Prova


Non preoccuparti della pioggia, lasciala cadere” (Marco Brignoli, Rifugio Baroni al Brunone, Sentiero delle Orobie Orientali)

venerdì 12 luglio 2013

Abbracci gratis

Qualche tempo fa in tv passò una candid camera in cui un tale, al centro di una via affollata, andava incontro ai passanti e, improvvisamente, ne abbracciava qualcuno. Teneramente. Quasi tutti reagivano all’inizio con un forte senso di disagio, che spesso sfociava nell’incredulità quando non anche nella paura. In effetti, di fronte ad un evento inatteso e fuori dall’ordinario l’essere umano si paralizza, si blocca come in attesa che il cervello dia una qualche spiegazione razionale a ciò che accade. In quel caso le persone coinvolte in quell’abbraccio improvviso restavano impietrite per alcuni attimi, come tramortite. Poi, vedendo che l’effusione affettuosa non aveva nulla di pericoloso, si lasciavano andare a qualche sorriso. Qualcuno addirittura ricambiava l’abbraccio con trasporto. E andandosene poi via per la propria strada, tutti, ma proprio tutti, avevano dipinto sul viso un’espressione di profonda gioia e serenità. Quest’inverno, a Capodanno, mi è capitata una situazione analoga. Nel rifugio di montagna dove abitualmente passiamo alcuni giorni, questa volta c’era anche un gruppo di ragazzi disabili psichici. Ebbene, il modo più diretto che hanno questi ragazzi di entrare in confidenza con altre persone è l’abbraccio (o comunque la sfera tattile). Più o meno audace, a seconda del carattere di ognuno, è sempre spontaneo e sincero, ed è associato ad un grande sorriso. Sandrino, per esempio, aspetto spesso truce e dalle vocalità fortemente gutturali, quando decideva che era il momento di stringere forte qualcuno, spalancava le braccia e apriva la via ad uno dei sorrisi più radiosi che abbia mai visto in vita mia. E di fronte a tale esplosione sentimentale non si poteva far altro che sorridergli e abbracciarlo di rimando. Perché infondo tutto ciò è manifestazione d’amore, e l’amore non è che uno specchio in cui ci si riflette.
Il New York Times di venerdì scorso ha pubblicato un bell’articolo su Richard Renaldi, fotografo americano, e sul suo libro di prossima pubblicazione Touching Strangers. Dal 2007 ad oggi Renaldi ha girato per le strade degli States, con l’idea di fotografare perfetti sconosciuti nell’atto di abbracciarsi, toccarsi, alle volte anche baciarsi davanti alla sua fotocamera. L’intento nobile è quello di scuotere e provocare la società con questi scatti, al fine di riuscire a fare qualche passo avanti sulla difficile strada della comprensione e accettazione reciproca. Ecco perché alcune foto ritraggono ebrei ortodossi e mussulmani insieme; oppure bianchi e neri che si abbracciano e si baciano. Come al solito tuttavia, trovandoci in America, c’è al fondo di tutto ciò una morale: la volontà un po’ retorica di spingere sul tema della fratellanza e dell’accettazione del “diverso” da se, come arricchimento. Retorica perché gli Stati Uniti sono il simbolo stesso della globalizzazione, ovvero dell’appiattimento delle differenze in funzione del modello unico di sviluppo. L’esportazione della democrazia, teorizzato a suon di bombe e invasioni, ne è la riprova: tutto va bene purché secondo ciò che ritengo più giusto dal mio punto di vista. E nulla potrà far cambiare questa forma mentale. E così, anche quelle foto di persone abbracciate tra di loro, così diverse per etnia, cultura, religione, hanno il gusto un po’ falso della finzione scenica, del copione ben recitato: come se mancassero di spontaneità. Ed infatti Renaldi mette in posa i suoi soggetti e dice loro cosa fare, come abbracciarsi, come guardare nell’obiettivo. In primavera, l’Aperture Foundation pubblicherà le foto in un libro.
Certo viviamo in un’epoca in cui l’apertura verso il prossimo si è ridotta fin quasi a scomparire, questo è indubbio. Non c’è comunicazione, spesso vediamo con fastidio i nostri vicini (soprattutto in metropolitana a ora di punta…), abbiamo paura di interagire perché non si sa mai con chi si ha a che fare. Ed anche il contatto fisico è ormai ridotto, tra conoscenti, ad una semplice stretta di mano. Toccarsi, mettere una mano sulla spalla di qualcuno, per non parlare del bacio, sono atteggiamenti che si riservano esclusivamente a parenti o amici stretti. E sono sinonimo di grande conoscenza e affiatamento. Al netto di tutto il retroterra storico e culturale di ogni singolo individuo. Una volta lessi uno splendido articolo di Indro Montanelli circa il suo incontro con Papa Wojtyla. Scrive Montanelli: «La sera che cenai col Papa […] cenai praticamente da solo […]. Per la prima volta, nella mia lunga carriera d’inappetente sempre in imbarazzo per ciò che rifiuta, mi sentivo in colpa d’ingordigia. […] Quando ci alzammo da tavola, lui che c’era rimasto seduto quasi due ore a veder noi mangiare, mi accompagnò lungo il corridoio. Ma, passando davanti alla cappella, mi toccò il braccio e con qualche esitazione, come avesse paura di apparirmi indiscreto, mi disse: “So che sua madre era una donna molto pia. Vogliamo dire una piccola preghiera per lei?”. C’inginocchiammo l’uno accanto all’altro. Ma quando, nel congedarmi, accennai a un inchino, me lo impedì serrandomi il polso in una morsa di ferro, e mi abbracciò accostando due volte la tempia alle mie. Come faceva mio padre, che baci non ne dava».
Ecco, l’abbraccio è una delle manifestazioni d’affetto più travolgenti che vi siamo. L’importante è che questo gesto sia sentito e ci sia spontaneità. Tutto il resto non conta.

Fonte:   http://lens.blogs.nytimes.com/2013/07/05/strangers-in-embrace/

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