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Non preoccuparti della pioggia, lasciala cadere” (Marco Brignoli, Rifugio Baroni al Brunone, Sentiero delle Orobie Orientali)

martedì 25 giugno 2013

Il denaro può davvero comprare tutto?

Qualche mese fa è comparso nelle librerie americane un volume dal titolo What money can’t buy di Michael J. Sandel, filosofo ed economista di Harvard. Un successo editoriale clamoroso, tradotto in quasi tutte le lingue del mondo. Da qualche giorno disponibile anche in Italia grazie a Feltrinelli. Nel suo saggio Sandel ha raccolto diversi esempi per dimostrare i “i limiti morali del mercato”, vale a dire le soglie al di là delle quali gli studiosi di economia sono costretti a confrontarsi con i valori, i sentimenti e i desideri che non trovano corrispondenza nelle teorie economiche. E così si scopre che se si chiede agli abitanti di una cittadina svizzera di acconsentire allo stoccaggio nel proprio territorio di scorie nucleari provenienti da una centrale elettrica, il 50 per cento di costoro acconsentono per puro senso civico; ma se viene promesso loro un piccolo incentivo monetario, il consenso crolla al 25 per cento. Alla stessa maniera, se si impone una multa ai genitori che ritardano nel prelevare i figli a scuola, l’effetto è che i ritardi aumentano invece che diminuire, perché in fondo, pochi quattrini valgono bene un ritardo. In altre parole, l’elemento economico tende ad alterare i rapporti civili e sociali, conferendo un valore monetario ad ogni genere di comportamento umano. Lecito o illecito che sia. E dunque si arriva al paradosso dei paradossi: quanto sareste disposti a pagare pur di saltare una coda? Che prezzo ha un messaggio pubblicitario tatuato sul proprio corpo? E la sperimentazione su cavie umane a pagamento? È lecito acquistare o vendere il diritto di inquinare con produzioni pericolose per le popolazioni? È giusto fare commercio sull’ammissione alle università? E sulla sanità? Domande che ci pongono di fronte al solito dilemma: il denaro dunque può davvero comprare tutto? “Viviamo in un’epoca in cui quasi ogni cosa può essere comprata e venduta – sostiene Sandel – . Negli ultimi tre decenni i mercati sono arrivati a governare le nostre vite come non era mai accaduto prima. Non siamo arrivati a questa situazione per scelta deliberata, è quasi come se ci fosse arrivata addosso”. Aver dato un prezzo a tutto ha di fatto raso al suolo qualsiasi altro valore: l’altruismo, il rispetto reciproco, la fiducia, la liberalità, l’equità. Per non parlare di tutto ciò che vi era a monte di tutto ciò, vale a dire l’onestà, la dignità personale, il decoro, la reputazione. Per secoli i contratti si sono stipulati con una semplice stretta di mano, perché mancare alla parola data equivaleva alla morte civile. Oggi se non si posseggono garanzie certe, con tanto di ipoteche e fideiussioni solidissime, non ci si siede neanche al tavolo delle trattative. Secondo l’autore in pochi decenni “siamo passati dall’avere un’economia di mercato all’essere una società di mercato”. Un mondo nel quale contratti, negozi, stime, valutazioni, quantificazioni regolano ogni istante della nostra vita. E dove è diventato lecito persino scommettere sulla durata della vita di una persona. Come ad esempio con i cosiddetti “Viatical”, contratti che si stipulano con i malati terminali e che consentono l’acquisizione lucrosa della polizza, dietro il versamento di un anticipo della somma dovuta alla morte.
Millenni di storia ci hanno regalato parole come diritti, doveri, mutuo soccorso, solidarietà, uguaglianza, coesione sociale. I nostri avi hanno lottato per generazioni e generazioni per consegnarci un mondo più giusto, più etico, dove tutti avessero pari dignità e opportunità di fronte a temi di inestimabile valore, quali l’istruzione, la sanità, la sicurezza, l’assistenza, il lavoro. Cosa sia rimasto di tutto ciò è sotto gli occhi di tutti. E quel poco che ancora resiste è costantemente minacciato da lobby di potere economico e finanziario. Gino Strada sostiene, ad esempio, che se la sanità non è pubblica, gratuita e d’eccellenza, non siamo più di fronte ad un diritto, ma ad un privilegio. E c’è del vero in tutto ciò. Ricordo che una volta, insieme ai miei colleghi della Croce Rossa, andai a soccorrere un uomo di mezza età che aveva problemi respiratori. Costui abitava con la moglie in una specie di residenza principesca, circondata da un parco immenso. Entrando in casa non potei non ammirare per un istante tutta la ricchezza di quella abitazione. Terminata la missione salutammo lui e la moglie e ci accingemmo a rientrare in sede. Quest’ultima però ci venne dietro e mettendo mano alla borsa ci chiese: “Quanto vi devo?”. Ci guardammo perplessi. Avevamo di fronte una persona che non si era mai rivolta alla sanità pubblica e che dunque ignorava che quel servizio appena prestato non andava retribuito, dato che era già pagato con i tributi degli italiani. Udendo la nostra risposta la signora manifestò uno stupore come di lieta sorpresa. Come se per la prima volta si rendesse conto di appartenere ad una collettività, e come se in essa trovasse quella protezione che fino ad allora le aveva garantito esclusivamente la sua opulenza economica. Vedendoci andar via ci salutò con un sorriso pieno di gratitudine (e forse di fiducia e speranza). Come a dire che prima o poi tutti abbiamo bisogno dell’aiuto solidale e disinteressato del prossimo. E quando arriva quel momento nessuna somma di denaro può cavarci dagli impicci.

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