Prova


Non preoccuparti della pioggia, lasciala cadere” (Marco Brignoli, Rifugio Baroni al Brunone, Sentiero delle Orobie Orientali)

venerdì 17 maggio 2013

Rimini ieri e oggi

“Io credo che se uno vive intensamente in pienezza spirituale ogni istante, gode per un anno e ogni anno diventa cinque anni più giovane!” (La dolce vita).

“È l’inverno che muore, sai, e arriva la primavera. Me la sento già addosso io, la primavera!”  (Amarcord).

“Lavoratori! Lavoratori della malta! Prrrr...!” (I vitelloni).

Il mio rapporto con Rimini risale alla notte dei tempi, vale a dire all’epoca degli esami di riparazione. Verso metà settembre, dopo aver disbrigato la pratica scolastica - di solito non ero mai solo in questo genere di gradevole intrattenimento - si partiva alla volta della riviera. Il primo anno eravamo da poco diventati maggiorenni e qualcuno aveva già conseguito la patente di guida. In virtù di ciò partimmo tutti in auto, una scassatissima Panda blu notte, messa generosamente a disposizione da Mattia. Dato che l’autista non gradiva l’autostrada e aveva intenzione di fermarsi nelle trattorie tipiche dei camionisti, facemmo un lunghissimo e noioso viaggio seguendo la via Emilia. Per percorrere i circa quattrocento chilometri che separano Milano da Rimini, ci impiegammo undici ore e mezza. Minuto più, minuto meno. Arrivati al campeggio buttammo giù la tenda canadese alla meno peggio e ci preparammo subito per la lunga notte. Dagli zaini saltarono fuori indumenti estremamente cool, camicie plissettate, inserti fosforescenti, scarpe a punta, bandane colorate, pantaloni jeans bianco latte. La moda dei primi anni novanta era veramente vomitevole. In auto si spandevano afrori pungenti e molto volgari: eravamo tutti profumati come bagasce turche. Un moderato ottimismo pervadeva tutti sulle avventure erotiche che sicuramente avremmo vissuto in quei giorni felici. L’unico che dimostrava un certo qual scetticismo era Rudy, un ragazzo la cui travolgente vitalità in alcuni frangenti ricordava vagamente la figura di Giacomo Leopardi. La frase che di solito ripeteva con rassegnazione era: «Ma cosa state lì a sbattervi… tanto lo sappiamo tutti che torneremo a casa senza aver conosciuto nemmeno la cameriera del locale…». Scegliemmo una delle tante discoteche della costa e ci lanciammo nelle danze sudando come batteristi rap. La prima sera, in effetti, come aveva profetizzato argutamente Rudy, non ci andò benissimo. Per tutto il giorno seguente ci costringemmo a digiuni sanguinosi con l’intento di risparmiare più soldi possibili per la discoteca. Non rinunciammo tuttavia agli eccessi: Ghigo aveva saputo da un lontano parente che i filamenti delle bucce di banane essiccati, se fumati con il tabacco, avevano effetti allucinogeni. Ci mettemmo all’opera, aggiungendo alla “droga” così ottenuta, anche degli aghi di pino triturati. Questa invece era una dritta formidabile fornitaci da un losco individuo che bazzicava i cessi del campeggio. Unico risultato fu solo un’atroce diarrea che durò per un’intera mattina e parte del pomeriggio. La seconda sera cambiammo discoteca, ma la faccenda non sembrò migliorare granché. Seduta su un divanetto c’era una ragazza di una bellezza solare, bionda, con una gonna corta che le metteva a nudo uno stacco di cosce da capogiro. Ci paralizzammo all’istante in contemplazione. Era sola, e di tanto in tanto le si avvicinava qualche ragazzo per dirle qualche parola. Lei, dopo aver ascoltato con un sorriso, rispondeva sempre scuotendo il capo. Passarono i minuti e, come in un’ideale competizione da giungla selvaggia, i grandi maschi dominanti cominciarono a farsi sotto, sempre più audaci. In coda c’erano i più famosi latin lover di tutt’Italia, gigolò di chiara fama, fotomodelli delle più prestigiose maison dell’alta moda parigina, rampolli delle più ricche e facoltose industrie patrie. Vennero tutti allontanati con gesti cortesi, ma risoluti. A quel punto mi consigliai con Mattia - che era considerato un po’ il filosofo della compagnia - e decisi di provare anch’io: a quel tempo mi mancava completamente il senso dell’autocritica. Mi avvicinai con una camminata a metà tra Humphrey Bogart e Alvaro Vitali e, con una sigaretta accesa tra le labbra, le dissi: «Ti va di ballare, pupa?». Mi rispose con un terrificante ruggito da leone della Metro Goldwyn Mayer. L’ultima sera ci giocammo il tutto per tutto. Scegliemmo una discoteca di periferia assai chiacchierata e ci scolammo addosso il resto delle fetide acque di colonia. Questa volta la sorte sembrò arriderci: sedute sui divanetti nella penombra c’erano due ragazze more. Mattia, che peraltro aveva l’acume visivo di una talpa in letargo, entrò in fibrillazione: «Ci stanno guardando, ragazzi… quelle tipe stanno fissando proprio noi…». Cominciò la tattica d’abbordaggio. Rudy, che non aveva mai fumato prima d’allora, mi chiese con ferocia una Marlboro e si incamminò verso le prede. Aveva pensato al più classico dei classici stratagemmi. Si avvicinò con nonchalance e dopo qualche attimo lo vedemmo accostare la sigaretta all’accendino di una delle ragazze. La discoteca fu squassata da violentissimi colpi di tosse catarrosa. Corremmo in aiuto, ma ormai si era clamorosamente fottuto con le sue mani. Le ragazze erano due teen-ager forse neanche maggiorenni. Una era di una bruttezza angosciante, naso da rapace, spessi occhiali da vista, un accenno di peluria sotto il labbro inferiore. L’altra tutto sommato non era malvagia. La tipa brutta cominciò a fissare Mattia e questi iniziò a sudare come una bestia in calore. Poi mi si avvicinò prudentemente e mi disse: «Senti, ho la vaghissima sensazione che quella tipa mi stia puntando…! Dato che ho dimenticato gli occhiali in macchina, mi dici secondo te com’è?». Non lasciai passare un nanosecondo: «E’ stratosferica Mat, non lasciartela scappare come un coglionazzo qualsiasi: buttatici su a pesce».   Mattia baldanzoso non si fece pregare. All’alba andammo a passeggiare sulla spiaggia e qui finalmente il nostro amico si avvide che la sua tipa non era poi sta gran Miss Italia. Mi prese da parte e mi fece un cazziatone selvaggio. Nonostante ciò lo obbligai a reggermi il moccolo. Lasciati gli altri amici ad un ritorno avventuroso con mezzi propri, cominciammo un lungo giro un macchina, io dietro con la mia bella, lui alla guida con la pantegana di fianco. Aveva un volto da incorniciare e cercava di stare il più lontano possibile dalla sua dama, allungato quasi completamente fuori dal finestrino. A lungo sostammo sulla terrazza di Gabicce Monte in contemplazione di quella lunga lingua di sabbia che saliva verso Cesenatico. A dire il vero però la contemplazione la facevano solo i passeggeri dei sedili davanti, dietro c’era ben altro a cui pensare. In tarda mattinata riaccompagnammo in albergo le due ragazze e tornammo verso il campeggio. Mattia era stravolto e fece guidare me, nonostante non avessi ancora la patente. Io ero felicissimo, e sebbene non dormissimo da tre giorni e tre notti, ero euforico e su di giri. Affrontai la strada alla maniera di Nuvolari e, quando giunsi in prossimità del passaggio a livello, misi a tavoletta. Il Pandino blu fece un salto agghiacciante e quando ricadde al suolo i semiassi scoppiarono con un rumore osceno. L’anteriore sinistra entrò direttamente nella sala da pranzo del casellante. Tornammo a casa in treno.
Passarono molti anni e un’estate, al ritorno da un trekking avventuroso in Val Maira, mi misi d’accordo col mio amico Pagnetto’ per trascorrere qualche giorno con Aleandra & Aleandra. Le due donzelle alloggiavano in un bike-hotel della riviera, erano gli ultimi giorni di agosto e già la popolazione vacanziera era ridotta al minimo. L’idea di rilassarmi sulle calde spiagge di Rimini, dopo tutta quella strada percorsa su e giù per i monti piemontesi, m’inebriava. Ci trovammo nel tardo pomeriggio alla stazione ferroviaria e in auto raggiungemmo l’hotel poco distante. Dopo un veloce check-in provammo a contattare le nostre due amiche, ma entrambe erano irreperibili al cellulare. Avevamo una fame disperata. Ci girammo attorno per un po’ e ad un tratto cominciammo a vedere una selva di donne e uomini anziani, con toni di voce estremamente alti, che s’incamminavano con molta fretta verso il salone da pranzo. Delle nostre amiche nemmeno la più pallida l’ombra. Seguimmo l’onda quasi in trance. Ad un dato momento ci fu come un segnale di carica: come iene fameliche del Serengeti, gli anziani si lanciarono con urla barbariche verso il buffet. Sembrava di assistere all’ottava piaga d’Egitto, quella delle cavallette. In pochi terrificanti istanti il ricco buffet fu saccheggiato senza pietà, tanto che nei grandi vassoi e recipienti non restavano ormai che pochi avanzi. La scena era stata apocalittica: in un caos totale orde di criminali in foulard e maglioncini di lana si erano affrontati a calci, pugni, sputi in faccia e minacce. Ci fissammo in preda all’angoscia: se avessimo aspettato ancora qualche minuto non sarebbero rimaste che briciole. Non ci fu bisogno di parole. Infischiandocene delle nostre compagne tirammo su due piatti e li riempimmo molto velocemente di rustici e verdurine sott’olio. Felici di questa impresa iniziammo ad aggirarci spaesati in quel chiassoso reparto geriatrico, in cerca di un tavolo libero. Ad un tratto ci venne incontro un uomo di circa trentacinque anni, bello, alto, vestito gessato grigio, atteggiamento estremamente sicuro di se: «Buona sera signori, benvenuti nel nostro hotel: mi presento, sono il maitre» - fece con tono serio e professionale. «Siete giunti or ora immagino…!». Parlava forbito, mettendo finanche tutti i congiuntivi al posto giusto. E poi aggiunse con fare più confidenziale: «Vedo sul registro che siete qui insieme a due ragazze, Leandri e De Rossi, giusto?». Noi annuimmo senza proferire verbo. «Beh - continuò sottovoce - , scusate se mi permetto, vedete io sono un po’ il consigliere dei clienti…! Ora potrei anche mostrarvi il vostro tavolo… però, sapete com’è, forse sarebbe più elegante se voi le aspettaste. Ad ogni modo decidete voi». Se ci avessero fucilato sul posto sarebbe stato meno doloroso. Ci guardammo con occhi lucidi: eravamo sul punto di piangere dall’umiliazione. Lasciammo lì i piatti e uscimmo senza voltarci indietro. Dalla mattina dopo ci scatenammo sulle biciclette: dapprima percorremmo tutta la splendida panoramica che da Rimini porta a Pesaro; poi ci involammo verso l’interno, visitando magnifici borghi e paesini collinari, quali Monte Gridolfo, Mondaino, San Leo, Morciano, Sant’Arcangelo di Romagna. E infine, messa a punto la preparazione, affrontammo l’ascesa a San Marino. L’andatura delle due Aleandre era estremamente rallentato, anche perché, come tutte le donne del globo terrestre, anch’esse avevano i loro dannatissimi rituali. Ed in più ogni volta che incrociavano qualche cespuglio di more dovevano fermarsi per farne incetta. Pagnetto’ ed io eravamo costretti ogni volta ad aspettarle per delle mezz’ore intere. La sera poi, c’era l’immancabile aperitivo a base di spritz-aperol in riva al mare, seguito da una mangiata di pesce innaffiata da ottimo vino bianco, e per concludere quattro passi di danza, non di più data la stanchezza. Un giorno una delle due Aleandre incrociò per strada un conoscente che era stato per un certo periodo fidanzato con una sua amica. Costui soffriva di una depressione cosmica dal momento che non aveva ancora digerito l’abbandono della propria compagna. Aleandra, sebbene da sempre fosse persona disposta ad aiutare chiunque, sopportava con insofferenza quella presenza. D’accordo stargli dietro, ascoltare i suoi sfoghi, piagnistei, tutto giusto, per carità. Ma dopo un po’ la faccenda diventava seccante. Parliamoci chiaro, in fin dei conti eravamo pur sempre in vacanza. Oltre tutto, per quanto ci sforzassimo, non c’era verso di strappare neanche un accenno di sorriso al depresso, neanche facendo ricorso alle più sofisticate barzellette del meglio del Bagaglino. Probabilmente non avremmo cavato un ragno dal buco neanche se avessimo cominciato a solleticarlo con violenza sotto la pianta dei piedi. Un pomeriggio ci recammo alle terme di Riccione. C’erano gli idromassaggi, le docce a cascata, i percorsi kneipp e altro. C’era anche una grande piscina con acqua riscaldata. Ad un tratto, dopo una bella nuotata, Pagnetto’ ed io cominciammo una finta lotta al centro della vasca. Ci guardavano tutti con curiosità. Richiamammo l’attenzione delle due Aleandre e del depresso: eravamo due pagliacci in cerca di pubblico. Tra una mossa di karate brianzolo e un calcio di judo ciociaro, ci venne in mente di affrontarci alla maniera delle foche monache dell’Artico Settentrionale: con i braccini sollevati verso l’alto e i capi riversi all’indietro ci slanciammo l’uno verso l’altro emettendo fonemi gutturali assai sgraziati. Ridevano tutti, dal bordo piscina fino agli spogliatoi. Il depresso, dopo lungo tentennamento, si lasciò andare ad una smorfia del viso appena abbozzata che molti intesero verosimilmente come sorriso.
Da quell’anno in poi, nacque un appuntamento fisso: “la biciclettata di primavera”. Si tratta di un ritrovo che riscuote sempre molto successo e che consente di rivedere persone care anche a distanza di molto tempo. Di solito si sceglie un albergo vicino al mare, estremamente economico, posto in posizione centrale, vicino alla stazione e nei cui pressi si trovi un noleggio biciclette. Quest’incombenza, che porta via non meno di un paio di giorni di estenuante ricerca, viene sempre affidato democraticamente al sottoscritto. Si arriva il venerdì pomeriggio e si riparte la domenica sera. In questo lasso di tempo si pratica sport - soprattutto bicicletta - , si fanno delle grandi mangiate e bevute, si balla in locali sulla spiaggia, si chiacchiera, si fa all’amore, si scolano bottiglie di Talisker e altro. È una piccola sospensione della pena di vivere quotidiana, quasi un accenno di paradiso in terra. Un anno Elena ci fece penare non poco. Dopo un estenuante tira e molla, decise di raggiungerci il sabato mattina. Le diedi tutte le informazioni del caso e cominciai a entrare in fibrillazione, conoscendone le non brillantissime doti d’orientamento. A metà mattinata mi chiamò, dicendomi che era arrivata. Piacevolmente sorpreso le risposi di attendermi fuori dall’albergo. Scesi in strada, ma non vidi nessuno. La richiamai, e questa mi confermò di trovarsi in via Cormons, davanti all’Hotel Cortina. Non credevo alle mie orecchie, presi la bicicletta e cominciai a fare su e giù per la via sperando di scorgere la sua Peugeot celeste. Il tempo passava e non la vedovo. La richiamai e le chiesi di percorrere tutta la strada fino a raggiungere la grande piazza con la rotonda e le aiuole: Piazza Kennedy. Lei eseguì. Nulla di nulla. Nel frattempo erano scesi a darmi una mano nelle ricerche anche gli altri. Passavano le ore e il mistero s’infittiva. A quel punto Pagnetto’ - astuto come un coiote dei Castelli Romani - propose: «Dille di raggiungere il lungo mare e di piazzarsi sotto il numero dello stabilimento 65, da Oscar». Detto fatto. Trascorsero dieci minuti ed Elena mi richiamò: si trovava esattamente sotto l’insegna. Io trasecolai: o la mia amica aveva cambiato completamente connotati, oltre che l’auto, o c’era qualcosa che non tornava. A quel punto, estremamente irritato, le domandai: «Scusami Elena, fammi una cortesia…, ma davanti a te, guardando verso il mare, cosa vedi esattamente? ». La risposta fu sorprendente: «Vedo una scogliera, un molo, delle barche…». Mi cedettero le gambe: davanti a me c’era solo un’infinita distesa di sabbia punteggiata di ombrelloni chiusi e sdraio…! «Allora Elena - continuai - non prendertela a male per quello che sto per dirti… però potresti farmi un piccolo piacere? Potresti chiedere al primo passante che ti capita in che paese ti trovi…! Non è per mancanza di fiducia… credimi!». Elena mugugnò risentita, ma dopo trenta secondi, con voce da criceto spaventato mi fece: «Scusa Lu, mi sa che mi sono sbagliata… pare che al momento mi trovi nei pressi di Bellaria». Dalla vicenda ricavai due considerazioni: primo, non c’era più tempo da perdere, dovevo regalare subito un navigatore satellitare a Elena; secondo, che i comuni romagnoli hanno davvero una bella fantasia…!
L’anno scorso la biciclettata si è svolta a fine maggio. Rimini era ancora deserta, i prezzi estremamente vantaggiosi e il clima ideale per fare sport. In compagnia si sono aggregati anche altri amici, Dominique, Lorenzo e Carletto. I primi due sono ragazzi atletici, fondisti provetti, salutisti; il terzo invece, così come me d’altra parte, è un gran bevitore di superalcolici, fumatore incallito, sedentario totale, pigro e indolente. Abbiamo affittato le biciclette presso un losco individuo e ci siamo involati verso l’interno, seguendo la polverosa ciclabile del Marecchia. Carletto ha rischiato subito un tragico frontale con un tir, ma per sua fortuna non se n’è accorto. A metà strada il gruppo si è fermato: del nostro amico neanche più l’ombra. Dopo circa venti minuti eccolo arrivare con la sua andatura al limite del ribaltamento. A trecento metri da noi si ferma sotto un banano, butta per terra con disprezzo la bicicletta e si accende una sigaretta. Lo raggiungo, è molto stanco e scocciato. Gli fanno male le protuberanze ischiatiche, come le chiama lui, vale a dire le chiappe. Dopo breve consulto decide di tornare indietro. Sono preoccupato, ma egli insiste. Una volta tornato al baracchino del noleggio il losco esplode: «Eh ma questa bicicletta è tutta sporca… dove siete andati? Qua c’è da pagare la pulizia, sono cinque euro più I.V.A.». Carletto è stravolto e l’unica cosa che risponde è: «Senta buon uomo, non c’ho un centesimo bucato in saccoccia…! Se la veda con i miei compari di merende. Stia bene e buon anno nuovo». Si avvia a piedi verso l’hotel, ma si perde subito. Una ragazza americana lo rimette sulla via giusta portandolo per mano. Sul lungomare si ferma presso un fetido chioschetto e, sotto un sole di rame, si butta giù a collo una Peroni gigante. Entrando in albergo barcolla, parlotta con se stesso e di tanto in tanto canticchia filastrocche romagnole. L’addetto della reception, tale Vito, pensa che sia ubriaco marcio e si offre di chiamare un’ambulanza per una delicata lavanda gastrica. Il nostro rifiuta cortesemente e sale in camera. Si risveglierà la mattina dopo.
(Il Cialtrone, 2012 - pag. 357)

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