente lavorativo, guadagnavano 1.766,70 dollari australiani (circa 1.200 euro) in più rispetto a chi, su una scala da 0 a 10, dichiarava un livello di soddisfazione pari a 0. Ma non finisce qui perché lo studio ha dimostrato che esistono due categorie di lavoratori felici e soddisfatti: ci sono quelli che lavorano più ore perché amano il proprio lavoro (con conseguente busta paga più pesante) e quelli che lavorano meno per poter godere di un maggior equilibrio tra lavoro e vita. In entrambi i casi, le persone felici tendono a lavorare meglio e ad essere più produttive, e dunque a guadagnare di più rispetto a quelle insoddisfatte. Dalla ricerca emerge inoltre che le cattive condizioni di salute di un lavoratore incidono negativamente sulla produttività e che conseguentemente il reddito tende a calare fino a 793,83 dollari all’anno (576 euro); che i laureati guadagnano tendenzialmente 8.408 dollari in più all’anno rispetto agli altri lavoratori; e che le donne guadagnano 8.781 dollari in meno rispetto ai maschi. Chi vive in una grande città australiana poi, tende a guadagnare circa duemila dollari in più rispetto a chi vive in una piccola, e la paga più alta si consegue all’età di 50 anni.
Cosa se ne trae da tutto ciò? In primo luogo che o il proprio lavoro piace, o è meglio cambiare aria. Restare comporta insoddisfazione, infelicità e, come abbiamo visto, reddito più basso. Certo la situazione odierna non consente grosse opportunità, e lasciare il certo (anche se vomitevole) per l’incerto comporta un coraggio da leoni. Ma occorre anche pensare a se stessi, alla propria esistenza, e se nel futuro non si vede altro che noia e angoscia, c’è davvero da chiedersi cosa sia davvero importante. Martha Medeiros scrive: “Lentamente muore chi non capovolge il tavolo, chi è infelice sul lavoro, chi non rischia la certezza per l’incertezza, chi rinuncia ad inseguire un sogno, chi non si permette almeno una volta di fuggire ai consigli sensati”. Massimo Fini, contro-corrente come al soltio, fa un passo oltre: «Nella situazione ideale si troverebbero i disoccupati e i cassintegrati, se non fossero morsi dal tarlo di non avere ciò che altri posseggono. Vivere senza lavorare è sempre stato il sogno dell’uomo, finché ha avuto la testa». E aggiunge: «Qualche anno fa, in una grigia giornata dei primi di ottobre, mi trovavo in uno dei splendidi Bagni liberty di Agrigento […]. La spiaggia era deserta. C’era solo un ragazzo a qualche sdraio di distanza. Attaccai discorso. Mi raccontò che per quattro mesi d’inverno lavorava come muratore a Torino, il resto lo passava nella sua città natale vivendo di quanto aveva guadagnato e potendo contare su quella rete familiare che al Sud esiste ancora. “Certo” disse “non posso permettermi la Porsche, ma ho a mia disposizione il tempo”. “Caro ragazzo” risposi “tu forse non lo sai, ma sei un filosofo”. Noi, invece, siamo tutti degli emeriti coglioni» (Il Fatto Quotidiano, 7 settembre 2013).

Fonte: http://www.smh.com.au/lifestyle/life/money-cant-buy-happiness-but-being-happy-pays-20130917-2tx7o.html

giovedì 19 settembre 2013

Pausa caffè, cosa buona e giusta

Nella noiosa e mortifera giornata lavorativa, trascorsa a traccheggiare sbadigliando tra pratiche ributtanti e progetti insulsi, c’è un momento quasi magico che giunge più o meno puntuale ogni giorno a salvare i disperati impiegati: la pausa caffè. A metà mattinata e nel primo pomeriggio, questo rito imperdibile è considerato da sempre l’àncora di salvezza di ogni ambiente lavorativo. Il perché è più che scontato: si stacca la cosiddetta “spina”, si scambiano due parole con i colleghi, ci si confronta, si divaga. Bastano pochi minuti in genere per rinfrancare lo spirito e per dare nuovo slancio - perlopiù apparente, occorre dirlo - alle apatiche prestazioni lavorative degli svogliati dipendenti. E tutto ciò a dispetto di quello che pensano la maggior parte dei titolari, manager e dirigenti d’azienda, per i quali meno pause equivalgono a più produttività. Parola oscena, che andrebbe cancellata dal vocabolario.
Ora a dar consistenza e dunque maggior legittimità a questo momento di pausa lavorativa, giunge uno studio condotto dall’Università di Copenaghen, e pubblicato sulla rivista Symbolic Interaction, su dipendenti del pubblico impiego: dai dati emergerebbe infatti che la pausa caffè avrebbe un ritorno vantaggioso sia per lo stato psico-fisico del lavoratore, sia per il rendimento produttivo. E questo sarebbe dovuto al fatto che quel piccolo momento di socializzazione tra colleghi aiuterebbe l’impiegato a resistere allo stress da ufficio. E dunque ad essere più efficiente sul posto di lavoro. Un altro studio del dipartimento di psicologia della New York University, pubblicato sulla rivista Neuron, ha dimostrato che durante le pause il cervello recupera e riesce a “carburare” meglio, con ricadute positive sulla produttività. Il che tradotto in termini monetari significa che al datore di lavoro conviene lasciare qualche minuto di pausa al dipendente, perché in questo modo il dipendente gli fa guadagnare qualche quattrino in più. Il concetto è espresso in maniera piuttosto rozza, ma quando si parla di denaro non v’è altro modo di esprimersi. Verso metà mattinata dunque, si assiste a questo particolarissimo rito corale che si manifesta sempre nelle stesse identiche forme: un impiegato comincia ad agitarsi quasi impercettibilmente dietro la propria scrivania, provocando scricchiolii fastidiosi e rumorini vari; dall’altro lato dell’ufficio qualcuno recepisce il messaggio in codice e comincia a fare qualche leggero versaccio gutturale (tipo sbruffi, soffiate nervose, schiocchi di labbra etc…); al centro della stanza un terzo si allontana dallo schermo del computer e si stiracchia abbandonandosi violentemente sullo schienale della sedia. E da lì è tutto un precipitare degli eventi, fino a che non ci si alza quasi all’unisono e ci si dirige verso la saletta del caffè. Non senza aver dato uno sguardo di sottecchi al capo-ufficio, sperando che non si sia accorto di nulla. Questi naturalmente ha visto tutto e, pur masticando parole e pensieri di una ferocia inaudita, fa finta di nulla. Davanti alla macchinetta ovviamente si forma il capannello e si da il via alla chiacchiera libera. Di solito si attacca con qualcosa di inerente al lavoro, ma è solo il pretesto per rompere il ghiaccio: del lavoro non frega niente a nessuno. In quei momenti ognuno butta là quel che vuole, al pari di un condannato al 41-bis al quale sia stato detto: “Bon, hai dieci minuti di tempo per dire quello che ti pare”. E così si parla di qualsiasi argomento, dal cinema alle vacanze, dall’abbigliamento alla cucina. Il che va ancora bene, per carità. La faccenda diventa invece insostenibile qualora in ufficio ci sia una collega diventata da poco mamma, o ancora peggio, nel caso il suo pargoletto sia giunto in età scolare. La conversazione in quel caso viene monopolizzata dalla componente femminile del gruppo che non fa che sorridere, entusiasmarsi e spesso commuoversi per le prodezze del giovane virgulto: per il nuovo vestitino, il nuovo zainetto, le lacrime del primo giorno d’asilo o di scuola. In questo caso l’unica alternativa per non farsi travolgere dallo sconforto è scolare il più in fretta possibile il proprio fetido caffè e uscire dall’ufficio per fumare una sigaretta. In perfetta solitudine.
Viceversa, qualora il ragionamento viri sul più classico dei temi da luogo lavorativo, vale a dire il pettegolezzo, conviene trattenersi. Primo perché c’è sempre qualcosa di salace da non perdersi in queste circostanze; e secondo perché la vostra assenza potrebbe innescare inevitabilmente un ulteriore pettegolezzo su voi stessi. Meglio essere sempre presenti quando si diffonde il demone della chiacchiera. E dunque improvvisamente si abbassa il tono della voce, ci si stringe a “coorte” e si sussurrano confidenze che innescano immancabilmente sorrisini maligni e bordate di “ooohhh”, “ma daaaiiii”, “ma dici sul seriooooo?”. E in quei piccoli momenti di entusiasmo elettrizzante e socializzazione goliardica sulla pellaccia di un altro povero disgraziato, si ritempra lo spirito degli impiegati e si allontana lo stress. E se qualcuno poi si erge a moralizzatore improvvisato e manifesta un certo qual disappunto, ecco pronta la frase fatta che va bene per ogni situazione: “Ma si dai, noi non ridiamo di lui: ridiamo con lui…”. E così anche la coscienza è salva.
Cosa non si farebbe pur di tirare la giornata…!

mercoledì 18 settembre 2013

Le tre regole per tenersi in forma e campare più a lungo

E così, terminata questa lunga cavalcata vacanziera in bicicletta, eccoci di ritorno alla nostra vita quotidiana. Con tutto ciò che essa comporta. E non aggiungo altro. Non so voi, ma appena giunto a casa mi ha preso uno strano malessere, come uno stato di ansia da immobilità forzata. Certo fermarsi all’improvviso dopo tutto quel pedalare tra Marche e Abruzzo non è stato per niente facile: l’immagine che più si avvicina a questo particolare stato psicologico che mi si affaccia alla mente è quella di un esploratore trans-continentale a cui sia stata imposta d’urgenza una camicia di forza. Un urlo che squarcia la quiete…! Peraltro, associato allo stato psicologico destabilizzato dalla ritrovata sedentarietà, si è associata una febbriciattola fastidiosa, causata verosimilmente dall’aria condizionata presente sui treni regionali che ci riportavano a casa: non c’è niente da fare, su questi convoglio o si schiatta di caldo, o si rabbrividisce di freddo. Tertium non datur. E guai se qualcuno cerca di temperare l’uno o l’altro aprendo o chiudendo porte e finestrini: dal nulla appare il conduttore che, con sguardo di rimprovero e gesto plateale, chiude con la chiave tubolare ogni serratura possibile e immaginabile.
Passata la febbre, mi sono riaffacciato timidamente in strada, con l’intenzione di prendere una salutare boccata d’aria e riassaporare gli spazi aperti. Ho percorso poco più di un centinaio di metri e all’altezza dell’inguine ho avvertito un dolore fortissimo, come se le ganasce di due giganteschi molossi mi si fossero serrate addosso con tutta la loro forza. “Porcaccia miseriaccia vacca - ho imprecato sottovoce per non fare scenate tra la gente - , ma tu guarda che mi doveva capitare”. Si trattava dei famigerati doloretti post-esercizio fisico prolungato. Caratteristica di tali risentimenti: nessun sintomo durante l’attività, ma improvviso decadimento fisico-atletico, con associata tragica mialgia muscolo-tendinea, subito dopo qualche giorno di inattività. Mi sono fermato e, claudicando in maniera pietosa, ho fatto marcia indietro. Peccato però che un’amica, alla svolta dell’angolo di una strada, mi abbia intercettato: «Ma ciaoooo...! Allora, che mi racconti di bello?». La più insulsa e ricorrente delle domande che il genere umano abbia mai formulato. Mi verrebbe da dire: “Guarda, riparliamone tra un paio d’anni…! Sempre che riesca a superare la notte…”. Ma lei, entusiasta più che mai, e senza attendere la mia risposta: «Ho letto del vostro viaggio in bicicletta…! Racconta un po’ dai…». Ed io, che a malapena mi reggevo in piedi tra gli spasmi di dolore ho dovuto simulare anche grande entusiasmo: «Ah guarda…, un viaggio fantastico…!». D’altra parte come si fa a deludere cotanta aspettativa.
Ad ogni modo, c’è voluta una settimana buona di riposo per recuperare uno straccio di condizione fisica. Le ferie comunque, a parte questi piccoli dettagli insignificanti, lasciano sempre qualcosa di buono, oltre ai ricordi. L’abbronzatura è pur vero che se ne va assai velocemente, lasciandoci più pallidi ed emaciati che mai, ma in compenso con noi rimane quella sana volontà di tenersi in forma e di volersi più bene, maturata durante le lunghe giornate di relax. In fondo durante le vacanze, oltre a tutto il resto, quello che cambia radicalmente è lo stile di vita. C’è più tempo per se stessi, si fa più attività fisica, c’è meno stress, ci si alimenta meglio. Tutti elementi che contribuiscono al nostro benessere psico-fisico. Ecco, se riuscissimo a mantenere questo standard per tutto l’anno, i guadagni in termini di salute sarebbero davvero notevoli. Ed anche in termini di longevità. A dircelo è una ricerca dell’Università della California di San Francisco, condotta insieme al Preventive Medicine Research Institute. Secondo gli studiosi modificare la propria dieta, ridurre lo stress e fare attività fisica leggera, può aiutare ad aumentare l’aspettativa di vita. Pare infatti che uno stile di vita sano riesca ad incidere sulla lunghezza dei telomeri, ovvero quella sorta di “cappucci” posti alle estremità dei cromosomi e che hanno la funzione di determinare l’invecchiamento cellulare. Più i telomeri sono lunghi, più si allontana il rischio di una grande varietà di malattie croniche. E da ciò ne discende tendenzialmente anche un aumento della durata della vita. Stando alle risultanze scientifiche sembra che i risultati migliori si riscontrino in presenza di una dieta a base di vegetali (ad alto contenuto di frutta, verdura e cereali non raffinati, e povera di grassi e carboidrati raffinati), di un moderato esercizio fisico (camminare trenta minuti al giorno, sei giorni alla settimana), e della riduzione dello stress (yoga dolce a base di stretching, respirazione e meditazione). Ovvero come essere in vacanza tutto l’anno. Che tutto sommato non mi sembra un sacrificio enorme…!

Fonte: http://www.huffingtonpost.com/2013/09/16/healthy-lifestyle-telomeres-lengthen_n_3916235.html

martedì 17 settembre 2013

Marche & Abruzzo - Ultima parte

Il mattino successivo si parte in bicicletta senza il peso delle borse. Il cielo non è ancora completamente sgombro dopo la perturbazione di ieri, e l’aria è piuttosto fresca. Ci lasciamo Ortona alle spalle e ci addentriamo verso l’interno seguendo la vecchia linea ferroviaria “Sangritana”. Oggi attiva solo su alcune tratte ed esclusivamente per il trasporto merci. La nostra idea iniziale era di arrivare fino a Guardiagrele, un paesino al confine con la Majella, ma sia la distanza, sia l’altimetria, ci inducono a desistere. Anche perché la stanchezza nelle gambe comincia ad affiorare prepotente. E così ci fermiamo molto prima, vale a dire a Crecchio, un piccolo e grazioso borgo medievale, al centro del quale si eleva il Castello Ducale. Siamo in quella zona geografica intermedia, che si frappone tra la costa adriatica e la fascia pedemontana della Majella. Di più non si può dare oggi. In questi luoghi, nei secoli, si sono succeduti Frentani, Romani, Goti, Bizantini, Longobardi, Franchi, Normanni. E chissà quante altre genti. Questa zona è una delle più ricche dal punto di vista agricolo, e la coltivazione dell’ulivo e della vite qui trova uno delle sue massime espressioni. Non per nulla qui si produce il Montepulciano d’Abruzzo, il primo vino italiano (della categoria DOC) per produzione. Nel castello c’è allestita la mostra dedicata ai bizantini e non ce la perdiamo di certo in questa giornata di relax.
E si riparte. Poggiofiorito, Arielli, Spaccarelli, paesini solitari che spuntano qua e là in un mare di tralci di viti e oliveti. Lanciano è là, a distanza di sguardo. Ma per oggi basta, non abbiamo più voglia di faticare: è tempo di mare. E così si punta verso San Vito Chietino. Da qui comincia la Costa dei Trabocchi, un tratto di litorale sul quale spuntano antiche strutture in legno per la pesca. Simili a giganteschi ragni, dalle zampe esili e lunghissime, queste palafitte sono collegate alla terraferma da un sottile ponticello e si protendono verso il mare con due o più bracci, dai quali vengono calate delle reti enormi. Queste strutture caratterizzano il basso Adriatico e punteggiano qua e là la costa fin giù nel Gargano. Quando ero bambino, e scendevo in treno a trovare i miei nonni, l’avvistamento dei trabocchi significava che mancava poco a Foggia, termine ultimo del viaggio notturno. La linea ferroviaria allora correva sul mare e la loro comparsa avveniva nella luce tenue del primo mattino. Quella scena aveva il sapore del sogno appena interrotto e del caffè-latte che mi porgeva mia madre, shakerato dal lungo sballottamento del treno in corsa. E per un bambino abituato alla città, alle strade e alle automobili tutto l’anno, quella visione improvvisa del mare, appena sveglio, aveva il gusto indicibile della felicità.
Giunti sul Promontorio Dannunziano, un luogo in cui il Vate soggiornò nell’estate del 1889, il nostro gruppo si divide: Simona e Alfio scendono al mare tramite un sentiero ripido che si ricollega all’ex tracciato ferroviario; Alessandra ed io, per nulla intenzionati a sorbirci quell’ultima fatica, ce ne torniamo verso Ortona, dove attenderemo i nostri amici presso il Lido dei Saraceni. L’ultima serata abruzzese trascorrerà tra i prelibati piatti dell’osteria La Vecchia Lanterna (indimenticabile il mio guazzetto di cozze, nel quale tutti attingeranno…), due passi in centro, e qualche attimo trascorso guardando le sfilate delle ragazze impegnate nelle selezioni di Miss Italia. Giusto qualche attimo, naturalmente, sennò poi Alessandra e Simona se la prendono.
Il mattino seguente si riparte alla volta di casa. Tornare in giornata è impossibile con i regionali, dato che occorrono ben cinque cambi, e così s’è deciso per un’ulteriore sosta a Rimini. Da Ortona riprendiamo la Statale Adriatica e risaliamo verso Francavilla. Il traffico è fastidioso e pericoloso e così, appena la viabilità lo consente, optiamo per stradine secondarie. E su una di queste incrociamo un’automobile in panne: un omone rubicondo, con moglie e figlioletta al seguito, ci chiede una spintarella per avviare il motore. Alfio ed io, con le gambe super allenate, gli diamo un tale abbrivio che la Cinquecento si mette subito in moto, senza fiatare…! Siamo molto fieri di noi stessi: un’opera buona a fine corsa è proprio quello che ci voleva. Simona nel frattempo è andata avanti da sola, e probabilmente non s’è accorta di nulla.
E così, dopo aver percorso poco più di una ventina di chilometri, eccoci a Pescara. Seguiamo tutto l’elegante lungomare fino al monumentale Ponte del Mare, un ponte ciclopedonale strallato che, con i suoi 446 metri di lunghezza, supera il fiume cittadino. Attraversiamo alcune vie del centro e raggiungiamo la stazione. La città è in pieno fermento e ci sono migliaia di turisti per strada. Il confronto con la silente l’Aquila è impressionante. Il Regionale per Ancona arriva puntuale, e durante il tragitto c’è il tempo di ripercorrere passo per passo tutte le meravigliose giornate trascorse insieme fino ad ora. È tempo di bilanci: da un’analisi sommaria, è la seconda tappa quella che è piaciuta di più in assoluto, ovvero quella collinare che da Urbino ci ha condotto a Jesi. 92 chilometri attraversando le Marche direzione est-sud-est. Al secondo posto si classifica l’ottava tappa, Amatrice - l’Aquila: il passaggio dal Lago di Campotosto e il Gran Sasso d’Abruzzo resteranno a lungo nei nostri ricordi. Sul gradino più basso del podio si piazza la Sulmona - Roccamorice, con l’ascesa al Passo di San Leonardo e la Majella. Nella classifica delle strutture più apprezzate invece la spunta il Nené di Urbino con una media voto superiore all’8,5. E mentre siamo intenti a commentare questi risultati arriva un sms di Lorenzo: “Avete sentito il terremoto? Si è staccata una frana dal Monte Conero nei pressi di Sirolo. Le rocce sono cadute in spiaggia”. No, per fortuna non abbiamo sentito nulla: a quell’ora eravamo ancora ad Ortona.
Ad Ancona si cambia: altro regionale. Superiamo Falconara Marittima, Senigallia, Fano. A Pesaro lancio la proposta: “Allora, che si fa? Scendiamo e rifacciamo la panoramica in senso inverso?”. Alfio mi guarda con grande freddezza, la sua espressione è al limite del disgusto: “Ma fa caldo…”. Alessandra le va dietro; Simona è indecisa. E così si tira dritto. Ripropongo l’idea a Gabicce. Alfio ed Alessandra scuotono il capo. Simona ci pensa su un attimo, e poi dando fiato ai suoi ariosi pensieri dice: “Come si scrive Gabicce? Ga-beach? Beach come spiaggia?”. Scoppiamo a ridere all’unisono. In effetti Simona non ha mai amato troppo questi luoghi balneari, e perciò non li conosce. Per lei mare significa Corsica, Sardegna, spiagge selvagge, solitarie, lontanissime dalla civiltà. Luoghi in cui per chilometri e chilometri non si vede anima viva. Ed infatti, pur essendo lei una persona estremamente adattabile ad ogni situazione, s’intuisce il suo disagio tra ombrelloni e lettini da mare.
L’arrivo a Rimini è come un ritorno a casa. Ci sono mille posti meglio di Rimini sulla riviera, questo è indubbio, ma per noi questo è un luogo speciale. Qui è nata la biciclettata di primavera, qui ogni anno ci si trova per dare il benvenuto alla bella stagione. E poi da queste parti ci troviamo a nostro agio, la gente è cordiale, si mangia bene, i prezzi sono onesti, e appena fuori dall’abitato ci sono strade solitarie che salgono dolcemente verso l’Appennino.
E così raggiungiamo il nostro hotel e ci concediamo un ultimo pomeriggio di mare. E sarebbe tutto meravigliosamente bello e rilassante, se solo i lavoranti dei lidi privati non cacciassero noi e gli sventurati stranieri (ma che figuraccia…) dall’arenile di loro pertinenza. Perché la concessione è concessione, e va rispettata: se si desidera sostare con l’asciugamano occorre andare alla spiaggia libera. La giornata si chiude con una cena esagerata presso il Club Nautico. Innaffiata da litri e litri di vino bianco fresco. Che scende giù dolce dolce, regalando sensazioni di piacevole deliquio e andatura da navi in mezzo al mare. E per concludere l’intramontabile limoncello: con bottiglia lasciata sul tavolo e seccata alla goccia.
Il mattino seguente si parte senza fretta. Raggiungiamo la stazione e attendiamo sui binari l’arrivo del regionale che ci porterà verso casa. In queste prime ore del giorno l’aria è decisamente frizzante e così Ale ed io cerchiamo i raggi caldi del sole. La raggiungo su di una panchina e mi siedo dandole le spalle. «Oh Ale, hai già chiamato Mario?». E lei prontissima: «Per certi versi sì, per certi versi no…». La risposta, pur nella fumosità del post-sbornia, mi risulta oltremodo sibillina. Chissà che vorrà dire…? Forse ha litigato con Mario e con quella risposta vuol farmi intendere qualcosa di più profondo, magari un disagio di cui non intende parlarne con me ora. A quel punto cambio argomento e le rilancio: «Certo che ieri abbiamo proprio esagerato…! Il limoncello poi mi ha dato la mazzata finale…!». E lei: «Ma dove, al piede?». Come sarebbe a dire al piede? Mi volto verso di lei strabuzzando gli occhi: «Ale, sei sicura di sentirti bene…?». E solo allora mi accorgo che la mia amica sta parlando al telefono con un’altra persona. C’è da riderne fino a casa…!
Sul treno c’è una gran folla e la pilotina è piena di biciclette messe disordinatamente e bagagli. Un tipo che sembra uscito dal film Qualcuno volò sul nido del cuculo butta la sua bicicletta sulle altre e si siede sui gradini d’accesso della pilotina dicendo: «Bon, io mi siedo qui…». Noialtri siamo sul predellino, con le biciclette e i bagagli ancora tutti da sistemare e questo strano figuro tira fuori il giornale e comincia a leggere beatamente. Alfio gli fa presente che sarebbe opportuno che egli levasse le sue nobili terga dal passaggio, ma questi risponde: «Ma non c’è posto…». E Alfio, irritato: «Ora te lo faccio vedere io come salta fuori il posto…». Ed infatti, facendo ricorso a tutto il suo raziocinio e alle sue spiccate doti organizzative, il nostro amico sistema tutto nel migliore dei modi. Certo avesse buttato dal finestrino anche i bagagli degli altri passeggeri, tipo Totò a colori, ci sarebbe stato ancora più agio, ma va bene così.
A Bologna Alfio scende. Il saluto è fugace e avvolto dalla confusione dei passeggeri che salgono e scendono dal treno. Lo vediamo dal finestrino mentre si allontana con la sua bicicletta, in una folla di sconosciuti che ignora la nostra storia. E a noi sale un groppo alla gola, perché quelle spalle che si allontanano sono i titoli di coda di quest’avventura.
Il nostro treno prosegue fino a Piacenza. Una mezz’ora di attesa ed ecco quello successivo. Venti minuti e sono a Lodi. Anche in questo caso i saluti sono assai rapidi: mi sorge il sospetto che oltre alla fretta del treno che riparte, ci sia anche la volontà di non soffermarsi troppo su questo momento d’addio. Perché inevitabilmente tutto ciò comporta il dolore del distacco. Da domani non saremo più un gruppo, ma torneremo ad essere soli con le nostre esistenze, ognuno rapito dalla propria vita. Ci resteranno i ricordi, e la voglia di ripetere quest’esperienza il prima possibile. Fa uno strano effetto pensare che da ora in poi non si ripartirà, che non ci saranno più chilometri da percorrere per arrivare alla fine del giorno. Quello che abbiamo vissuto in queste due settimane è stato talmente intenso che sembra di essere stati via anni; viaggiare in bicicletta è un’esperienza che riempie ogni momento della giornata, che non spreca attimi esistenziali ed anzi li moltiplica all’infinito, regalando piccoli sprazzi di eternità. Anche perché pedalare riporta a quell’antica gioia provata da bambini, quando la bicicletta regalava le prime inebrianti ali della libertà. Un gioco che col tempo è diventato passione, condivisione, conquista. E dunque gioia. Rumiz nel suo libro Tre uomini in bicicletta scrive: “… domani non si riparte, le sacche non si rifanno, il cavallo resta nelle scuderie a far biada. Siamo increduli: non di essere arrivati fin lì, ma di non dover ripartire. Al nomadismo ci si adatta all’istante, per tornare sedentari ci vuole tempo”. E ancora: “Oggi me ne accorgo. Quel viaggio leggero ha ordinato tutte le esperienze precedenti, dando loro un senso nuovo. Dormire ogni notte in un posto diverso mi ha regalato stabilità interiore. Ridurre a due sacche tutte le mie cose è diventato un confort impareggiabile. Andare con lentezza, anziché caricarmi d’ansia, ha costretto una calma sconosciuta a immigrare in me. Allontanarmi dal mio mondo mi ha conciliato con me stesso, facendomi sentire a casa”.
Confermo e sottoscrivo.

Luigi Yanez d’Ausilio, 5 settembre 2013

lunedì 16 settembre 2013

Marche & Abruzzo - Undicesima parte

Il mattino seguente si parte con l’incognita del maltempo: le previsioni danno acqua dal primissimo pomeriggio, e se così fosse, non ci sarebbe verso di evitarla. C’è come un senso di fatalismo e pacata rassegnazione in quest’ultima cavalcata: se anche pioggia fosse, ormai siamo al capolinea. Lasciata Roccamorice si scende lungo la Provinciale n.22 che aggira la forra e in un attimo siamo sull’altro versante. Un ultimo sguardo a questo angolo incantato di mondo e si riparte. Scendendo lungo una stradina stretta e tortuosa, superiamo una miniera abbandonata da tempo immemore, con tanto di macchinari arrugginiti e alloggi diroccati. Da queste parti, fino agli anni trenta del secolo passato, si estraeva bitume, e qui operava la ditta tedesca RHE&C. Pare che fosse tra le miniere meglio attrezzate del Regno d’Italia e che competesse alla pari con quelle del nord Europa. La strada poi s’impenna all’improvviso e si raggiunge Lettomanoppello. Superiamo quindi il Parco delle sorgenti sulfuree del fiume Lavino, e in breve siamo a Manoppello. Dalla guida turistica di Alfio apprendiamo che in questo luogo vie è un Santuario che conserva l’effigie del Volto Santo, ovvero l’immagine vera (“Veronica”) di Cristo. Seguendo le indicazioni stradali ci cimentiamo in un aggraziato esercizio canoro. Ci sono momenti nella vita che si è così felici che non si può contenere dentro di sé quest’emozione. E così si canta, o anche si fischia, come fischia la valvola di sicurezza di una pentola a pressione. E questo è uno di quelli. Una signora ci osserva dall’uscio della propria casa e ci dice sarcastica: “Si, si, vediamo se cantate anche dopo quella curva…!”. Ed in effetti la strada s’impenna e i tornanti si susseguono aspri, accompagnati dalle nicchie della Via Crucis che sale al Santuario. Al termine della salita ci accoglie la facciata policroma della Basilica, affiancata dal campanile. Il Volto Santo si trova conservato all’interno di una nicchia sul retro dell’altare e su di esso sono fiorite leggende e si sono susseguite accurate ricerche scientifiche. Secondo la tradizione quest’immagine sarebbe “acheropita”, ovvero non dipinta da mano umana, e secondo eminenti studiosi la somiglianza, ed anzi la sovrapponibilità alla Sacra Sindone, sarebbe pressoché assoluta. Tra l’altro questo velo ha la singolare caratteristica di essere visibile identicamente da ambedue le parti. E tanto per aggiungere qualche altro elemento al mistero, pare che esso sia giunto da queste parti nel 1506, portato da un enigmatico pellegrino che, dopo averlo consegnato nelle mani del fisico Giacomo Antonio Leonelli, scomparve improvvisamente e senza lasciare tracce.
Prima di salutare Manoppello facciamo un giro per il centro, un insieme di pittoresche viuzze, bassi sottopassi e piazzette, abbellite da incantevoli vasi di fiori colorati. Incrociamo anche un cartello che parla del “Cammino di Tommaso”, ma non ci si fa troppo caso. Sempre dalla guida turistica Alfio legge che il paese è caratterizzato da una serie di piccole botteghe d’artigianato locale, e la curiosità è tanta. Lungo il viale principale però non scorgiamo nulla di tutto ciò e, a domanda rivolta ad un passante, ci viene risposto che l’informazione non corrisponde al vero: proprio per nulla. Scesi da Manopello imbocchiamo la statale che porta al mare. Ancora una deviazione per visitare Santa Maria Arabona, un’abbazia cistercense del XII secolo, e si prosegue. Alessandra è dalle prime ore della mattinata che insiste per trovare un distributore di benzina fornito di pistola ad aria compressa per gonfiare le gomme della sua bicicletta. Verificandone la durezza mi accorgo che sono molto più gonfie delle mie, ma lei insiste. E la faccenda mi ricorda un po’ quei ciclisti che, non sentendosi “in giornata”, guardano continuamente i pattini dei freni pensando, e forse sperando, che ci sia un attrito involontario che rallenta la marcia. Alle porte di Chieti finalmente troviamo ciò che fa al caso nostro.
La salita in città è lunga e tediosa. Anche perché la pace e la tranquillità dei giorni passati è già un ricordo lontano, e il traffico automobilistico incrudelisce. Il centro non ci dice granché, e così ci dirigiamo verso la Cattedrale di San Giustino, forse l’unica vera attrazione del luogo. Giungiamo però mentre il custode sta serrando le porte. E sembra anche irritato perché i visitatori si attardano verso le uscite. Riaprirà alle 16.30. Troppo tardi. Dobbiamo accontentarci di ammirarla da fuori.
Prima di ripartire ci fermiamo presso un bar per un breve spuntino. Il cielo si è riempito di nuvole minacciose e l’aria è diventata più fresca. Si riparte con la remota speranza di scamparla anche questa volta. Veniamo giù da Chieti a tutta velocità e sulla nazionale incrociamo un gruppetto di ciclisti agguerriti che ci salutano beffardi. Lancio la sfida e invito gli amici ad agganciare il treno. Spingo forte sui pedali e, assumendo la posizione più aerodinamica possibile, si vola sul filo dei quaranta all’ora. Ci siamo, li abbiamo ripresi. Mi volto per strizzare l’occhio ai compagni, ma dietro di me c’è il vuoto…! Per centinaia di metri. E così sono costretto a rialzarmi e ad aspettare le tartarughe. Anzi, le “locuste”.
Senza quasi accorgercene, eccoci di nuovo al mare. Lasciamo la statale nei pressi di Francavilla e continuiamo in direzione sud. Un sottopasso ed eccoci sulla ciclabile che lambisce il mare. Ce l’abbiamo fatta. C’è un senso di grande felicità e soddisfazione, abbiamo portato a termine il nostro sogno su due ruote. E stiamo tutti incredibilmente bene. La foto con lo sfondo del mare è d’obbligo: peccato che predominino tonalità grigiastre e non i colori vividi di un bel pomeriggio d’estate.
Ad Ortona mancano ancora una decina di chilometri ed il cielo plumbeo ruggisce sempre più insistentemente come a volerci spingere, come ad avvisarci che non abbiamo più molto tempo. Seguiamo la ciclabile, ma usciti da Francavilla, essa termina nel nulla. Siamo costretti ad un avventuroso attraversamento di un tunnel molto basso, che probabilmente non è altro che uno scolo delle acque piovane a mare. Per fortuna asciutto. E così, un attimo prima che si scateni il diluvio, eccoci a destinazione.
Ortona è una cittadina di oltre ventimila abitanti e s’innalza su di un promontorio che domina il mare, al centro della costa adriatica abruzzese. Un balzo di oltre settanta metri consente infatti di osservare, oltre alla zona portuale sottostante, una grande porzione di costa che a nord si presenta ampia e sabbiosa, mentre a sud è costellata di golfi, insenature, scogliere e promontori.
Perché ho scelto Ortona come meta ultima del nostro viaggio? Per dare seguito all’iniziale proposito di terminare l’avventura con un paio di giorni al mare, “magari alle Isole Tremiti”. Durante le mie ricerche infatti mi ero imbattuto in un sito di promozione turistica che affermava: “Nel periodo estivo un veloce e moderno aliscafo collega quotidianamente il porto di Ortona, proprio sotto la città, con l’arcipelago delle Isole Tremiti”. Proprio ciò che faceva al caso nostro, dunque. Negli ultimi giorni prima della partenza, tuttavia, quando ormai era già tutto prenotato, Alessandra ed io ci siamo accorti di un piccolo particolare: sul sito della Tirrenia, compagnia di riferimento per la tratta, non vi erano informazioni aggiornate, né prezzi per raggiungere le Tremiti. E così, ho chiamato la Pro Loco e, solo allora, ho scoperto la verità: il servizio è stato interrotto qualche mese prima. L’unico modo per raggiungere ora le isole da Ortona è prendere il treno che va a Termoli e imbarcarsi da là. Con orari agghiaccianti, tra l’altro. Almeno per dei “vacanzieri” al termine di un tour come il nostro. E così, di fronte a questo imprevisto, siamo costretti a cambiare programma: la giornata di domani, la impiegheremo facendo l’ennesimo giro in bicicletta, nell’entroterra ortonese. Senza esagerare, sintende.
Ha smesso di piovere ed è giunto il momento di fare due passi per la città. Il primo luogo che visitiamo, così come suggerito dall’albergatore, è il vicino Museo della Seconda Guerra Mondiale. Ortona, tra il novembre del 1943 e il giugno del 1944, fu teatro di una delle più sanguinose battaglie che si combatterono sul suolo italiano. La “Linea Gustav” passava da qui e l’esercito tedesco, prima di cedere terreno di fronte all’avanzata degli Alleati, vendette cara la pelle. L’ordine di Hitler del resto era perentorio: “Resistere fino all’ultimo uomo”. Tra le macerie della cittadina, distrutta dai bombardamenti per oltre l’80 per centro del proprio patrimonio edilizio e monumentale, si combatté casa per casa, rione per rione, e i morti, tra militari e civili, furono più di tremila. In particolare furono i soldati del Commonwealth Britannico a pagare il tributo più altro, con gli oltre 1.600 caduti in combattimento. Poco fuori da Ortona, lungo la Statale n.16 Adriatica, sorge il Moro River Canadian War Cemetery, il luogo in cui vennero raccolte le spoglie dei ragazzi venuti a combattere per liberare l’Italia. Centinaia e centinaia di tombe disposte su file parallele e raggruppate a formare tredici settori indipendenti. E al centro del campo una croce issata su di un basamento ottagonale. Un’infinita distesa di lapidi bianche con il simbolo del paese cui apparteneva il caduto (la foglia d’acero per i canadesi, la felce argentata per i neozelandesi etc...), il nome, la data e il battaglione d’appartenenza. Ed un silenzio assoluto, interrotto solo dal ronzio di qualche insetto che accompagna la lettura di alcune di esse, si eseguono calcoli rapidi che sottraggono data di morte e data di nascita, scoprendo che si tratta quasi sempre di ragazzi poco più che diciottenni. Ragazzi venuti da altri continenti, e che forse neanche sapevano il perché di quella guerra. Come A.E. Lutz, del 48esimo reggimento Highlanders, anni 19; o G.A. David, del Royal Canadian Regiment, anni 24.
Passeggiando per Ortona, c’imbattiamo quasi per caso nella Basilica di San Tommaso, l’apostolo che prima dubitò della resurrezione di Cristo e poi credette (“Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!” - Vangelo di Giovanni, 20, 20-31). Ora si capisce il perché di quel cartello misterioso visto a Manoppello, Cammino di Tommaso: si tratta di un percorso religioso (ma anche turistico) di oltre 400 chilometri, un pellegrinaggio che da Ortona porta a Roma. La Basilica, durante l’ultima guerra fu quasi completamente distrutta, e nel 1949 venne riconsacrata. Al suo interno, in una cripta posta sotto l’altare maggiore, c’è la tomba di Tommaso, un sarcofago ricoperto di lamine d’oro in cui riposano i resti dell’apostolo. Durante la sua opera di evangelizzazione, quest’uomo raggiunse i confini della Terra allora conosciuta. Fu dapprima in Siria, poi in Mesopotamia, e ancora in India. E seguendo la Via della Seta si spinse fino in Cina. Subì il martirio in India e, dopo alterne vicende, i suoi resti giunsero ad Ortona nel 1258, grazie al navigatore Leone Acciaiuli, di ritorno da una missione nell’Egeo.
È strana la vita, le combinazioni che regolano la sorte dei nostri giorni a volte ci lasciano senza parole: chi mai avrebbe potuto immaginare che qui avremmo fatto questo incontro? Davanti a noi, dentro quell’urna c’è davvero quell’uomo che vide il Cristo risorto, che ne sondò incredulo le ferite ancora aperte. Questa constatazione non può lasciare indifferente chi si professa credente, e ancor di più fanno pensare i risultati della ricognizione scientifica svolta tra ’85 e ’86 dall’Università di Chieti e della Soprintendenza alle Antichità: “[…] i resti scheletrici sono quelli di un longitipo con ossatura genericamente gracile, di statura 160 + - 10 cm, di età scheletrica compresa tra i 50 e i 70 anni, affetto fra l’altro da una malattia reumatica che molto probabilmente è inquadrabile come spondilo-artrite anchilopoietica di Strumpell-Marie. Mostra le tracce di una frattura dell’osso zigomatico marginali al taglio dimostra che non dovette trattarsi di un fendente pesante, ma soprattutto di un tagliente ben affilato, la cui azione si è limitata al taglio, piuttosto che alla spezzatura meccanica”. E negli Atti di Tommaso così si descrive il suo martirio: “[…] Quand’ebbe terminata la preghiera, disse ai soldati: su, eseguite gli ordini di chi vi ha inviato. Quelli vennero e lo trapassarono tutt’insieme con le lance. Cadde e morì”.
Poco più oltre ecco spuntare come una sentinella di guardia, l’imponente Castello Aragonese, risalente al XV secolo e da poco restaurato. Da qui si domina tutta la costa e s’intuisce l’importanza strategica che Ortona ricoprì per secoli, in un continuo rapporto di amore e odio con la Repubblica Marinara di Venezia. Sulle mura che s’intervallano tra una torre e l’altra, crescono rigogliose piante di capperi che stuzzicano l’animo free cliber di Simona. Ah, se solo avesse le scarpette d’arrampicata…! [continua...].

venerdì 13 settembre 2013

Marche & Abruzzo - Decima parte

Paesaggi di Majella
Il mattino seguente ci si sveglia con calma e si fa colazione a casa. Alessandra è scesa giù al forno per comprare pane caldo e biscotti caserecci al vino. Come se quello di ieri sera non fosse bastato…! Oggi è il giorno dell’ardimento, della salita epica: dai 400 metri di Sulmona si sale ai 1.300 di Passo San Leonardo, nel cuore della Majella. Su questa tappa, fin dall’inizio, si è molto discusso. Ce l’avremmo fatta a salire fin lassù con le borse cariche e dopo nove giorni di corsa su e giù per i monti? Questa era la domanda delle domande. Il piano “B”, in caso di risposta negativa, prevedeva di tornare su verso Popoli e di lasciarci a oriente le Montagne del Morrone. Ma ciò significava perdersi la Majella. Questa mattina però c’è una sana consapevolezza delle nostre forze: i 700 e passa chilometri che abbiamo nelle gambe ci hanno regalato una condizione fisica strepitosa e nessuno pensa neanche lontanamente di tirarsi indietro. E così si parte. Imbocchiamo la lunghissima via dei Cappuccini e dopo alcuni chilometri incrociamo la Statale n.17. Tiriamo dritti: davanti a noi massicci calcarei solcati da ripidi e aspri valloni: è il biglietto da visita della Majella. Proseguiamo per un altro paio di chilometri lungo un falsopiano in salita, ma poi, all’improvviso, ecco i primi tornanti e le prime rampe che portano verso Pacentro. Si sale abbastanza dolcemente per circa quattro chilometri, ma l’ultimo strappo prima di entrare in paese è una fucilata nelle gambe. Ci si ritrova ansanti davanti alla fontana posta al bivio. In questo punto i blog dei cicloamatori consigliano di fare scorta d’acqua: da ora, e fino al passo, non ci sono altre fonti. Eseguiamo alla lettera. Si riprende a salire. Le pendenze sono medio-alte e l’ombra quasi inesistente. Dalla nostra però abbiamo l’orario mattutino e un venticello fresco che spira da occidente. Una serie di ripidi tornanti, alternati a lunghi rettilinei, ci portano rapidamente in quota. E Pacentro rimpicciolisce e scolora stagliandosi sulla piana. Le pendenze mutano continuamente e in alcuni passaggi sfiorano il dieci per cento. Ma noi saliamo senza fatica. E la faccenda ha quasi del prodigioso. Siamo ormai nel cuore della montagna e la strada che s’addentra sinuosa tra le rocce è bellissima e solitaria. Come al solito spingo un rapporto lungo, troppo lungo per i miei compagni e in breve mi trovo a pedalare da solo. D’altra parte si sa, in montagna ognuno deve dar retta al proprio passo. Si sale ancora e gradualmente la vegetazione d’alto fusto lascia spazio alle praterie d’alta quota. Gli ultimi chilometri sono un falsopiano in salita che conduce ad un bivio: a destra Campo di Giove; a sinistra Pescara e Passo San Leonardo. Mancano tre chilometri allo scollinamento. E sono quelli più belli perché la fatica ormai è finita e ci si può godere lo spettacolo della natura. Tutto intorno s’innalzano Monte Amaro (2.795, la vetta più alta della Majella), Monte Acquaviva, Monte Morrone. E non hanno più l’aspetto minaccioso di chi vuol sbarrare il passo, ma il volto cordiale di chi accoglie un vecchio amico. Sotto il cartello che indica la fine della salita il mio contachilometri segna 23. Di cui 19 di salita: due ore e dieci minuti di fatica, alla velocità di dieci chilometri all’ora circa. Non male, direi. I compagni mi raggiungono dopo una ventina di minuti, e sono tutti entusiasti per l’impresa. Alessandra più di tutti. Da ora in poi è tutta discesa o quasi. Prima di ripartire ci regaliamo una lunga pausa di recupero. Accanto a noi si fermano altri due ciclo-viaggiatori, due ragazzi che, partiti da Abbatéggio, raggiungeranno Roccaraso. Uno di questi è milanese e non riesce a contenere il suo entusiasmo per la bellezza di questi luoghi. L’altro è di Pescara, e non ha molte energie da spendere in conversazioni frivole…! E si riparte. La discesa che porta verso valle è stretta e tortuosa, e in alcuni punti c’è del brecciolino assassino. La prudenza è d’obbligo. Superiamo di slancio Sant’Eufemia a Majella e a seguire la bellissima Caramanico Terme. Abbiamo abbandonato la provincia dell’Aquila e siamo entrati in quella di Pescara. Ancora una serie di saliscendi e finalmente, dopo un’ansa che aggira la stretta gola sulla quale si erge Roccamorice, eccoci a fine tappa. Il paese è piccolissimo e seduti ai tavolini dei bar ci sono gruppetti di pensionati che giocano a carte. Come premio della nostra fatica quotidiana siamo alla ricerca della crema di caffè: quella che piace tanto ad Alessandra. Alfio si fionda nel primo bar come un marines sulla spiaggia di Mogadiscio, ma ne esce poco dopo con aria sconsolata: “Al massimo ci fanno un caffè shakerato”. Proviamo in quello dopo, e questa volta Alfio esce con i pugni alzati e il sorriso del vincitore. Raggiungiamo il nostro albergo e la stanchezza si fa sentire. E poi i letti sono così comodi…! Ancora un attimo di esitazione e ci sarebbe l’oblio. E dunque, con una forza di volontà che non sapevo di possedere, mi tiro su e mi preparo ad uscire: c’è ancora un’ultima cosa da vedere prima di chiudere questa giornata. Alessandra e Simona mi guardano perplesse. Alfio dorme. «Se non parto subito non mi muovo più» - commento - «Vi chiamo quando sono là, così vi dico anche com’è la strada».
Roccamorice
E così riprendo la bicicletta e riparto. Prima di lasciare il paese seguendo la Provinciale n.22, la statua bronzea di un uomo con la valigia ed un bimbo che piange attaccato alla sua gamba: è il monumento che la cittadinanza ha dedicato “Ai fratelli emigranti- sempre nel cuor l’amor di patria”. La strada sale, dai 520 metri di Roccamorice si arriva subito ai quasi 800 del bivio: da una parte Block Hause, la vetta dove si arrampica e d’inverno si scia; dall’altra l’Eremo di Santo Spirito a Majella e San Bartolomeo in Legio. Quest’ultimo è la mia meta. C’è un caldo soffocante. Scendo giù lungo una stradina solitaria che s’immerge sempre più nel bosco e, dopo circa trecento metri, ecco un altro bivio: a sinistra Santo Spirito, a destra San Bartolomeo. Certo sarebbe bello visitarli entrambi, ma non c’è tempo. E poi Santo Spirito si trova a più di mille metri di quota: impensabile dopo la tappa di oggi. Mi accontento di San Bartolomeo. La strada diventa sterrata e, dopo aver superato un bed & breakfast sorvegliato attentamente da un mostruoso pastore abruzzese (nel senso del cane…), si perde lungo un sentiero stretto e infestato di erbacce e ciottoli acuminati. Solo ora mi accorgo che, nella foga di liberarmi dei bagagli, ho dimenticato di portare con me una camera d’aria di riserva. Proseguo speranzoso, ripetendo tra me e me: «Ho già dato, ho già dato in abbondanza…! E poi, come si dice: “Non c’è due senza tre…!”. Quartum non datur». Chiamo Alessandra e la ragguaglio sulla strada da seguire. Si scende ancora più giù, lungo un declivio pietroso che degrada verso la forra. Sul sentiero ci sono anche dei gradoni: difficili da scendere con la bicicletta al seguito, ancor più inquietanti pensando alla risalita. Ad un tratto un segnavia indica dieci minuti a piedi per San Bartolomeo. Lascio la bicicletta perché è diventato impossibile proseguire con essa. Non ho la catena per legarla, ma non credo che ci possa essere un pazzo disposto a portarsela in spalla fin sulla strada. Salendo in cima ad uno sperone roccioso mi affaccio su di un burrone: in fondo alla gola, ad una cinquantina di metri, scorre il torrente Capo la Vena e si odono le voci di alcune persone. Dell’eremo nessuna traccia. Non riesco a capire dove esso si possa trovare, dato che non c’è proprio lo spazio materiale per costruire un bel niente in questo abisso. Poi ad un tratto, superato un grosso masso, ecco aprirsi davanti a me una scaletta vertiginosa scavata nella roccia. Un altro prodigio dell’ingegno umano. Ed ecco l’eremo. In questo luogo, costituito da una piccola cappella e da due ambienti ricavati nella roccia viva, Pietro dal Morrone, futuro Papa Celestino V (quello del “gran rifiuto”) ebbe la sua residenza intorno al 1274, e qui si trattenne per almeno un paio d’anni. Questo personaggio dantesco continua ad accompagnarci e a scandire le nostre tappe. Fin dal Santuario di Loreto. Sulla balconata che si affaccia a strapiombo sul dirupo c’è una vasca per la raccolta dell’acqua piovana e la facciata della chiesetta è affrescata con un’immagine del Cristo benedicente, e con una della Madonna col Bambino ampiamente danneggiata. All’interno, sull’altare, una statua in legno di San Bartolomeo. Quello che colpisce tuttavia è la posizione di questo luogo: immerso nella meraviglia del creato, isolato dal mondo e quasi inaccessibile. D’altra parte per l’eremita, già in fama di santità da vivo, era necessario un luogo ben protetto e appartato. E questo è quanto di meglio si potesse trovare in tutta la Majella. È giunto il momento di rientrare. Recupero la bicicletta e risalgo le scalette grondando sudore. E i tafani banchettano. Una comitiva scendendo mi sfila e mi fissa con pietà. Una donna mi dice qualcosa, ma non riesco a capire. Rispondo solo: «È un pellegrinaggio…, mi daranno l’indulgenza…». Tornato sulla strada indosso lo smanicato in tela leggera e mi butto in discesa: ora sì che è davvero finita. Dopo qualche chilometro di folle velocità incrocio gli amici che stanno risalendo. Mi fermo e do loro gli ultimi ragguagli. Alessandra ci prova e mi chiede di andare con loro. «Non ci penso minimamente…» - rispondo di malagrazia. E così nel tardo pomeriggio sono di nuovo a Roccamorice. Sulla piazza del belvedere mi ripago della fatica con una birra fresca. Seduto ad un tavolo c’è un vecchio, in compagnia della badante rumena. Mi piace l’idea di scambiare due parole con qualcuno del posto e dunque gli rivolgo una domanda. Il tipo è sordo come una campana stonata, e per farmi udire sono costretto ad urlare come un internato di manicomio. Scopro che costui è uno dei tanti emigrati tornato a casa a trascorrere gli ultimi anni della sua vita. A Roccamorice, degli oltre tremila abitanti del 1950 ne sono rimasti meno di un terzo. Il vecchio è stato prima in Belgio, a lavorare nelle miniere di Marcinelle; e poi se n’è andato in Venezuela. E qui è rimasto per oltre trent’anni. Tra le altre cose mi racconta di aver conosciuto Ernesto Guevara del la Serna, “El Che”. Non so perché, ma mi sorge il dubbio che mi stia dicendo una frottola. Il discorso langue: non è facile dialogare urlando. E così, guardando il meraviglioso panorama che ci circonda, gli dico come ad accomiatarmi: «Certo che vivente in un posto bellissimo…». Il vecchio non capisce e devo ripetere. Al che mi fissa con uno sguardo perplesso e pieno di disincanto: «Qui non c’è niente…! I ragazzi se ne vanno…». Gli chiedo di cosa vivesse la gente prima dell’emigrazione. Mi risponde che c’era un po’ di pastorizia, un po’ di agricoltura. Quel poco che si poteva strappare alla terra. In quel volto solcato da rughe simili ai dirupi di queste vallate e in quegli occhi stanchi c’è la storia di tutta un’epoca, l’epopea di uomini e donne partiti in cerca di fortuna e spesso mai più ritornati. Con una valigia e niente più. Come quella statua al bivio.
In serata ci si ritrova tutti insieme a tavola per la cena. Oltre a noi e a qualche sparuto avventore dei dintorni, c’è una comitiva di una decina di francesi di mezza età. Come diavolo siano finiti in questo sperduto angolo del nostro paese è un mistero insondabile. Gli arrosticini sono straordinari e il vino non è da meno. Domani il nostro viaggio si concluderà ad Ortona ed è già ora di bilanci. Il sentimento che prevale è la soddisfazione: quest’esperienza ci ha regalato un pizzico di eternità [continua…].

giovedì 12 settembre 2013

Marche & Abruzzo - Nona parte

Dopo colazione ci congediamo da Stefano augurandogli buona fortuna. A lui e a tutti gli eroi che cercano di riportare la vita in questa distruzione. Ma prima di partire, un’ultima domanda: «Dove si va per la Fontana delle 99 cannelle?». «Oh, è facile: scendete giù per questa via, lungo borgo Rivera e la trovate. È semplicissimo. Buon viaggio». E così facciamo. La strada scende quasi a picco, strettissima, con curve a gomito e un acciottolato a tratti insidioso. I freni durano fatica a fermare la corsa delle biciclette che diverrebbe folle e incontrollata in un attimo. Tanto che si rende necessaria una regolazione volante. Che detta così sembra gran cosa: in realtà si tratta semplicemente di girare un perno per tendere di più il cavo del freno. Si scende ancora, altri tornanti, altro stridore di pattini sul cerchione. E finalmente, in corrispondenza della Chiesa di San Vito, eccoci di fronte al monumento più conosciuto dell’Aquila. Secondo forse solo alla Basilica di Collemaggio. Costruita nel 1272 ad opera dell’architetto Tancredi da Pentima, la fontana è un prodigio della geometria, ancor prima di un’opera d’arte idraulica. La sua pianta trapezoidale, posta su di un’area concava e ribassata, si presenta con tre fronti e colpisce per il suo impatto prospettico. Tanto da provocare quasi uno stordimento visivo. Anche perché dalle 99 cannelle presenti lungo il perimetro e sopra le cinque vasche, si levano senza sosta sonorità di cascata d’alta montagna che creano un caos sensoriale, in cui è “dolce naufragare”. Il perché di quel numero 99 è ancora un mistero. Alcuni sostengono che i mascheroni dai quali scende l’acqua rappresentino i signori dei novantanove castelli che contribuirono alla fondazione dell’Aquila. Altri mettono in dubbio tale teoria. Di certo c’è che tale opera fu realizzata a beneficio di tutta la cittadinanza. E per preservarne l’assoluta indipendenza e dunque la possibilità di utilizzo da parte di tutti, venne tenuta nascosta la sorgente dalla quale attingeva acqua. Ed anzi leggenda vuole che il povero Tancredi da Pentima, ultimati i lavori, sia stato giustiziato affinché non potesse un giorno rivelare tale segreto. Accidenti che bel ringraziamento…! La fontana, peraltro, dispone di un piano orizzontale per il lavaggio del bucato, e pare che fino al primi decenni del secolo passato, fosse ancora utilizzato dalle massaie della zona.
È giunta l’ora di ripartire. Superato l’Arco San Jacopo della Rivera ci si lascia alle spalle la città e si prende direzione Sulmona. Oggi dovrebbe essere una giornata relativamente tranquilla, con pochi chilometri e ancor meno dislivelli. È stata appositamente disegnata in previsione della tappa successiva, che ci condurrà a sfidare le aspre altezze della Majella. In realtà, come vedremo, la giornata ci riserverà molte sorprese. Ed infatti, percorsi neanche venti chilometri, siamo nei pressi di Fossa: prima divagazione. Una serie di cartelli sovrapposti indicano: “Chiesa di Santa Maria ad Cryptas”, “Convento di Sant’Angelo”, “Monastero di Santo Spirito”. Che la strada punti decisa verso la montagna non ci sconvolge più di tanto: in fondo oggi è una tappa d’alleggerimento…! E così, scalate rapidamente tutte le marce disponibili, entriamo in paese. Fossa è un piccolo borgo medievale, costruito alle pendici del Monte Ocre. Da qui comincia la catena del Sirente Velino. C’è una necropoli risalente all’Età del Ferro qui intorno, ma a noi interessano soprattutto gli eremi. In paese non c’è anima viva, e le tracce lasciate del sisma sono ben visibili. Qui il terremoto ha fatto cinque vittime, e l’intera popolazione è stata evacuata più a valle, oltre la ferrovia, in una delle famigerate “new town”. Proseguendo sulla strada incrociamo due uomini di mezza età, abitanti del posto quando ancora qui c’era vita. Sono qui per una passeggiata, e per non perdere familiarità con questi luoghi. Ci raccontano del cataclisma, e del dopo. Ora abitano giù, con tutti gli altri. Nelle loro parole c’è una profonda amarezza per quello che hanno subito, ma dimostrano anche una grande forza d’animo, un coraggio fiero e indomito. Tipico delle genti di montagna. D’altra parte qui ce l’hanno nel sangue la danza della terra. Chiediamo loro com’è stata la ricostruzione, se hanno sentito la vicinanza dello Stato. E già mi aspetto, e forse mi auguro qualche frase di profondo risentimento. E invece parlano con grande rispetto e stima per ciò che è stato fatto per loro: la popolazione è stata assistita nel migliore dei modi fin da subito e in sei mesi ogni famiglia ha ricevuto un’adeguata sistemazione. «Certo le nuove case sono laggiù…, c’è caldo e sole tutto il giorno…! Qui avevamo il fresco, eravamo all’ombra della montagna…». Ma sono le uniche parole di scontento che udiamo. «E quando è previsto il ritorno a casa» - chiedo in punta di piedi. «Eh chi lo sa…! Prima di sistemare il paese, devono mettere in sicurezza la montagna…». Le parole cadono su di una mano che volteggia in aria: come a dire che ne passerà di tempo. Chiediamo informazioni circa i due eremi. Il primo, quello di Sant’Angelo, si trova in alto, a strapiombo su di una rupe. Ma è inagibile. Il secondo invece è aperto al pubblico. I nostri due interlocutori ci consigliano di continuare a seguire la strada e di superare senza timore le transenne che incontreremo poco più avanti. Sono lì da quattro anni, ma non c’è alcun pericolo. E così facciamo. Il Monastero Fortezza di Santo Spirito risale al XIII secolo ed appartenne all’ordine dei cistercensi. Le sue possenti mura si affacciano su di una terrazza che, dalle pendici del Monte Ocre, guarda la valle modellata dal fiume Aterno. Quando arriviamo c’è uno strano movimento di persone vestite da gran festa. Pensiamo subito ad un matrimonio. In realtà la cerimonia si è svolta ieri, e costoro sono gli invitati che hanno trascorso la notte ospiti del Monastero. Ora riconvertito a struttura ricettiva. Nelle sue enormi sale vi sono affreschi medievali, ed in una di esse vi è allestita la mostra delle Madonne lignee d’Abruzzo. Alcune risalgono al primo medioevo e sono di assai pregevole fattura.
E così, dopo una breve visita si riparte. Scendiamo giù per una strada dissestata, fino a che non incrociamo nuovamente la provinciale. Da qui si prosegue lasciandoci ancora una volta “divagare” da un altro cartello: “Grotte di Stiffe”. Ma sì, non s’è mica detto che questa è una tappa di puro trasferimento? E dunque concediamoci pure qualche chilometro in più fuori programma. Prima di giungere a destinazione, passiamo davanti alla “new town” di Villa Sant’Angelo, un’altra piccola storia nel dramma del terremoto. Un piccolo villaggio fatto di casette basse di legno, ben ordinate e con un piccolo giardino intorno. Qui i morti furono 17, ed il paese è tutto da ricostruire. Quando Dio vorrà, naturalmente. Proseguendo sento nuovamente la bicicletta affondare troppo sotto le mie pedalate: si tratta della terza foratura. Mi fermo a sostituire la gomma e nel frattempo Alessandra e Alfio vanno ad informarsi circa queste grotte. La visita guidata dura circa due ore. Ed il costo è di dieci euro. Ripartiamo senza indugio. Un leggero saliscendi ci conduce a Fontecchio, altro grazioso borgo medievale. Proseguo da solo mentre gli altri si fermano a visitarlo. Ci ritroviamo poco dopo sulla strada che, abbandonata la provinciale, sale verso Secinaro. Fa un caldo atroce, sono senz’acqua e la salita infierisce senza pietà. Avrei volentieri evitato quest’ultima fatica, ma Alfio ci teneva troppo a visitare il castello di Gagliano Aterno. E questa è l’unica strada che possiamo percorrere. E dunque, dopo un lungo tragitto per lo più in salita ed esposto al sole, eccoci a Gagliano. Abbiamo bisogno di riposarci e recuperare le forze. Tra l’altro non ci siamo ancora fermati per la sosta pranzo. Il castello ovviamente è chiuso a causa dei danni provocati dal sisma e così ci accomodiamo ai tavolini dell’unico bar del paese. Il frigo dei gelati e delle bibite viene letteralmente saccheggiato. Il titolare parla con un cliente del posto, e la nostra presenza non passa inosservata. Anche perché in giro non c’è anima viva a parte noi. Entrambi ci chiedono notizie del nostro viaggio. Racconto il minimo indispensabile e attacco con le mie domande. E così scopro due interlocutori inaspettatamente esperti di storia antica. Mi raccontano che in questi luoghi i romani trovarono pane per i loro denti durante la Guerra Sociale del I secolo a.C. Siamo nella terra dei Peligni e poco distante ci sono i resti di Corfinium, la prima capitale della Lega Italica. Tra questi monti e più giù, verso il Sannio, tra il 91 e l’88 a.C. Piceni, Vestini, Marrucini, Frentani, Peligni, Marsi e Sanniti, combatterono per la loro libertà. E ne pagarono le atroci conseguenze. E dunque, come non visitare Corfinium? In fondo si tratta solo di allungare di qualche chilometro. Dai 650 metri di Gagliano scendiamo velocemente ai 490 di Castelvecchio Subéquo. Qui riprendiamo la Statale n.5, l’antica “Via Tiburtina Valeria” e, seguendo la traccia del fiume Aterno, c’immergiamo nelle spettacolari Gole di San Venanzio. Alle nostre spalle i Monti del Sirente-Velino; di fronte le prime avvisaglie della Majella. Nel mezzo la verde pianura alluvionale su cui si intravede Sulmona. Superata Raiano, raggiungiamo i resti di Corfinium: due monumentali portali in pietra, con apposta una targa: “In questi luoghi sorgeva l’antica Corfinium, cuore della terra Peligna, assurta a capitale dei Confederati nella Guerra Sociale del I secolo a.C. e ribattezzata ITALIA - sacro nome primieramente qui acclamato, auspicio all’unione di tutte le genti della Penisola, nella Patria Comune. Nel bimillenario ovidiano - MCLVIII”.
E si riparte seguendo la Statale n.17 dell’Appennino Abruzzese e Apulo Sannitica. Prima di entrare a Sulmona ci sarebbe da dare un’occhiata ancora all’Abbazia di Santo Spirito al Morrone, edificata per volere di Celestino V nel 1241, e alla Villa di Ovidio. Ma ormai abbiamo oltre 90 chilometri nelle gambe. Per oggi può bastare. E per fortuna che si trattava di una tappa di alleggerimento. Seguendo le indicazioni del navigatore di Alfio percorriamo tutto Corso Ovidio, passiamo davanti all’elegante Complesso della Santissima Annunziata, superiamo la Piazza XX Settembre, con la statua bronzea di Ovidio, e ci attestiamo di fronte alle splendide arcate dell’antico acquedotto fatto edificare da Manfredi di Svevia nel 1256. Nell’attesa che il navigatore si raccapezzi, un sorso d’acqua dalla Fontana del Vecchio, altro piccolo gioiello medievale. Da che siamo entrati a Sulmona la nostra attenzione è stata rapita dai moltissimi negozi che espongono e vendono confetti di ogni genere e gusto. D’altra parte è da secoli che qui si produce questa piccola delizia. “Pelino”, ad esempio, sottolinea con orgoglio che la sua attività data fin dal 1783. E così sulle bancarelle e nelle vetrine si vedono i classici confetti alla mandorla, al cioccolato, alla nocciola. Ma oltre a questi ce ne sono anche alla frutta, al pistacchio, alla liquirizia, al rosolio. E anche i colori sono assai vivaci e variegati. Alcuni negozi poi espongono delle composizioni floreali realizzate con intrecci di confetti: i girasoli sono deliziosi. Alessandra è tentata di acquistarne qualche esemplare per la nipote Cecilia, ma di fronte alla prospettiva di dover stipare quel prodigio di fragilità nelle borse da bici, rinuncia. Ci si accontenta di un semplice assaggio opportunamente raccolto in un sacchetto di plastica. Il navigatore non dà segni di vita e così chiediamo informazioni ai locali. Ci rispondono con molta cortesia e gentilezza. La cadenza degli abitanti di queste terre ha per me un che di familiare: lasciateci alle spalle le parlate sabine dell’aquilano (qualcosa di assai prossimo al dialetto romano), siamo in una zona storicamente legata alla cultura sannita, e dunque campana. Ed infatti il modo di parlare di queste genti ha molto del dialetto napoletano. Questo viaggio, oltre a tutto il resto, ci sta regalando anche un’inaspettata scoperta dei diversi idiomi in uso nei luoghi che visitiamo, e il mutamento repentino degli stessi, ci da la misura delle distanze che le nostre gambe stanno macinando.
Alla fine riusciamo a rintracciare il nostro bed and breakfast. Si trova a due passi dal centro. Per pochi euro a testa disponiamo di un intero appartamento, con tanto di uso cucina. E se non fosse così tardi potremmo approfittarne per prepararci qualcosa da noi. Peraltro Simona sarebbe anche un’ottima cuoca…! Ma come pretendere che le donne si mettano a spadellare dopo un’intera giornata passata in bicicletta? E così, ottimamente consigliati dal titolare del bed and breakfast, ce ne andiamo da “Clemente”: grigliata di carne, con annessi arrosticini, e Montepulciano d’ordinanza. Cosa chiedere di più alla vita? Un Lucano, forse? Ma quale Lucano...! Siamo in Abruzzo? E allora un bel Ratafìa.