Prova


Non preoccuparti della pioggia, lasciala cadere” (Marco Brignoli, Rifugio Baroni al Brunone, Sentiero delle Orobie Orientali)

venerdì 31 maggio 2013

Vendesi posto in Paradiso

Nel film Noi uomini duri, Pozzetto e Montesano sono due borghesi alle prese con una spaventevole scuola di sopravvivenza. Non mangiano da giorni e durante un’esercitazione s’imbattono in un cascinale immerso nel bosco. L’olfatto li guida fin sulla soglia della porta. In cucina ci sono tre persone sedute a tavola. I due bussano ed entrano. Gli occhi sgranati fissano le prelibatezze deposte sul desco e appese alle pareti. Prende la parola Pozzetto: «Buongiorno, siamo due turisti viandanti alla ricerca dei cibi genuini. Compriamo tutto, prosciutti, salsicce, salami, conigli, galline, e anche roba sciolta…, minestre, pane. E poi non badiamo a spese». Una donna anziana gli risponde: «Mi dispiace, ma proprio non si può…». Al che, disperato e dunque leggermente incazzato, interviene Montesano: «E lo so, ma anche se non fossero genuine, io prendo anche il sano prodotto industriale…!». E questa: «Non si può. La scuola c’ha imposto di non vendere nulla agli allievi». A questo punto prende nuovamente la parola Pozzetto, che tra i due è il più deciso (e facoltoso): «Scusate, ogni cosa ha il suo prezzo: per esempio, le due minestre lì, centomila non va bene?». «No…». «Centocinquanta? Duecento?». «Ho detto di no…». «Allora non avete capito niente: cià, cosa costa la baracca…?».
Ogni cosa ha il suo prezzo: grande verità. Verità che associata a grandi idee può davvero dar vita a delle trovate straordinarie. Tipo Antonio de Curtis, in arte Totò, che vende la Fontana di Trevi all’italio-americano Decio Cavallo. Un pezzo d’antologia cinematografico (Totòtruffa, 1962). Recentemente tuttavia, la pur geniale pensata di Totò, è stata - se ci è concesso - ampiamente superata. Ari Mandel, un trentenne ebreo di New York, ha pensato bene di mettere in vendita su E-Bay niente meno che “un posto garantito in Paradiso”. Ovvero il suo. Che genio…! In effetti visto che ogni cosa ha un prezzo, perché non vendere anche l’accesso diretto al Paradiso. Che poi, ad essere proprio sinceri, non è che la trovata sia proprio originalissima: basta conoscere un po’ di storia medievale della Chiesa per rendersi conto che le indulgenze a pagamento erano il sistema più diretto per varcare la soglia della beatitudine. Sulla carta, naturalmente. E così Ari Mandel, ex seminarista di una scuola rabbinica ed ultraortodosso (indi per cui sicuramente destinato alla vita eterna...), ha aperto un account su E-Bay, e ha inserito l’inserzione: “My Portion in Olam Habaah (Heaven)”, ovvero il mio posto in Paradiso. Prezzo base? Pochissimo: 99 centesimi. D’altra parte come si fa a speculare sull’anima? Ma ciò che era cominciato come un gioco, è presto diventato un affare serissimo, tanto che le offerte - sempre più a rialzo - hanno raggiunto la considerevole cifra di 100 mila dollari. A quel punto la faccenda non è più passata inosservata. Neanche ai responsabili del portale di vendite online. Tant’è vero che la pagina del buon Mandel, è stata immediatamente chiusa da E-Bay. Motivo? “We don’t allow listings that aren’t offering anything for sale or those that have intangible items”. Ovvero, non si possono mettere in vendita beni intangibili e immateriali. A questo punto però, il nostro inserzionista escatologico era già una star, tanto che la NBC News è corsa ad intervistarlo. A domande del cronista Mandel ha risposto: “Non avrei mai creduto che qualcuno avrebbe preso quella proposta sul serio”. Ed invece è esattamente ciò che è accaduto: 181 offerte di acquisto da tutto il Mondo, diverse centinaia di e-mail, telefonate e messaggi su Facebook. Un successo clamoroso. Sarà pure stato un gioco, ma sono assolutamente convinto che di fronte a tali cifre il buon Mandel avrà sicuramente pensato: “È fatta…”. In fin dei conti quanti ciarlatani si sono arricchiti vendendo pozioni magiche ed elisir di lunga vita? Bazzecole al confronto dell’eternità al cospetto dell’Altissimo.
Come che sia, la faccenda ha davvero dell’incredibile. Ormai sul serio si crede di poter comprare qualunque cosa col denaro. La salvezza sopra ogni cosa. La vita (e dunque la morte) ci fa talmente paura che siamo disposti a credere che persino il posto in Paradiso sia in vendita. Ma facendo ciò, intrinsecamente, rinunciamo a vivere. Se pensiamo di poter programmare tutto, di non correre mai rischi, di garantirci sempre il meglio e dunque di prenotarci perfino un biglietto di prima classe per l’estremo viaggio, significa che siamo davvero al capolinea. Mercoledì scorso è morta Franca Rame. Moglie, compagna e collega di tutta una vita di Dario Fo. Mi sono chiesto, come si può sopravvivere ad una perdita di questo genere? Come si può amare tanto una persona e sapere al contempo che prima o poi la perderai? O lei perderà te? E così mi è tornato in mente una frase del film Viaggio in Inghilterra: “Why love, if losing hurts so much? I have no answers anymore: only the life I have lived. Twice in that life I’ve been given the choice: as a boy and as a man. The boy chose safety, the man chooses suffering. The pain now is part of the happiness then” (Perché amare se perdere fa così male? Non ho più risposte: solo la vita che ho vissuto. Due volte nella mia vita ho potuto scegliere: da bambino e da adulto. Il bambino scelse la sicurezza, l’adulto sceglie la sofferenza. Il dolore di oggi fa parte della felicità di ieri).
Già, il dolore: senza la felicità non ci sarebbe nemmeno il dolore. Due facce della stessa medaglia: la vita. Stamattina sul blog di Grillo c’era un post di Dario Fo. Racconta di un lavoro a cui stava lavorando Franca, un testo inedito che riprende un apocrifo relativo all’Antico Testamento. Siamo in Paradiso e il Padreterno chiede ad Adamo ed Eva di scegliere tra i frutti di due alberi: il primo regala l’eternità; l’altro conoscenza, sapienza e anche il dubbio. “Per quanto mi riguarda - grida subito Eva - io ho già deciso, personalmente scelgo il secondo albero, quello delle mele. Se devo essere sincera, Dio non offenderti, a me dell’eternità non interessa più di tanto, invece l’idea di conoscere, sapere, aver dubbi, mi gusta assai! Non parliamo poi del fatto di potermi abbracciare a questo maschio che mi hai regalato. Mi piace!!! Da subito ho sentito il suo richiamo e mi è venuto un gran desiderio di cingermi, oh che bella parola ho scoperto cingermi!, cingermi con lui e farci... come si dice?! Ah, farci l’amore! So già che questo amplesso sarà la fine del mondo! E ti dirò che, appresso, il fatto che mi toccherà morire davanti a tutto quello che ci offri in cambio: la possibilità di scoprire e conoscere vivendo… mi va bene anche quello. Pur di avere conoscenza, coscienza, dubbi e provare amore… ben venga anche la morte!”. Il Padreterno è deluso e irato quindi si rivolge ad Adamo e gli chiede con durezza: “E tu? Che decisione avresti preso? Parlo con te, Adamo sveglia! Preferisci l’eterno o l’amore col principio e la fine?” E Adamo quasi sottovoce risponde: “Ho qualche dubbio, ma sono molto curioso di scoprire questo mistero dell’amore anche se poi c’è la fine”.

Fonte: http://www.nbcnews.com/technology/oy-if-he-were-rich-man-not-selling-heaven-ebay-6C10115938
http://www.beppegrillo.it/2013/05/dario_per_franca.html#commenti

giovedì 30 maggio 2013

Il ritorno dei cavernicoli

Qualche mese fa Dominique (che non è una donna, come molti credono, ma un uomo… e pure con la barba) mi chiamò tutto euforico e mi disse: «Ohi, vai di corsa su youtube e clicca Movnat. È una figata: proprio quello che andiamo cercando noi…». Non gli detti molto retta, ad essere sincero: avevo altro per la testa in quel momento. Eppure, data la sua concitazione, avrei dovuto capire che si trattava di qualcosa di grosso. Dalle sue frasi s’intuiva che Movnat era qualcosa che aveva a che fare con la natura, con l’attività fisica, forse con le vacanze. Tutte parole che non dovrebbero lasciare indifferente un amante del genere qual’io sono. Il fatto è che ormai sono diventato talmente scettico e disincantato, che prima di dare retta a qualcuno, si trattasse anche del mio miglior amico, ci penso su tremila volte. Ieri però, ciondolando qua e là su internet, mi sono imbattuto in una serie di immagini davvero singolari: gruppi di uomini e donne, quasi completamente ignudi, alle prese con esercizi fisici nel bel mezzo di un bosco (o forse di una jungla cambogiana). La prima impressione è stata che si trattasse dei disperati partecipanti dell’ultima, meravigliosa edizione dell’Isola dei famosi. Ma mi sbagliavo. Costoro infatti non sono altro che alcuni dei nuovi, fortunatissimi adepti della “paleo - ginnastica”, ovvero l’ultima frontiera del fitness che sta impazzando negli Stati Uniti. I novelli cavernicoli infatti, abbandonate le agghiaccianti palestre al profumo di lavanda e mughetto, e lasciate alle spalle le anonime e costose beauty farm, hanno abbracciato con convinzione il nuovo verbo di Erwan Le Corre, fondatore di MovNat fitness system: per essi si è spalancato un universo sensoriale fatto di contatto con la natura, ritorno alle origini, fatica fisica in un contesto selvatico, ludico e a tratti fanciullesco. Ci si arrampica sugli alberi, ci si lancia pietroni da afferrare al volo (possibilmente non con la testa), si sale su impalcature di legno e ci si mette a testa in giù, si striscia nel fango. E poi si salta sui massi, si trasportano sulla schiena tronchi da due quintali, si sale sulla corda (insaponata), si corricchia nel sottobosco. Il tutto rigorosamente a piedi nudi. Anche se il terreno è cosparso di rovi, sterpi e spine acuminate. L’importante in altre parole, è mettersi alla prova come dei veri trogloditi. Sembra forte come esperienza, ma io li capisco. D’altra parte chi come me ha provato l’angoscia della cyclette o del vogatore davanti alla parete bianca, non può che apprezzare questa scelta di vita, questa voglia di evasione e di aria aperta. E già perché l’esperienza non è finalizzata esclusivamente all’esercizio e alla fatica fisica (sarebbe limitativo), ma intende mettere i partecipanti nelle condizioni di vivere una giornata da veri uomini primitivi. Un po’ come quel film degli anni ’80, Noi uomini duri, con Renato Pozzetto ed Enrico Montesano. Chi non ricorda i nostri eroi alle prese col ponte tibetano? (quello che s’avvolgeva improvvisamente intorno a Montesano, con effetto caramella). Le Corre afferma che ormai gli esercizi noiosi e ripetitivi delle palestre classiche hanno fatto il loro tempo (come dargli torto…) e che per sentirsi bene e in salute è necessario compiere movimenti diversi, esercizi che variano frequentemente, esattamente come quando eravamo bambini. In effetti i bambini corrono e giocano per ore, e per molti questo è il miglior esercizio che ci sia al mondo. Perché oltretutto diverte. I seguaci di questa moda inoltre sostengono che questo genere di attività, non solo ci permette di mantenere la linea, ma ci prepara altresì ad affrontare le diverse situazioni di tutti i giorni (arrampicarsi su un albero per sfuggire all’orso delle caverne; correre nella savana per non essere divorato dalla tigre dai denti a sciabola etc...). In effetti basta vedere il modo con cui un normalissimo cittadino si approccia, per esempio, a situazioni tipo accendere un fuoco, o tagliare la legna. È già tanto se non si affetta una mano o non diventa una pira umana…! L’esserci allontanati così tanto dallo stato di natura non ci ha fatto bene. Per non parlare dell’incapacità pressoché assoluta di districarci nei piccoli problemi quotidiani legati alla manualità. Nessuno più è capace di sgorgare un lavandino, sistemare una tapparella, riparare un qualsiasi oggetto rotto. Occorre il tecnico per tutto. Sempre che abbia tempo, s’intende. Qualche mese fa parlavo con un ragazzo rumeno. Era giunto alcuni anni prima in Italia (probabilmente clandestino). In breve tempo aveva cambiato tre o quattro lavori, fino a che non aveva trovato quello che faceva per lui. Muratore, idraulico, elettricista, meccanico, aveva fatto di tutto. Quando gli chiesi, ma scusa, come mai sei esperto di tutti questi mestieri, egli mi rispose: “Perché al mio paese tutti sanno fare un po’ di tutto. I bambini apprendono guardando i padri, gli zii e così via. Una volta adulti, non hanno bisogno di nessuno”. Che infondo era quello che succedeva anche da noi cinquant’anni fa.
Le Corre afferma che tutti siamo in grado di saltare, strisciare, arrampicarci: il nostro fisico è stato progettato per fare questo e molto altro ancora. Esattamente ciò che fanno tutti i bambini del mondo, a qualunque latitudine. Ed è ciò che dovremmo continuare a fare noi tutti, anche da adulti. Ottimo suggerimento, Erwan: da domani tutti al parco scalzi e in mutande. Io porta la clava, all’arco e alle frecce ci pensa Dominique.

Fonte: http://healthland.time.com/2013/01/18/we-tried-this-with-movnat-play-like-youre-a-kid-again/
https://www.youtube.com/watch?v=csWBf260ins

mercoledì 29 maggio 2013

Darwin aveva torto?

A dire il vero noi ce n’eravamo già accorti da un pezzo, e l’avevamo anche denunciato a più riprese da queste colonne. Di cosa stiamo parlando? Del crollo del Q.I. (quozienti intellettivo). Certo in mancanza di prove scientifiche non potevamo che arrivarci per deduzione. D’altra parte, quando dopo cinquemila anni di civiltà, si giunge a trascorrere ore ed ore della propria vita davanti ad una slot-machine, in attesa che escano tre prugne, c’è poco da dubitare. A darne notizia è la rivista scientifica Intelligence che nel numero di questo mese pubblica uno studio condotto dall’Università di Amsterdam, dall’Ateneo di Umea in Svezia e dall’University College di Cork. Secondo i ricercatori nell’arco di un secolo, o poco più, il quoziente intellettivo medio degli occidentali è diminuito di circa 14 punti. O perbacco, e noi che pensavamo di aver raggiunto l’apice della conoscenza e dell’apertura mentale - e dunque dell’intelligenza - grazie ai progressi della scienza e della tecnologia, oltreché a quelli legati alla miglior educazione, igiene e alimentazione. Tutte sciocchezze, a quanto pare. Comprese le teorie di James R. Flynn, il maggiore studioso del campo, secondo cui il Q.I. crescerebbe con il passare delle epoche ad un media di circa tre punti ogni decennio. Lo studio afferma che, a partire dalla fine dell’Ottocento, epoca di grande sviluppo delle capacità umane, è stato tutto un lento ed inesorabile decadimento dell’intelletto. In realtà, se vogliamo dare retta alle ultime teorie evoluzionistiche, il decadimento avrebbe radici assai più profonde, e andrebbe retrodatato ad un epoca addirittura preistorica. Vale a dire al momento esatto in cui i nostri antenati hanno smesso di essere dei semplici cacciatori-raccoglitori e, divenendo stanziali, hanno preso a trarre la loro sussistenza dall’allevamento del bestiame e dalla coltivazione della terra. Dove un tempo dunque la penuria di cibo e l’aleatorietà dell’esistenza garantivano la perfetta selezione genetica (solo i “migliori” sopravvivevano), con il sopraggiungere di una società diversa, basata su gruppi di individui più numerosi, più coesi e meglio organizzati, e dove la sicurezza e l’alimentazione erano più costanti e garantite, ecco che questo fattore si attenua e tendono a sopravvivere (e a tramandare i propri geni alla prole) anche i “peggiori”. Facendo un raffronto tra i dati odierni e quelli racconti a fine ‘800, pare che il Q.I. medio degli abitanti del mondo occidentale sia diminuito di 1,23 punti ogni decennio. Decadimento riscontrato peraltro anche nel test sulla reattività visiva: mentre nel 1889 un uomo rispondeva ad uno stimolo dopo 183 millesimi di secondo, nel 2004 il tempo era salito a 253 millesimi di secondo. E non si salvano nemmeno le donne (188 a 261) che pure, si sa, sono infinitamente più intelligenti degli uomini. A prescindere (?!?!?!). Ma alla domanda cosa esattamente spiega questo declino, cosa rispondono i ricercatori? Forse qualcosa che abbia a che fare con la facilità di accesso alle informazioni (basta un click per arrivare ovunque) che ha svilito il gusto e l’esercizio della ricerca e della conquista? No, tuttaltro, ecco come risponde Jan te Nijenhuis, docente di psicologia dell’University of Amsterdam: “Women of high intelligence tend to have fewer children than do women of lower intelligence”. Ovvero le donne più intelligenti fanno meno figli e ciò causa un abbassamento generale della media del livello intellettivo della popolazione. Il perché non è detto, ma forse si può intuire: grandi successi legati al proprio lavoro e al proprio intelletto, potrebbero (condizionale d’obbligo) far passare in secondo piano l’istinto della maternità. Rita Levi Montalcini una volta dichiarò in un’intervista di non nutrire alcun rimpianto per non avere avuto figli: «A mio padre, quando avevo sei anni, in un periodo tipicamente vittoriano, ho detto “io non mi sposerò e non avrò figli”. E lui rispose “non ti approvo, ma non posso impedirtelo”». Ciò non vuol dire ovviamente che solo le meno intelligenti fanno figli. A maggior ragione se diamo retta ad una ricerca condotta qualche anno fa dall’Università di Pittsburgh, che mise in correlazione l’intelligenza delle donne con il loro aspetto esteriore. Dai risultati emerse che le donne più formose, ovvero quelle caratterizzate da vita stretta e fianchi larghi, avevano un Q.I. superiore alle altre, soprattutto alle supermagre. Risultati speculari anche per i figli delle donne esaminate. La ragione di tutto ciò, secondo gli studiosi, andrebbe ricercata nel grasso presente attorno ai fianchi e alle cosce delle cosiddette “donne-clessidra”, garanzia di più alti livelli di Omega 3, un acido che è essenziale per lo sviluppo del cervello durante la gravidanza. Viceversa pare che il grasso attorno alla vita apporti maggiori livelli di Omega 6, un acido meno adatto allo sviluppo del cervello. È dimostrato scientificamente, peraltro, che gli uomini sono molto più attratti dalle donne-clessidra, piuttosto che da altri tipi. E la ragione sarebbe ancora una volta da ricercare nella storia dell’evoluzione: fianchi larghi erano garanzia di fertilità, propensione alla gravidanza e facilità per il parto. E dunque discendenza e sopravvivenza della specie.
E così non solo più belle e attraenti, ma anche più intelligenti e con figli geni. È proprio vero, “a chi tutto e a chi niente”.

Fonte:   http://www.huffingtonpost.com/2013/05/22/people-getting-dumber-human-intelligence-victoria-era_n_3293846.html

http://www.repubblica.it/2007/11/sezioni/cronaca/donne-curve/donne-curve/donne-curve.html

martedì 28 maggio 2013

“La mancia, la lasciamo o no?”

La mancia, è una certa somma di denaro che viene elargita, oltre al dovuto, come ricompensa per il servizio prestato. Questa è la definizione classica che si trova sui dizionari. In subordine si parla di dono, regalo, ricompensa. Nell’antica Roma, a Ferragosto (feriae Augusti - riposo di Augusto) non solo non si lavorava, ma si svolgevano anche festeggiamenti e corse di cavalli alle quali partecipavano i rappresentanti delle classi più agiate. In tali circostanze i lavoratori facevano i loro auguri ai padroni e in cambio ricevevano dei quattrini, ovvero una mancia. La storia è una grande maestra di vita, e qua e là ricompare sempre una qualche traccia del passato. Fino ai primi decenni del ‘900, ad esempio in Lombardia e Piemonte esisteva l’usanza denominata “dà el faravóst” (dare il ferragosto), ovvero si elargiva una mancia (in denaro o generi alimentari) alle maestranze, da parte dei datori di lavoro, cosicché anche le famiglie dei lavoratori potessero trascorrere lietamente il giorno di Ferragosto. Molti tuttavia, ritengono che la mancia derivi da un’abitudine in voga nei tornei cavallereschi medievali: le dame che desideravano manifestare la propria predilezione per le gesta eroiche di un cavaliere, gli donavano le maniche del loro abito (manche, in francese). Pare che a quel tempo fossero staccabili. Come che sia, oggi la mancia è una presenza costante del nostro vivere quotidiano e, volenti o (più spesso) nolenti, con essa siamo costretti a fare i conti. Soprattutto se varchiamo i confini della nostra bella Nazione. E già perché finché siamo sul suolo patrio, possiamo anche far finta di niente e fregarcene di far la bella figura lasciando qualche spicciolo, ma se ci comportiamo alla stessa maniera all’estero, corriamo il rischio di far davvero una brutta figura. Per evitare tutto ciò ecco correrci in aiuto l’apposita ricerca della Fipe “La mancia nei pubblici esercizi”, ovvero una sorta di prontuario circa gli usi e le consuetudini presenti nei diversi paesi del Mondo. E così, tra le pagine della ricerca si legge per esempio che in Germania e Svezia (e in generale in tutti i paesi nordici) è prassi che i clienti lascino la mancia. Senza stabilire tuttavia alcun parametro. Al contrario della Francia, dove al di sotto di una certa cifra si corre il rischio di vedersi tirare in faccia le monetine. In Spagna invece l’importo della mancia deve essere in proporzione al conto finale (5-10 per cento). In Inghilterra poi è consuetudine lasciarla a meno che il conto non segnali il servizio incluso. Spostandoci verso est, se uscite da un ristorante polacco senza lasciare qualcosa per i camerieri sarete considerati dei gran cialtroni; viceversa, in Giappone non vi azzardate a fare il bel gesto: le katane sono affilatissime e l’onore viene prima di ogni cosa. Negli Stati Uniti, al contrario, la mancia è obbligatoria (15 per cento), anche perché il costo del servizio è quasi sempre escluso dal conto finale. La gran parte dello stipendio dei camerieri dunque, dipende proprio dalla quantità di mance che riescono a racimolare. Ecco perché, la prima volta che lavorai come tour-leader per una società americana, mi ritrovai a contare più quattrini raccolti con le mance che non con la paga fissa. Decisamente una gradita sorpresa. Da noi in Italia, la mancia è ancora una sorta di animale mitologico. C’è chi è disposto a sganciare con gran magnanimità (quasi esclusivamente in presenza di una dolce pulzella da conquistare) e chi è pronto a fare il diavolo a quattro perché “è già tutto compreso”. Una volta assistetti ad una scena veramente raccapricciante: mi trovavo in un rifugio alpino auto-gestito. Tra le varie figure presenti in quella circostanza c’era anche una ragazza “alla pari”, che in cambio di vitto e alloggio, dava una mano in cucina. Si chiamava Barbara ed il mio caro amico Davide la ribattezzò immediatamente “Barba-cuoca”. Al termine del lungo fine settimana un tizio di Roma, spinto da un refolo di altruismo umanitario, propose al gruppo di raccogliere una mancia per la ragazza. Fecero tutti finta di non sentire. «Un euro, un euro a testa - insistette - Cosa volete che sia? Siamo venti: viene fuori una bella cifretta…!». Non ci fu verso di far scucire a quelle iene nemmeno un centesimo. A quel punto proposi al romano di metterceli noi due quei quattrini: «Eh no, che c’entra? - rispose feroce - Un conto è se ce li mettevano tutti…, equamente divisi…! Altra storia e cacciarli io e te: e che so’ cojone…». Giustamente. Un’altra volta mi trovavo con amici in Liguria, zona Cinque Terre. Dopo una lunga giornata di trekking finimmo in un meraviglioso ristorante con specialità marinare. E questo è ciò che seguì al termine della serata:
«Era stata una delle migliori cene degli ultimi anni e l’avremmo ricordata a lungo. Quando il ristoratore portò il conto - una vera mazzata per i nostri budget risicati - facemmo tutti finta di niente. Enrico si incaricò dei conteggi e ci disse quanto avremmo dovuto mettere a testa. Purtroppo però, vuoi per l’alcol tracannato, vuoi per la stanchezza, il “Silenzioso”, così come era familiarmente soprannominato, fece un tragico errore senza accorgersene: la cifra raccolta infatti era di quasi dieci euro inferiore a quanto dovuto.
“Beh io direi di lasciare come mancia il resto, dai: abbiamo proprio mangiato bene. Cosa ne dite?”.
“Bravo Enrico - rispose Robertino in un insolito slancio di generosità - , sono d’accordo con te per una volta”.
“Allora senta, questi sono i suoi - fece Enrico al gestore, con la stessa solennità di un imperatore romano che concede la grazia al condannato a morte - E visto che qui siamo proprio stati bene - tra l’altro le faremo pubblicità… - tenga pure il resto e lo dia al ragazzo come mancia. Va bene?”.
Il gestore contò le banconote ed accorgendosi dell’ammanco esclamò: “Beh, a dire il vero sono io che vi lascio la mancia. Ad ogni modo va bene così”.
Enrico diventò di colpo color porpora: “Come sarebbe, non sono giusti?”.
“Ma Enrico, che figure ci fai fare?” - fece Federica.
“Mancano circa dieci euro: ma comunque non vi preoccupate, siamo a posto così”.
Ringraziammo ed uscimmo profondamente umiliati. Per superare lo smacco, ci aiutammo col bere».
(Sulle orme di Francesco, 2011)

Fonte: http://www.fipe.it/comunicazione/la-voce-di-fipe/note-per-la-stampa/2423-fipe-paese-che-vai-mancia-che-trovi-.html

lunedì 27 maggio 2013

Sesso e previsioni del tempo

Ieri è stata una bella giornata nella bassa padana. E parlo di meteo, naturalmente. Si certo, c’era un venticello freddo e fastidioso, e sostare all’ombra era sconsigliabile (soprattutto per i broncopatici…), ma il sole era robusto e il cielo terso. Banale direte. Concordo. D’altra parte come si fa a non spendere due parole su questa strana primavera? Pare che sia la più piovosa da 200 anni a questa parte. Oltre che la più fredda da 30. E così, questa bella giornata di sole ieri mi ha rinfrancato proprio e ho cominciato a guardare al futuro con un certo qual ottimismo. Questa mattina però, dopo aver letto l’oroscopo come la quasi totalità degli italiani, (pare che sia una settimana propizia per l’amore, ma nefasta per gli affari - e te pareva…), ho scrutato le previsioni del tempo. Sbirciando rigorosamente sul giornale del vicino in metropolitana. E dire che arrivato neanche a metà settimana il tizio voleva girare inopinatamente pagina. Senza dire nulla… Gli ho detto cortesemente: “Abbia un po’ di pazienza, e che diamine…!”. Si è scusato correttamente e così ho terminato la lettura. Morale? Niente di buono. Da martedì peggioramento del tempo: pioggia, vento, addirittura neve al Nord. E come non bastasse, ecco in arrivo l’influenza di primavera: “Una stagione davvero atipica, che sta provocando un importante strascico della stagione dei malanni, con sindromi simil-influenzali che interessano oggi circa 120mila italiani”. A parlare è Fabrizio Pregliasco, virologo dell’Università di Milano che aggiunge: “Bronchite, tosse, mal di gola, starnuti, naso che cola e a volte anche febbre alta e voce che cala di intensità. Questi i sintomi più comuni che si stanno manifestando a causa soprattutto dei numerosi sbalzi termici ai quali siamo sottoposti in questo periodo”. E indovinate un po’ chi c’è tra quei fortunati 120mila? Ma il sottoscritto, naturalmente. E dunque ci lasciamo andare allo sconforto, e piangiamo la nostra triste sorte? Ovviamente no: verranno giornate di caldo, e presto ci ritroveremo assai coerentemente a dire: “Magari ci fosse una di quelle belle giornate fredde di pioggia di questa primavera…”. Senza tuttavia aspettare il cambio di stagione ecco giungere puntuale una ricerca che promette di risollevarci il morale anche in costanza di maltempo. Sul quotidiano free press Leggo di questa mattina vi si legge: “Sesso e maltempo? Quando piove gli italiani lo fanno più spesso”. Oh, ecco il titolo giusto per cominciare bene la settimana. A darne notizia è il sito Lussemburghese per appuntamenti C-Date. Che poi uno potrebbe dire, va be’, che novità: è ovvio che con il maltempo si passi più tempo a letto... è scontato direi. Così come un tempo era più naturale avere tanti figli dato che non c’era la televisione in casa. La sagra delle banalità. In realtà, andando a scorrere i risultati della ricerca, non si trova alcun riferimento al tempo meteorologico. Com’era ovvio. L’accostamento meteo-sesso serviva semplicemente per lanciare un titolo accattivante. Ciò che dice lo studio, invece è che in Italia le persone che affermano di far sesso tutti i giorni sono il 13 per cento (stessa percentuale dei polacchi), contro l’11 per cento della Francia e della Spagna, l’8 per cento della Svezia, il 7 per cento della Danimarca e appena il 5 per cento della Germania. Pare tra l’altro che negli ultimi anni la maggior parte delle nuove relazioni sia sbocciate navigando su Internet (53 per cento dei casi) e frequentando il luogo di lavoro (25 per cento). Solo nel 18 per cento dei casi invece gli incontri si sono realizzati in luoghi di socializzazione. Per la serie, come cambia la società.
Restando sul tema poi c’è un’altra ricerca decisamente interessante: il 30 per cento delle coppie sposate da almeno 15 anni non ha attività sessuale. Nelle coppie sposate da oltre trent’anni la percentuale sale al 50 per cento. E sette volte su dieci è l’uomo a tirarsi indietro dai propri doveri coniugali. Questo è ciò che emerge dalle centinaia di migliaia di procedure di separazione e divorzio celebrate nel nostro Paese nell’ultimo decennio. Motivo? Sei volte su dieci si tratta di noiosissima routine; nel 20 per cento dei casi, invece, la causa sarebbe riconducibile a problematiche patologiche. Pare inoltre che l’80 per cento delle infedeltà coniugali dipende proprio da questo problema. Infedeltà, tradimento, inganno? Brutte faccende. Se non c’è più motivo di stare insieme, meglio lasciarsi, piuttosto che trascinare avanti una relazione ingestibile. Già, ma come capire se il partner ci tradisce? Ci vorrebbe qualche bel consiglio pronto uso. Die Bild ha recentemente stilato un meraviglioso elenco di indizi (originalissimi, tra l’altro…) che possono aiutarci a scovare il tradimento. Se per esempio una donna ha un altro uomo per la testa, ecco a cosa dobbiamo fare attenzione: 1) Un improvviso interesse per le sperimentazioni sessuali; 2) Un improvviso e radicale cambiamento di look; 3) Uscite più frequenti e nuove amicizie (con relativa esclusione del partner: “Ma cosa vuoi venire anche tu, cosa? Stai lì bel tranquillo e goditi l’ultima puntata de Il medico in famiglia); 3) Irritabilità nel rispondere a semplici domande; 4) Se racconta una serata trascorsa con amici o colleghi in ogni singolo dettaglio, probabilmente potrebbe essere studiato per non destare sospetti; 5) Telefoni che squillano all’improvviso di notte seguiti da corse in bagno per non farsi sentire; 6) E per finire, trattandosi di donne, altro campanello d’allarme è il taglio di capelli improvviso e inaspettato. Ecco, se non vi è mai punta vaghezza di sapere come mai la vostra compagna ha questi strani atteggiamenti, ora sapete che può trattarsi di tradimento. Un po’ come Fantozzi quando si trova alle prese con la storia d’amore tra la moglie Pina e Cecco, il nipote del fornaio (quello col culo molto basso e l’alito tipo fogne di Calcutta nella stagione monzonica). Colto ciòè da un leggerissimo sospetto solo dopo aver scovato quintali di pane stipati in ogni singolo cassetto, in ogni armadio, credenza, ripostiglio, frigorifero etc…! Ad ogni modo, se anche a voi dovesse capitare qualcosa del genere, nessun problema: l’importante è poter comunque contare su “calze, mutande, vestagliona di flanella, tavolinetto di fronte al televisore, frittatona di cipolle (per la quale andava pazzo), familiare di Peroni gelata, tifo indiavolato e rutto libero”.

venerdì 24 maggio 2013

Specchio delle mie brame…

Il mese scorso Dove, azienda leader nel settore dei prodotti per l’igiene personale, ha lanciato una campagna pubblicitaria dal titolo “Dove, Real Beauty Sketches” (immagini di vera bellezza). Il video è senza ombra di dubbio un capolavoro. E lo dico senza ironia. Sulle sonorità delicate di un pianoforte di sottofondo, entrano in scena alcune donne alle quali viene chiesto di descrivere loro stesse e i loro volti ad una persona che esse non possono vedere per via di una tenda. La persona è un artista forense (uno di quei professionisti che tratteggiano identikit nelle aule di giustizia) ed è lì per disegnare i ritratti delle donne in base alle loro descrizioni. Ad ogni donna viene poi chiesto di socializzare con uno sconosciuto, il quale a sua volta dovrà descrive in seguito la donna per l’artista forense. L’artista disegna dunque due distinti ritratti sulla base delle diverse descrizioni. Alla fine vengono mostrati entrambi i disegni alle donne. Ed è qui che irrompe prepotente e assolutamente inaspettata la sorpresa: le donne osservando quei ritratti si rendono conto che quelli effettuati sulla base delle descrizioni degli sconosciuti appaiono molto più belli di quelli fatti in base alle descrizioni fornite da loro stesse. Alcune di esse restano attonite, con un sorriso a mezz’aria, altre sono sorprese e incredule, con un’espressione a tratti beffarda, qualcun’altra, dopo un breve momento di indecisione, si lascia travolgere dalla commozione. E allo spettatore non resta che commuoversi di rimando sull’ultima scena che mostra una giovane donna sorridente, che abbraccia l’innamorato. Il video si chiude con la scritta: “You are more beautiful than you think”. E così, sull’onda lunga del non detto, si fanno largo nella mente di ognuno echi di buoni sentimenti e profondità d’abisso esistenziale, ed in un attimo ci si rende conto di quanto tutto ciò strida con questa nostra spietata cultura dell’apparire che ci rende, per definizione, sempre più infelici e insoddisfatti di noi stessi. L’effetto è quello di un balsamo che scende nel profondo a lenire i dolori della vita e dunque ci si congeda sereni da questo video, riappacificati poeticamente con noi stessi e con il mondo. Un po’ come quando si ascoltano le storie del buon Gramellini da Fabio Fazio.
Una dolce fiaba a lieto fine si potrebbe dire, dunque. Eppure un dubbio rimane: sarà poi vero tutto ciò? E cioè che l’immagine che abbiamo di noi stessi è peggiore di quella che appare agli occhi degli altri? In fondo si tratta pur sempre di una pubblicità che ha come scopo finale quello di farci acquistare saponi e creme di bellezza. Ebbene la dolce incertezza non è durata che poco più di un mese. A sconfessare questa meravigliosa teoria ecco giungere dagli Stati Uniti un’apposita ricerca. Per dimostrare quanto questa reclame sia poco aderente alla realtà, Nicholas Epley dell’Università di Chicago e Erin Whitchurch della University of Virginia hanno preso le immagini di un campione di partecipanti all’esperimento e, utilizzando un software, hanno elaborato le stesse facendone due versioni: una più attraente e l’altra meno attraente. Ai partecipanti poi sono state mostrate le tre immagini (le due modificate, più quella originale) ed è stato chiesto loro di identificare quella non modificata. La maggior parte di essi ha scelto quella modificata in meglio pensando erroneamente che si trattasse di quella originale. Stessa procedura è stata effettuata con le immagini di un estraneo: in questo caso, al contrario, l’identificazione dell’originale è stata assai precisa. Basandosi su tali risultati i ricercatori hanno dedotto che noi tendiamo a pensare al nostro aspetto in termini assai più lusinghieri di quanto in realtà non sia. I ricercatori definiscono tale fenomeno con l’espressione “self-enhancement” (auto-valorizzazione). Questo meccanismo, tra l’altro, pare trovare riscontro non solo nel giudizio estetico che si ha di se stessi, ma anche in altri campi del nostro agire. Ecco perché, ogni qual volta ci troviamo di fronte ad una comparazione con altri soggetti, il nostro metro di giudizio sembra essere assai indulgente da una parte (la nostra) e spietatamente rigoroso dall’altra (il resto del mondo). Il 93 per cento degli automobilisti, ad esempio, ritiene di guidare meglio della media; così come il 94 per cento dei docenti pensano di insegnare meglio di altri. Stesso discorso vale per la salute: “A me non capiterà di prendere l’influenza”. Questo atteggiamento tuttavia - sostengono i ricercatori - se da una parte mette in scena un auto-inganno inconscio che deforma la realtà, dall’altro potrebbe riscuotere un certo qual vantaggio nelle relazioni sociali: le persone che si auto-valorizzano e che credono veramente di possedere caratteristiche desiderabili, possono contare su una spinta in più e su una maggiore fiducia in se stesse. E come si sa, fiducia in se stessi comporta forza, decisione, sicurezza, autorevolezza, tutte caratteristiche determinanti ai fini della scelta di un leader o di un partner. Qualcuno potrebbe a questo punto dire: “Ancora più brutto di quello che penso????? Praticamente un cesso”. Si, in effetti questa potrebbe essere la tentazione. Certo sapere di essere un po’ più brutti di quanto non crediamo (o anche di essere un po’ più gretti, più taccagni, più imbranati al volante), non fa piacere. Questo è ovvio. Consola il fatto di sapere che se ciò vale per noi, vale per tutti: mal comune, mezzo gaudio. Dice: “Ma l’illusione…, almeno quella non potevano lasciarcela?”. No, credetemi: non è il caso. E comunque l’importante, come detto, è sentirsi belli: dentro e fuori. Come quella tipa che fa tanta “plin - plin”. Qualcuno, a parte voi, ci crederà…!

Fonte: http://www.youtube.com/watch?client=mv-google&hl=it&gl=IT&v=pOq71eKI5Mg&nomobile=1

http://www.scientificamerican.com/article.cfm?id=you-are-less-beautiful-than-you-think&page=2

giovedì 23 maggio 2013

Vuoi una risposta? Sii sgarbato e provocatorio

Se c’è una cosa che irrita sopra ogni misura è non ricevere risposta ad una domanda. In Puglia c’è un’espressione che racchiude splendidamente questo concetto: “Meglio essere cornuto che male sentuto”. Che detto a quelle latitudini è proprio il colmo dei colmi…! Purtroppo capita, capita sempre più spesso di parlare al vento. Soprattutto negli ultimi tempi. Non saprei dire qual è il motivo di questo comportamento: forse è colpa del chiasso e della frenesia che ci girano intorno e che non ci lasciano respirare, o forse si tratta solo di disinteresse verso il prossimo. Che è ancora peggio. È pur vero che attrarre l’attenzione di qualcuno è un’arte sottile, e la scelta del momento idoneo per rivolgere parola è un punto chiave della comunicazione, ma la buona educazione dovrebbe essere già di per se stessa sufficiente per una sana e rispettosa socialità. E comunque una risposta cortese (anche se breve, concisa e compendiosa) non è poi tutta questa gran fatica. E la faccenda, già fastidiosa in una conversazione vis a vis, diventa intollerabile se trasposta in ambito di comunicazioni on-line. Certo le e-mail di lavoro sono spesso delle gran seccature, su questo non ci piove. Per non parlare di quelle spam…! Ma tutto il resto? Alle volte, per esempio, mi capita di mandare delle e-mail ad amici e conoscenti vari, proposte di viaggi, svago, tempo da trascorrere insieme, tutte comunicazioni che sulla carta appaiono appetitose, evocative (almeno per me), eppure è raro che qualcuno risponda. Perché? Parlandone con la mia amica Alessandra ho provato a ipotizzare che il motivo risieda nel fatto che molti non hanno tempo di rispondere. Non hanno tempo di rispondere??? Possibile che nell’arco di una giornata non si trovino due minuti per scrivere mezza riga di risposta? A quel punto, di fronte a questa obiezione assai stringente, siamo arrivati alla conclusione che si tratta semplicemente di disinteresse e dunque sostanzialmente, spiace dirlo, di mancanza di rispetto. So di esprimere un concetto forte, ma in fondo è ciò che penso. Alle volte poi capita di ricevere risposte di tenore tutt’altro che cortesi, tipo: “Toglietemi immediatamente dalla mailing list, grazie”. E sono quelle che più detesto, perché oltre a manifestare un certo qual rancore (che peraltro potrebbe essere espresso semplicemente al mittente e non a tutto il gruppo), schiantano di colpo qualsiasi eventuale volontà di apertura al dialogo da parte degli altri destinatari. Se dovessi rispondere alla stessa maniera a tutte le mail che ricevo quotidianamente, non farei altro per tutto il resto della giornata. Meglio cestinare subito, e non perdere altro tempo. Ma tornando al punto cruciale, vale a dire perché non si risponde ad una e-mail, ecco giungere puntuale uno studio statunitense. Il tre maggio scorso, il Daily Mail ha pubblicato un articolo dal titolo “Want a reply to your email? Try being downbeat and pessimistic”, ovvero se desideri una risposta alla tua e-mail, infarciscila di un po’ di sana negatività. I ricercatori della società informatica Contactually hanno preso in esame qualcosa come cento milioni di conversazioni, e dai risultati è emerso che cortesia e gentilezza non pagano. Nella sostanza sembra che le e-mail dense di buone maniere, educazione e correttezza, soprattutto se intrise di espressioni come “care” o “amazing”, abbiano minor possibilità di ricevere risposte rispetto ad altre di taglio più duro, schietto e definitivo. Sembrerebbe un controsenso, eppure è ciò che avviene di norma. Pare inoltre che coloro che solitamente si esprimono via mail con toni cupi e negativi siano più portati a rispondere entro le 24 ore (64 per cento), rispetto a coloro che sprizzano positività e ottimismo (47 per cento). Soprattutto se ricevono una e-mail non troppo gentile. Il che è abbastanza logico e consequenziale direi: è più probabile che ad una mia comunicazione non particolarmente cortese risponda subito una persona piena di astio e rancore, piuttosto che un pacioccone a cui si può dire di tutto. Secondo Jeff Carbonella, Chief Technical Officer di Contactually, la ragione di tale fenomeno sarebbe riconducibile al fatto che le persone caratterizzate da negatività sono in generale più attive sul web. Vale a dire che è più probabile interagire sulla rete con soggetti propensi a scendere sul campo di battaglia (in una sorta di combattimento virtuale, fatto di provocazione e aggressività) piuttosto che con persone allegre e soddisfatte. Ecco perché, ad esempio, sui blog d’opinione non si leggono altro che commenti al vetriolo. A suffragare tale conclusione, il quotidiano inglese richiama un’altra recente ricerca, condotta dall’Università di Glasgow: “People who reply quickly to e-mails may be stressed, or have low self-esteem”, ovvero coloro che rispondono velocemente alle e-mail sarebbero quelli più stressati o con un basso livello di autostima. Sono andato a curiosare nei commenti all’articolo e non ho trovato che conferme a quanto sopra esposto: “Absolute rubbish, nobody reads emails anyway”; “Do I have to wait or shall I reply with a comment immediately on this article?”; “Negative people would rather moan and answer negative emails and dwell in the negative than the more productive positive people who get on with it and work!”. Come dire, rancore a profusione…!
Ad ogni modo voglio provarci anch’io: prossimamente invierò alcune e-mail infarcite qua e là di aggraziati improperi, o anche solo di espressioni spietate tipo “Allora, branco di farabutti, vi degnate di rispondere, oppure no?”; o anche “Se proprio non vi riesce di schiacciare qualche tasto sulla tastiera, provate con i piccioni viaggiatori, o anche con i segnali di fumo”. Ecco, qualcosa del genere. Voglio vedere se funziona veramente. Niente di personale s’intende, che i destinatari non se abbiano a male: è solo ed esclusivamente “nell’interesse della scienza”, come diceva Freud.
A risentirci per i risultati. E vedete di rispondere…!

Fonte: http://www.dailymail.co.uk/sciencetech/article-2318887/Want-guarantee-reply-email-Make-sure-negative.html

mercoledì 22 maggio 2013

Manuale d’amore (ministeriale)

Ha destato scalpore l’articolo apparso ieri sul quotidiano turco Hurriyet Daily News: “Turkish ministry’s booklet promotes foreplay” (opuscolo informativo del Ministero turco promuove i preliminari). Si, avete capito bene, si tratta proprio di un’iniziativa del Governo turco, quello musulmano di Erdogan. Certo il giornalista ha sparato un bel titolo accattivante, non c’è che dire, ma nella sostanza il concetto è proprio questo: incentivare la sessualità di coppia. Il Ministero per la famiglia e le politiche sociali, guidato da Fatma Şahin, nei giorni scorsi ha stampato e distribuito alla popolazione una sorta di guida ai benefici del sesso, un piccolo manuale a metà tra l’erotico e il salutistico, che invita le coppie (regolarmente sposate ed eterosessuali, ovvio) a praticare più sesso. Motivo? È presto detto: il sesso contribuisce al benessere fisico e mentale, aumenta l’efficienza del sistema immunitario, rallenta l’invecchiamento, garantisce ossa più sane, meno mal di testa e, per le donne, una consistente diminuzione dei dolori mestruali. “Marriage and Health” (matrimonio e salute) affronta diversi aspetti della vita sessuale e tra le sue pagine vi si trovano sezioni dedicate alla definizione e descrizione dei preliminari amorosi, alle performance, al piacere e ai possibili problemi per la salute. Tra le altre avvertenze/suggerimenti per una vita sessuale più sana si sottolinea l’importanza dei preliminari e dell’ascolto reciproco. Vi sono poi capitoli informativi sul reciproco piacere, sulla necessità della costanza e della fantasia per tenere acceso il desiderio, sul rispetto del partner (niente insulti e offese). La guida ministeriale sostiene che la monotonia e la routine fanno male alla coppia e che dunque meglio sarebbe dimenticare il passato e puntare su nuove esperienze. Caspita, questo sì che è parlare giusto…! E ultimo, ma non meno importante, un richiamo all’igiene: lavarsi e profumarsi è essenziale in un rapporto di coppia (“onesto e maturo”, aggiungerebbe Maurizio Milani), ancor di più se si tratta di faccende da esplicare sotto le lenzuola.
Certo non ce lo saremmo aspettato tutto questo progressismo nei costumi e nell’educazione sessuale dalla Turchia. Eppure è risaputo che tra gli Stati mussulmani, questo è uno dei più moderati. In realtà questa iniziativa, lungi dall’essere un pamphlet a favore del sesso libero, ha nella sostanza lo scopo di promuovere il rispetto reciproco nella coppia e di rinsaldarne i rapporti, scongiurando dunque la piaga sempre più crescente della violenza e delle separazioni. Se ci è concesso aggiungere qualche piccolo suggerimento agli amici turchi (ma non solo a loro, naturalmente), ecco qui di seguito alcune frasi da evitare accuratamente a letto, onde scongiurare l’improvviso calo della passione (copyright Raffaele Morelli, direttore di Riza Psicosomatica): “Dimmi cosa senti…!”; “Allora, che te ne pare?”; “Era così anche con il tuo ex” (questa è veramente agghiacciante…); “Hai goduto?”; “Ti è piaciuto”; “…già finito?” (ovvero come distruggere un uomo…); “Metti giù quel giornale, parliamo…” (a cui si risponde sempre: “Un attimo, finisco di leggere questo articolo: forse Mazzarri viene ad allenare l’Inter…, ti rendi conto…!”). Quindi mi raccomando, attenzione a ciò che si dice. Ma attenzione anche a come lo si fa, e in che contesto. Prima di tutto occorre sapere che nel rapporto erotico non devono esserci regole: meglio lasciarsi guidare dall’istinto e aprire la porta alla sorpresa; il buio o la semioscurità sono da preferire alla luce (ancor meno se sul comodino): libero sfogo ai sensi; mai fare raffronti col passato, ma concentrarsi sul presente; non temere la lontananza: alimenta il rapporto e il desiderio; spegnere il telefono cellulare (indispensabile…); vivere esperienze insieme rafforza l’intesa di coppia e dunque il feeling amoroso; far partecipe il partner dei propri sogni erotici: stimola la fantasia; evitare di parlare con amici e conoscenti vari della propria sfera intima: il consiglio sbagliato (spesso volutamente sbagliato, direi…) è dietro l’angolo e rischierebbe di rovinare il rapporto di coppia.
Tenete presente inoltre che anche il colore che scegliete per la camera da letto ha la sua importanza: secondo una recente ricerca svolta dalla Travelodge, una catena alberghiera britannica, coloro che dipingono le pareti di color caramello fanno l’amore mediamente tre volte a settimana; chi opta per il rosso, una sola volta a settimana. Pare poi che per dormire tranquillamente ci voglia il blu, mentre il viola porta insonnia e il grigio la depressione. Ma questa è un’altra storia...!
I benefici legati ad una assidua e regolare attività sessuale sono ormai ampiamente conclamati: secondo uno studio dell’Università di Nottingham (GB) fare sesso regolarmente, anche dopo i 50 anni, riduce per l’uomo il rischio di ammalarsi di cancro alla prostata; un’altra ricerca finlandese ha dimostrato come il sesso contrasti la disfunzione erettile, riducendo il rischio di ammalarsi di ben quattro volte per chi fa l’amore tre o più volte alla settimana. Ci sono inoltre vantaggi per il sistema cardiovascolare (dimezzamento del rischio di ictus o infarto), il livello ormonale tende a restare stabile anche dopo la menopausa e l’umore ne risente in maniera sostanziale. Già, ma di fronte ad un calo improvviso del desiderio maschile che si può fare? C’è un rimedio pronto uso (che non sia il solito peperoncino calabrese…, o il complicato Viagra) per evitare situazioni imbarazzanti e ansia da prestazione? Sì, ovviamente. Direttamente dalla California ecco l’ultimo ritrovato miracoloso per amatori in disarmo: uno spray nasale a base di ossitocina. Rapido, inodore, discreto, efficace. A darne notizia è la rivista scientifica Journal of Sexual Medicine. A dar retta ai ricercatori pare che bastino due inalazioni al giorno (bed-time) per ottenere uno straordinario progresso nell’aumento della libido. Pare che faccia crescere perfino i peli sui dorsi delle mani. Stile licantropo.
Che meraviglia. A questo punto non ci resta che augurarvi lunghe notti d’amore e felicità. Namasté.

Fonte: http://www.hurriyetdailynews.com/turkish-ministrys-booklet-promotes-foreplay.aspx?pageID=238&nID=47301&NewsCatID=373

http://www.ansa.it/saluteebenessere/notizie/rubriche/stilidivita/2013/05/17/notte-sonno-tranquillo-stanza-blu-al-viola_8723605.html

martedì 21 maggio 2013

I dieci tipi umani che non vorresti incontrare al volante

Stamattina ho accompagnato in automobile i miei alla stazione di Lodi. Il fratello di mia madre è stato operato ad una spalla e dunque la visita si è resa necessaria. Anzi, obbligatoria. Durante il tragitto un traffico indiavolato, causato oltretutto dai lavori per il rifacimento del manto stradale. Rimandarli ad agosto, no vero? Associati ai rallentamenti, naturalmente, strombazzate di clacson. E pensare che molti anni fa un alto dirigente della Fiat ebbe il coraggio di dire: “Ma sì, infondo la coda in automobile è un modo come un altro di trascorrere un po’ di tempo con la propria famiglia”. A cui seguì la risposta di Grillo, quando ancora era un comico: “Ma c’è gente che la stermina la famiglia, quand’è in coda…”. E così, tra un discorso e l’altro l’attenzione si è soffermata su quei clacson e la memoria è andata ad un paio di giorni prima, quando il figlio di mio fratello, due anni a febbraio, giocando nell’abitacolo della macchina del nonno (ferma e a motore spento), inavvertitamente ha suonato il clacson. Spaventandosi e spaventando i presenti. E la faccenda, a sua volta, come una corda che fa riemergere un secchio dal fondo del pozzo, ha richiamato un altro episodio. Questa volta di molti anni fa. Mio padre quando prese la patente aveva ormai superato la trentina e, come si sa, più sei in là con l’età e più riesce difficile imparare qualcosa. E infatti, uno dei primi ricordi della mia vita è legato ad una Fiat 500 rossa, un’auto che si muoveva sobbalzando, che proseguiva a strappi e a scatti violenti. Effetto della non perfetta padronanza del concetto frizione-acceleratore. Ebbene un giorno di molti anni dopo mio padre se ne andava tranquillamente per la sua strada a bordo dell’auto di mio fratello (la sua era a fare il tagliando). Giungendo in prossimità di uno Stop si fermò correttamente e cominciò ad osservare a destra e a manca che non vi fosse nessuno in arrivo. Ma facendo ciò, inavvertitamente, appoggiò i gomiti sul voltante, provocando una clacsonata. La cosa lo irritò non poco e cominciò a guardare nello specchietto retrovisore: in coda c’era una macchina guidata da un giovane. Si affacciò nuovamente ed ecco un’altra clacsonata. A quel punto si voltò di scatto ed apostrofò di mala grazia il poveretto alle sue spalle: “Che c…o vai trovando? Non lo vedi lo Stop?”. Ma questi, incredulo, faceva degli strani movimenti con le mani, come a dire che lui non c’entrava nulla con quelle emittenze. E solo allora, nella foga dei movimenti dettati dall’astio e dal rancore, che mio padre si avvide che quel fottuto clacson, quello dell’auto del figlio, aveva i sensori anche ai lati delle razze del volante, e non solo al centro come del resto tutte quelle che aveva guidato fino ad allora. E che dunque era stato egli stesso a clacsonare. Ingranò la marcia e sobbalzando, si dileguò.
Certo quando si viaggia sulle strade ne capitano di tutti i colori, ma un episodio simile, a distanza di tanti anni, ancora fa sorridere. Anzi ridere proprio. Perfino mio padre che pure ne era il protagonista. Qualche mese fa l’azienda produttrice del navigatore Tomtom, ha commissionato un sondaggio veramente curioso: “I dieci tipi umani che non vorresti incontrare al volante”. E in effetti, nell’epoca feroce in cui viviamo, le possibilità di incrociare autisti che fanno perdere la pazienza è altissima, soprattutto quando hai fretta e sembra che proprio in quel momento tutti sentano la necessità irresistibile di mettersi al volante. È la triste sorte dell’uomo automunito, uno dei soggetti più stressati della storia dell’Umanità. Non per nulla Gioele Dix diceva: “Io sono un autista, ed essendo un autista, sono sempre, costantemente incazzato come una bestia…”. Dal sondaggio è emersa una lista di dieci “tipi umani” che fa paura solo a leggerla. Partendo dal fondo troviamo “il (o peggio ancora la) manager”, ovvero l’esemplare che non perde tempo neanche durante la guida: lettura di quotidiani, navigazione sull’I-Pad, scrittura veloce di sms, conversazioni telefoniche. Se vi capita di trovarvi in coda alle spalle di uno di questi soggetti, mettetevi l’animo in pace e rassegnatevi: arrabbiarsi non serve. Un gradino sopra troviamo il cosiddetto “avvoltoio dei parcheggi”. In questo caso si tratta di un vero e proprio caso umano, un malato di mente cui il nostro attuale modello di sviluppo ha sfigurato l’intelletto. L’avvoltoio è riconoscibilissimo dall’andatura estremamente rallentata e dai continui movimenti a scatto del capo, in una direzione e nell’altra. Tipo galletto amburghese Vallespluga. Una volta ero a Roma in macchina con uno di questi esemplari: cercavamo posto nei pressi della sua abitazione. Erano le tre di notte e non so quanti giri concentrici, a raggi sempre più ampi, fu necessario fare pur di mollare in un qualche dove la fottuta carretta. E il bello era che per lui la cosa era del tutto normale, ordinaria amministrazione: svuotare ogni notte il serbatoio in cerca di un pertugio era diventata cosa abituale. Questi sì che sono drammi. Ma tiriamo innanzi: all’ottavo posto troviamo “l’imbranato”. Questo soggetto è davvero una comparsa da film comico: fa spegnere il motore in partenza, traccheggia indeciso nel mezzo della carreggiata, imbocca le rotatorie in senso opposto, invece di segnalare la svolta aziona i tergicristalli, si volta per far retromarcia, ma tampona il tizio che gli sta davanti. Se non fossimo alle prese con una tragedia ci sarebbe davvero da ridere. E proseguiamo con il settimo posto: “il neopatentato”, ovvero colui che si muove per le vie cittadine con la stessa prudenza di un agente del Mossad nel suk di Damasco. Impedito tra l’altro da quell’enorme “P” di principiante sul lunotto posteriore che gli impedisce quasi completamente la visuale. Ma peggio di questi c’è “l’auto della scuola guida”. In questi casi si è disposti a concedere trenta secondi, non di più, di indulgenza. Dopo di che scatta la furia ceca che alberga in ogni autista: “Eh levati dai coglioni… incapace…”. A metà classifica troviamo “la donna che si trucca in auto”. Una sciagura che non necessita di commenti. Ad un soffio dal podio ecco “l’indeciso”, colui che trova assai opportuno riflettere sulle diverse scelte che gli offre la vita in prossimità di incroci, svolte, rotonde, immissioni autostradali. Il suo pezzo forte tuttavia resta l’uso delle frecce: al culmine dell’indecisione costui è capace di cambiare idea, e dunque segnalazione, anche quattro volte in un secondo e mezzo. Sulla piazza d’onore poi troviamo “il camion della nettezza urbana”. Trattasi in questo caso di un vero e proprio tappo a tenuta stagna, un ostacolo insormontabile che scandisce la sua lenta marcia con soste continue e rapidissime in prossimità di cassonetti e montarozzi di monnezza. Qui la rassegnazione si mischia alle aulenti fragranze provenienti dal triste carico, e lo sconforto può raggiungere vette inviolate. Spesso la disperazione è tale che gli autisti sono disposti a tentare il tutto per tutto, anche al costo di rischiare graffi e ammaccature oscene sulla propria carrozzeria nel tentativo di superare l’ostacolo. Ma peggio della nettezza urbana c’è “la mamma con il suv”, colei che va a prelevare la figlia a scuola con un arnese da due tonnellate e mezzo. Anche se la scuola dista duecento metri da casa. Costei si muove con grande sprezzo del pericolo in mezzo ai pargoli, e in caso di pioggia si posiziona davanti all’ingresso del fabbricato, impedendo quasi fisicamente il transito ai pedoni. E a nulla valgono le proteste delle altre mamme o gli ammonimenti dei vigili. E per finire, in vetta alla classifica di coloro che non vorreste mai incontrare al volante, ecco il principe delle tenebre degli automobilisti, il più temuto, il più angosciante, il più spaventoso di tutti gli incubi: “l’anziano con il cappello”. Ultimamente se ne erano quasi perse le tracce, tanto che qualcuno aveva parlato di estinzione improvvisa della specie. Ad una più attenta analisi viceversa, è emerso che questo soggetto è vivo e vegeto ed imperversa più che mai per le strade delle nostre città. Eccone il profilo tratteggiato da Paolo Villaggio in un suo recente libro: “Il 90 per cento degli incidenti stradali non è dovuto a stramaledetti giovani ubriachi, pieni di ecstasy o di cocaina che tornano all’alba a casa dopo la discoteca, ma a stramaledetti vecchi che verso le tre del pomeriggio escono dai loro garage e fanno una prudentissima sortita in centro. Sono irritati, quasi ciechi, sordi e con riflessi da galline livornesi. Morale: fanno delle stragi”.
Ecco, se vi capita di incrociare qualcuno di costoro, cambiate strada: vi conviene.

Fonte: http://www.oggi.it/attualita/personaggi/2012/04/05/i-dieci-tipi-umani-che-non-corresti-incontrare-al-volante-e-anche-i-vip/

lunedì 20 maggio 2013

Le peggiori scuse per non andare a lavoro

Come abbiamo già avuto modo di dire in altri, precedenti post, il lunedì mattina non ci piace proprio per niente. Le ragioni? No, inutile star lì a perder tempo con una lista infinita di buoni motivi che indurrebbero chiunque a spegnere la sveglia (anzi a lanciarla contro il muro) e rigirarsi sul fianco. Meglio non pensarci. Anzi, meglio ancora dar retta agli esperti e pensare in positivo: “Chissà qual lieta novità mi attende una volta giunto in ufficio…! Forse è perfino arrivata la pratica del perito Armaroli…”; “Perbacco, ho proprio voglia di rivedere i miei cari colleghi dopo un lungo, noioso fine settimana, passato lontano da loro”; “Che meraviglia, finalmente potrò viaggiare ancora una volta sul mio treno preferito…, meglio ancora se non c’è posto per sedersi, così potrò apprezzare di più il panorama che scorre fuori dal finestrino…”. E poi, come non lanciare un pensiero ecumenico alla collettività: “Il mio lavoro…, ah il mio lavoro: se non ci fossi io a fare ciò che faccio…, sai come ne soffrirebbe l’umanità…!”.
Eppure, nonostante tutto quest’ottimismo, resta pur sempre qualcuno preda del malumore quando c’è da tornare a lavoro. Ma anche a scuola. Quando andavo alle medie e poi alle superiori (delle elementari ormai ho perduto quasi del tutto i ricordi, purtroppo) era sempre una tragedia: svogliatezza, stanchezza, depressione, giramenti di testa. Nulla tuttavia se paragonato a ciò che accadeva a mio fratello: dolori addominali tipo parto, nausea, gastrite. Almeno questo era ciò che dichiarava lui. Non so se si trattasse di patologie reali, psicosomatiche o di finzione bell’e buona. Fatto sta che quando i miei astutamente dicevano “poverino…, sta veramente male: andiamo di corsa all’ospedale”, egli si riaveva all’improvviso, sanato d’incanto da quelle parole miracolose. Una volta tuttavia, ricordo, non desistette e pretese che il medico curante lo visitasse: un compagno di classe gli aveva insegnato un metodo infallibile per rimediare una bella settimana di riposo. Il segreto stava nel fingere una bella bronchire. Quando il dottore l’auscultò, egli cominciò a rantolare in maniera assai mirabile. Diagnosi confermata e pasticche di antibiotico per dieci giorni. Tutte scaricate nel cesso, naturalmente. Un paio di giorni fa sul Telegraph è stata pubblicata una curiosa ricerca condotta dalla Benenden Health, società britannica di Mutuo Soccorso: “The worst excuses for missing work” (le scuse peggiori per non andare a lavoro). Il sondaggio, che ha coinvolto oltre mille datori di lavoro e dipendenti, ha svelato un universo di personaggi tragicomici al cui confronto il Ragionier Fantozzi e il Geometra Filini appaiono come due stakanovisti serissimi e indefessi. Nella lista ci sono alcuni classici intramontabili come: “sono stato punto da un insetto”; “ho il raffreddore”; “ho passato una notte in bianco”. E fin qui tutto normale, direi. Non manca ovviamente tutto il campionario sulle morti improvvise e inaspettate di parenti e affini vari: di fronte all’angosciante prospettiva di trascorrere una spaventevole giornata lavorativa in ufficio, i lavoratori non si fanno alcuno scrupolo a far morire nonni, suocere, zii, e familiari vari, fino al settimo grado. Tutto per finta, grazie a Dio: a quanto ci consta non si è ancora arrivati al delitto perfetto pur di sfangarla a lavoro. In un caso addirittura pare che il lavoratore abbia denunciato la scomparsa della propria madre. E con humour tutto inglese si aggiunge tra parentesi: “This was the second time the person used this excuse”. Se saliamo però di qualche gradino sulla scala dell’assurdo, eccoci proiettati all’improvviso nel regno del fantastico: “una lattina di fagioli mi è caduta sull’alluce”; “nuotavo troppo velocemente e ho sbattuto la testa sul bordo della piscina”; “il freno a mano della mia macchina si è rotto e la vettura si è schiantata contro un lampione”. Tutti accidenti abbastanza usuali, verrebbe da dire: a chi non è mai capitato di scendere in strada e vedere la propria auto accartocciata contro un palo in fondo alla discesa? Sono cose che capitano…! E come dimenticare poi gli animali da compagnia? “Il mio cane ha preso un grosso spavento e non me la sento di lasciarlo solo”. Giustamente: tutti pronti ad indignarci per i maltrattamenti agli animali, e quando poi un’anima candida dimostra affetto verso il miglior amico dell’uomo, ecco che si fa della facile ironia. Ma non ci sono solo i cani, naturalmente: “il mio criceto è morto”; “il mio pesciolino è malato”, per non parlare dei guai di gatti, rettili e pennuti vari: se le cocorite improvvisamente smettono di pettegolare c’è da prendere paura…! Ci sono poi tutti gli incidenti domestici: “sono rimasto chiuso in casa perché s’è rotta la serratura della porta”; “mi sono bruciato la mano col tostapane”; “il cane ha mangiato le mie scarpe”; “ho ingoiato acquaragia”; “ho un dito intrappolato nel rubinetto del bagno”. Dio mio, la vita è tutto un rischio…! E per strada? “Sono scivolato su di una moneta”; “mi si sono rotti i pantaloni mentre venivo a lavoro”. Certo entrare in ufficio con un bello squarcio sulle natiche non è affatto simpatico. E per le donne poi? Mai pensare di cambiare colore ai capelli nell’imminenza del ritorno a lavoro: “la parrucchiera mi ha fatto una tintura disastrosa”. In questa variegata classificazione non potevano mancare poi i lavoratori schizofrenici: “ho le allucinazioni (a sfondo mistico)”; e gli alcolisti anonimi: “ho bevuto troppo e mi sono addormentato sul pianerottolo di qualcuno - non so dove mi trovo”. E per chiudere in bellezza ecco la categoria più originale, quella degli amatori sfrenati e senza vergogna: “mi sono fatto male facendo sesso”; “la mia nuova ragazza mi ha morso in un posto delicato”. Che dire, di fronte a tanto acume intellettuale, si resta senza parole. Eppure, stando ai dati dell’inchiesta, è risultato che ben il 60 per cento dei manager aziendali non credono affatto ai loro sfortunati dipendenti. Soprattutto quando le scuse sembrano piuttosto deboli e nel cielo splende un magnifico sole. Ma tu pensa…! E per suffragare questa loro intuizione, non si esimono dal ricercare sui social network le prove dell’inganno. Non sia mai che qualche allocco, oltre ad aver marcato visita con la frode, in quella giornata non abbia postato su Facebook anche qualche bella foto scattata in località balneare. Dall’indagine emerge che più della metà dei dipendenti hanno timore di chiamare il capo per mettersi in malattia, e preferiscono mandare un’e-mail. A loro volta i capi, astuti come volpi, una volta ricevuta l’e-mail lacrimosa, telefonano immediatamente allo sfortunato dipendente e gli fanno il “terzo grado”. In media è risultato che i lavoratori inglesi hanno “bigiato” almeno quattro volte nella loro vita (che pivelli…!) e il 30 per cento di loro hanno preso giorni di malattia a causa dello stress. Un terzo di costoro inoltre dichiarano che l’azienda nella quale sono impiegati non è in grado di far fronte alla malattia dei propri dipendenti a causa della penuria di personale. E che spesso, la causa delle assenze è dovuta all’eccessivo carico di lavoro.
E per concludere un piccolo suggerimento: tra le scuse più credute pare che vi siano quelle legate a virus intestinali, vomito e dolori addominali. Viceversa se lamentate torcicollo, mal di schiera e dolori muscolari, dall’altra parte del telefono ci saranno solo smorfie di derisione e incredulità. Ecco, se proprio vi va di restarvene in panciolle per qualche giorno, abbondate con i particolari raccapriccianti, colori, odori, vischiosità delle secrezioni e quant’altro: vi crederanno sulla parola.

Fonte: http://www.telegraph.co.uk/health/healthnews/10062020/Worst-excuses-for-missing-work-revealed.html

venerdì 17 maggio 2013

Rimini ieri e oggi

“Io credo che se uno vive intensamente in pienezza spirituale ogni istante, gode per un anno e ogni anno diventa cinque anni più giovane!” (La dolce vita).

“È l’inverno che muore, sai, e arriva la primavera. Me la sento già addosso io, la primavera!”  (Amarcord).

“Lavoratori! Lavoratori della malta! Prrrr...!” (I vitelloni).

Il mio rapporto con Rimini risale alla notte dei tempi, vale a dire all’epoca degli esami di riparazione. Verso metà settembre, dopo aver disbrigato la pratica scolastica - di solito non ero mai solo in questo genere di gradevole intrattenimento - si partiva alla volta della riviera. Il primo anno eravamo da poco diventati maggiorenni e qualcuno aveva già conseguito la patente di guida. In virtù di ciò partimmo tutti in auto, una scassatissima Panda blu notte, messa generosamente a disposizione da Mattia. Dato che l’autista non gradiva l’autostrada e aveva intenzione di fermarsi nelle trattorie tipiche dei camionisti, facemmo un lunghissimo e noioso viaggio seguendo la via Emilia. Per percorrere i circa quattrocento chilometri che separano Milano da Rimini, ci impiegammo undici ore e mezza. Minuto più, minuto meno. Arrivati al campeggio buttammo giù la tenda canadese alla meno peggio e ci preparammo subito per la lunga notte. Dagli zaini saltarono fuori indumenti estremamente cool, camicie plissettate, inserti fosforescenti, scarpe a punta, bandane colorate, pantaloni jeans bianco latte. La moda dei primi anni novanta era veramente vomitevole. In auto si spandevano afrori pungenti e molto volgari: eravamo tutti profumati come bagasce turche. Un moderato ottimismo pervadeva tutti sulle avventure erotiche che sicuramente avremmo vissuto in quei giorni felici. L’unico che dimostrava un certo qual scetticismo era Rudy, un ragazzo la cui travolgente vitalità in alcuni frangenti ricordava vagamente la figura di Giacomo Leopardi. La frase che di solito ripeteva con rassegnazione era: «Ma cosa state lì a sbattervi… tanto lo sappiamo tutti che torneremo a casa senza aver conosciuto nemmeno la cameriera del locale…». Scegliemmo una delle tante discoteche della costa e ci lanciammo nelle danze sudando come batteristi rap. La prima sera, in effetti, come aveva profetizzato argutamente Rudy, non ci andò benissimo. Per tutto il giorno seguente ci costringemmo a digiuni sanguinosi con l’intento di risparmiare più soldi possibili per la discoteca. Non rinunciammo tuttavia agli eccessi: Ghigo aveva saputo da un lontano parente che i filamenti delle bucce di banane essiccati, se fumati con il tabacco, avevano effetti allucinogeni. Ci mettemmo all’opera, aggiungendo alla “droga” così ottenuta, anche degli aghi di pino triturati. Questa invece era una dritta formidabile fornitaci da un losco individuo che bazzicava i cessi del campeggio. Unico risultato fu solo un’atroce diarrea che durò per un’intera mattina e parte del pomeriggio. La seconda sera cambiammo discoteca, ma la faccenda non sembrò migliorare granché. Seduta su un divanetto c’era una ragazza di una bellezza solare, bionda, con una gonna corta che le metteva a nudo uno stacco di cosce da capogiro. Ci paralizzammo all’istante in contemplazione. Era sola, e di tanto in tanto le si avvicinava qualche ragazzo per dirle qualche parola. Lei, dopo aver ascoltato con un sorriso, rispondeva sempre scuotendo il capo. Passarono i minuti e, come in un’ideale competizione da giungla selvaggia, i grandi maschi dominanti cominciarono a farsi sotto, sempre più audaci. In coda c’erano i più famosi latin lover di tutt’Italia, gigolò di chiara fama, fotomodelli delle più prestigiose maison dell’alta moda parigina, rampolli delle più ricche e facoltose industrie patrie. Vennero tutti allontanati con gesti cortesi, ma risoluti. A quel punto mi consigliai con Mattia - che era considerato un po’ il filosofo della compagnia - e decisi di provare anch’io: a quel tempo mi mancava completamente il senso dell’autocritica. Mi avvicinai con una camminata a metà tra Humphrey Bogart e Alvaro Vitali e, con una sigaretta accesa tra le labbra, le dissi: «Ti va di ballare, pupa?». Mi rispose con un terrificante ruggito da leone della Metro Goldwyn Mayer. L’ultima sera ci giocammo il tutto per tutto. Scegliemmo una discoteca di periferia assai chiacchierata e ci scolammo addosso il resto delle fetide acque di colonia. Questa volta la sorte sembrò arriderci: sedute sui divanetti nella penombra c’erano due ragazze more. Mattia, che peraltro aveva l’acume visivo di una talpa in letargo, entrò in fibrillazione: «Ci stanno guardando, ragazzi… quelle tipe stanno fissando proprio noi…». Cominciò la tattica d’abbordaggio. Rudy, che non aveva mai fumato prima d’allora, mi chiese con ferocia una Marlboro e si incamminò verso le prede. Aveva pensato al più classico dei classici stratagemmi. Si avvicinò con nonchalance e dopo qualche attimo lo vedemmo accostare la sigaretta all’accendino di una delle ragazze. La discoteca fu squassata da violentissimi colpi di tosse catarrosa. Corremmo in aiuto, ma ormai si era clamorosamente fottuto con le sue mani. Le ragazze erano due teen-ager forse neanche maggiorenni. Una era di una bruttezza angosciante, naso da rapace, spessi occhiali da vista, un accenno di peluria sotto il labbro inferiore. L’altra tutto sommato non era malvagia. La tipa brutta cominciò a fissare Mattia e questi iniziò a sudare come una bestia in calore. Poi mi si avvicinò prudentemente e mi disse: «Senti, ho la vaghissima sensazione che quella tipa mi stia puntando…! Dato che ho dimenticato gli occhiali in macchina, mi dici secondo te com’è?». Non lasciai passare un nanosecondo: «E’ stratosferica Mat, non lasciartela scappare come un coglionazzo qualsiasi: buttatici su a pesce».   Mattia baldanzoso non si fece pregare. All’alba andammo a passeggiare sulla spiaggia e qui finalmente il nostro amico si avvide che la sua tipa non era poi sta gran Miss Italia. Mi prese da parte e mi fece un cazziatone selvaggio. Nonostante ciò lo obbligai a reggermi il moccolo. Lasciati gli altri amici ad un ritorno avventuroso con mezzi propri, cominciammo un lungo giro un macchina, io dietro con la mia bella, lui alla guida con la pantegana di fianco. Aveva un volto da incorniciare e cercava di stare il più lontano possibile dalla sua dama, allungato quasi completamente fuori dal finestrino. A lungo sostammo sulla terrazza di Gabicce Monte in contemplazione di quella lunga lingua di sabbia che saliva verso Cesenatico. A dire il vero però la contemplazione la facevano solo i passeggeri dei sedili davanti, dietro c’era ben altro a cui pensare. In tarda mattinata riaccompagnammo in albergo le due ragazze e tornammo verso il campeggio. Mattia era stravolto e fece guidare me, nonostante non avessi ancora la patente. Io ero felicissimo, e sebbene non dormissimo da tre giorni e tre notti, ero euforico e su di giri. Affrontai la strada alla maniera di Nuvolari e, quando giunsi in prossimità del passaggio a livello, misi a tavoletta. Il Pandino blu fece un salto agghiacciante e quando ricadde al suolo i semiassi scoppiarono con un rumore osceno. L’anteriore sinistra entrò direttamente nella sala da pranzo del casellante. Tornammo a casa in treno.
Passarono molti anni e un’estate, al ritorno da un trekking avventuroso in Val Maira, mi misi d’accordo col mio amico Pagnetto’ per trascorrere qualche giorno con Aleandra & Aleandra. Le due donzelle alloggiavano in un bike-hotel della riviera, erano gli ultimi giorni di agosto e già la popolazione vacanziera era ridotta al minimo. L’idea di rilassarmi sulle calde spiagge di Rimini, dopo tutta quella strada percorsa su e giù per i monti piemontesi, m’inebriava. Ci trovammo nel tardo pomeriggio alla stazione ferroviaria e in auto raggiungemmo l’hotel poco distante. Dopo un veloce check-in provammo a contattare le nostre due amiche, ma entrambe erano irreperibili al cellulare. Avevamo una fame disperata. Ci girammo attorno per un po’ e ad un tratto cominciammo a vedere una selva di donne e uomini anziani, con toni di voce estremamente alti, che s’incamminavano con molta fretta verso il salone da pranzo. Delle nostre amiche nemmeno la più pallida l’ombra. Seguimmo l’onda quasi in trance. Ad un dato momento ci fu come un segnale di carica: come iene fameliche del Serengeti, gli anziani si lanciarono con urla barbariche verso il buffet. Sembrava di assistere all’ottava piaga d’Egitto, quella delle cavallette. In pochi terrificanti istanti il ricco buffet fu saccheggiato senza pietà, tanto che nei grandi vassoi e recipienti non restavano ormai che pochi avanzi. La scena era stata apocalittica: in un caos totale orde di criminali in foulard e maglioncini di lana si erano affrontati a calci, pugni, sputi in faccia e minacce. Ci fissammo in preda all’angoscia: se avessimo aspettato ancora qualche minuto non sarebbero rimaste che briciole. Non ci fu bisogno di parole. Infischiandocene delle nostre compagne tirammo su due piatti e li riempimmo molto velocemente di rustici e verdurine sott’olio. Felici di questa impresa iniziammo ad aggirarci spaesati in quel chiassoso reparto geriatrico, in cerca di un tavolo libero. Ad un tratto ci venne incontro un uomo di circa trentacinque anni, bello, alto, vestito gessato grigio, atteggiamento estremamente sicuro di se: «Buona sera signori, benvenuti nel nostro hotel: mi presento, sono il maitre» - fece con tono serio e professionale. «Siete giunti or ora immagino…!». Parlava forbito, mettendo finanche tutti i congiuntivi al posto giusto. E poi aggiunse con fare più confidenziale: «Vedo sul registro che siete qui insieme a due ragazze, Leandri e De Rossi, giusto?». Noi annuimmo senza proferire verbo. «Beh - continuò sottovoce - , scusate se mi permetto, vedete io sono un po’ il consigliere dei clienti…! Ora potrei anche mostrarvi il vostro tavolo… però, sapete com’è, forse sarebbe più elegante se voi le aspettaste. Ad ogni modo decidete voi». Se ci avessero fucilato sul posto sarebbe stato meno doloroso. Ci guardammo con occhi lucidi: eravamo sul punto di piangere dall’umiliazione. Lasciammo lì i piatti e uscimmo senza voltarci indietro. Dalla mattina dopo ci scatenammo sulle biciclette: dapprima percorremmo tutta la splendida panoramica che da Rimini porta a Pesaro; poi ci involammo verso l’interno, visitando magnifici borghi e paesini collinari, quali Monte Gridolfo, Mondaino, San Leo, Morciano, Sant’Arcangelo di Romagna. E infine, messa a punto la preparazione, affrontammo l’ascesa a San Marino. L’andatura delle due Aleandre era estremamente rallentato, anche perché, come tutte le donne del globo terrestre, anch’esse avevano i loro dannatissimi rituali. Ed in più ogni volta che incrociavano qualche cespuglio di more dovevano fermarsi per farne incetta. Pagnetto’ ed io eravamo costretti ogni volta ad aspettarle per delle mezz’ore intere. La sera poi, c’era l’immancabile aperitivo a base di spritz-aperol in riva al mare, seguito da una mangiata di pesce innaffiata da ottimo vino bianco, e per concludere quattro passi di danza, non di più data la stanchezza. Un giorno una delle due Aleandre incrociò per strada un conoscente che era stato per un certo periodo fidanzato con una sua amica. Costui soffriva di una depressione cosmica dal momento che non aveva ancora digerito l’abbandono della propria compagna. Aleandra, sebbene da sempre fosse persona disposta ad aiutare chiunque, sopportava con insofferenza quella presenza. D’accordo stargli dietro, ascoltare i suoi sfoghi, piagnistei, tutto giusto, per carità. Ma dopo un po’ la faccenda diventava seccante. Parliamoci chiaro, in fin dei conti eravamo pur sempre in vacanza. Oltre tutto, per quanto ci sforzassimo, non c’era verso di strappare neanche un accenno di sorriso al depresso, neanche facendo ricorso alle più sofisticate barzellette del meglio del Bagaglino. Probabilmente non avremmo cavato un ragno dal buco neanche se avessimo cominciato a solleticarlo con violenza sotto la pianta dei piedi. Un pomeriggio ci recammo alle terme di Riccione. C’erano gli idromassaggi, le docce a cascata, i percorsi kneipp e altro. C’era anche una grande piscina con acqua riscaldata. Ad un tratto, dopo una bella nuotata, Pagnetto’ ed io cominciammo una finta lotta al centro della vasca. Ci guardavano tutti con curiosità. Richiamammo l’attenzione delle due Aleandre e del depresso: eravamo due pagliacci in cerca di pubblico. Tra una mossa di karate brianzolo e un calcio di judo ciociaro, ci venne in mente di affrontarci alla maniera delle foche monache dell’Artico Settentrionale: con i braccini sollevati verso l’alto e i capi riversi all’indietro ci slanciammo l’uno verso l’altro emettendo fonemi gutturali assai sgraziati. Ridevano tutti, dal bordo piscina fino agli spogliatoi. Il depresso, dopo lungo tentennamento, si lasciò andare ad una smorfia del viso appena abbozzata che molti intesero verosimilmente come sorriso.
Da quell’anno in poi, nacque un appuntamento fisso: “la biciclettata di primavera”. Si tratta di un ritrovo che riscuote sempre molto successo e che consente di rivedere persone care anche a distanza di molto tempo. Di solito si sceglie un albergo vicino al mare, estremamente economico, posto in posizione centrale, vicino alla stazione e nei cui pressi si trovi un noleggio biciclette. Quest’incombenza, che porta via non meno di un paio di giorni di estenuante ricerca, viene sempre affidato democraticamente al sottoscritto. Si arriva il venerdì pomeriggio e si riparte la domenica sera. In questo lasso di tempo si pratica sport - soprattutto bicicletta - , si fanno delle grandi mangiate e bevute, si balla in locali sulla spiaggia, si chiacchiera, si fa all’amore, si scolano bottiglie di Talisker e altro. È una piccola sospensione della pena di vivere quotidiana, quasi un accenno di paradiso in terra. Un anno Elena ci fece penare non poco. Dopo un estenuante tira e molla, decise di raggiungerci il sabato mattina. Le diedi tutte le informazioni del caso e cominciai a entrare in fibrillazione, conoscendone le non brillantissime doti d’orientamento. A metà mattinata mi chiamò, dicendomi che era arrivata. Piacevolmente sorpreso le risposi di attendermi fuori dall’albergo. Scesi in strada, ma non vidi nessuno. La richiamai, e questa mi confermò di trovarsi in via Cormons, davanti all’Hotel Cortina. Non credevo alle mie orecchie, presi la bicicletta e cominciai a fare su e giù per la via sperando di scorgere la sua Peugeot celeste. Il tempo passava e non la vedovo. La richiamai e le chiesi di percorrere tutta la strada fino a raggiungere la grande piazza con la rotonda e le aiuole: Piazza Kennedy. Lei eseguì. Nulla di nulla. Nel frattempo erano scesi a darmi una mano nelle ricerche anche gli altri. Passavano le ore e il mistero s’infittiva. A quel punto Pagnetto’ - astuto come un coiote dei Castelli Romani - propose: «Dille di raggiungere il lungo mare e di piazzarsi sotto il numero dello stabilimento 65, da Oscar». Detto fatto. Trascorsero dieci minuti ed Elena mi richiamò: si trovava esattamente sotto l’insegna. Io trasecolai: o la mia amica aveva cambiato completamente connotati, oltre che l’auto, o c’era qualcosa che non tornava. A quel punto, estremamente irritato, le domandai: «Scusami Elena, fammi una cortesia…, ma davanti a te, guardando verso il mare, cosa vedi esattamente? ». La risposta fu sorprendente: «Vedo una scogliera, un molo, delle barche…». Mi cedettero le gambe: davanti a me c’era solo un’infinita distesa di sabbia punteggiata di ombrelloni chiusi e sdraio…! «Allora Elena - continuai - non prendertela a male per quello che sto per dirti… però potresti farmi un piccolo piacere? Potresti chiedere al primo passante che ti capita in che paese ti trovi…! Non è per mancanza di fiducia… credimi!». Elena mugugnò risentita, ma dopo trenta secondi, con voce da criceto spaventato mi fece: «Scusa Lu, mi sa che mi sono sbagliata… pare che al momento mi trovi nei pressi di Bellaria». Dalla vicenda ricavai due considerazioni: primo, non c’era più tempo da perdere, dovevo regalare subito un navigatore satellitare a Elena; secondo, che i comuni romagnoli hanno davvero una bella fantasia…!
L’anno scorso la biciclettata si è svolta a fine maggio. Rimini era ancora deserta, i prezzi estremamente vantaggiosi e il clima ideale per fare sport. In compagnia si sono aggregati anche altri amici, Dominique, Lorenzo e Carletto. I primi due sono ragazzi atletici, fondisti provetti, salutisti; il terzo invece, così come me d’altra parte, è un gran bevitore di superalcolici, fumatore incallito, sedentario totale, pigro e indolente. Abbiamo affittato le biciclette presso un losco individuo e ci siamo involati verso l’interno, seguendo la polverosa ciclabile del Marecchia. Carletto ha rischiato subito un tragico frontale con un tir, ma per sua fortuna non se n’è accorto. A metà strada il gruppo si è fermato: del nostro amico neanche più l’ombra. Dopo circa venti minuti eccolo arrivare con la sua andatura al limite del ribaltamento. A trecento metri da noi si ferma sotto un banano, butta per terra con disprezzo la bicicletta e si accende una sigaretta. Lo raggiungo, è molto stanco e scocciato. Gli fanno male le protuberanze ischiatiche, come le chiama lui, vale a dire le chiappe. Dopo breve consulto decide di tornare indietro. Sono preoccupato, ma egli insiste. Una volta tornato al baracchino del noleggio il losco esplode: «Eh ma questa bicicletta è tutta sporca… dove siete andati? Qua c’è da pagare la pulizia, sono cinque euro più I.V.A.». Carletto è stravolto e l’unica cosa che risponde è: «Senta buon uomo, non c’ho un centesimo bucato in saccoccia…! Se la veda con i miei compari di merende. Stia bene e buon anno nuovo». Si avvia a piedi verso l’hotel, ma si perde subito. Una ragazza americana lo rimette sulla via giusta portandolo per mano. Sul lungomare si ferma presso un fetido chioschetto e, sotto un sole di rame, si butta giù a collo una Peroni gigante. Entrando in albergo barcolla, parlotta con se stesso e di tanto in tanto canticchia filastrocche romagnole. L’addetto della reception, tale Vito, pensa che sia ubriaco marcio e si offre di chiamare un’ambulanza per una delicata lavanda gastrica. Il nostro rifiuta cortesemente e sale in camera. Si risveglierà la mattina dopo.
(Il Cialtrone, 2012 - pag. 357)

giovedì 16 maggio 2013

Il denaro, la morale e il topolino

L’animo umano è davvero sorprendente: così facile alla commozione di fronte alle disgrazie umane, così suscettibile al cospetto delle tragedie ambientali e animali, eppure così pronto a difendere il proprio particolarissimo interesse. A qualunque costo. Tutti pronti ad indignarci di fronte allo sfruttamento della manodopera del terzo mondo, alle condizioni misere e insicure in cui operano i lavoratori, al regime di semi-schiavitù cui sono assoggettati spesso anche i bambini, ma poi prontissimi ad acquistare (e mercanteggiare) produzioni a basso costo; tutti solerti a spendere parole di fuoco contro l’inquinamento e la distruzione sistematica dell’ecosistema, ma non uno disposto a spendere un centesimo di più del dovuto pur di agevolare produzioni più rispettose dell’ambiente. Le solite frasi da qualunquista medio, direte. Già, può darsi, ma aspettate a trarre le conclusioni e leggete quanto segue. Una recente ricerca pubblicata sulla rivista Science, ha voluto sondare proprio questo aspetto (meschino) dell’animo umano, e ciò che ne è saltato fuori si può racchiudere nel titolo che gli studiosi hanno dato al loro lavoro: “Markets Erode Morals” (le situazioni di mercato erodono le leggi morali). Armin Falk dell’Università di Bonn e Nora Szech dell’Università di Bamberg, entrambi economisti, hanno confezionato un esperimento per capire quanto resistano i nostri valori morali di fronte ad un ritorno economico. Anche a discapito di altri. Per fare ciò hanno selezionato 800 partecipanti e li hanno sottoposti ad un gioco: dovevano decidere se alcuni topolini di laboratorio usati per la ricerca, ma ormai anziani e dunque inservibili ai fini della scienza, dovessero terminare la loro vita in maniera naturale oppure dovessero essere soppressi. Pollice alzato per tutti (ovviamente). Dopo di ciò è stato introdotto l’elemento economico nel gioco: “In cambio di dieci euro, acconsentireste alla soppressione del topo?”. Quasi uno su due (46 per cento) ha risposto sì. Mi direte, sì ma l’altra metà è rimasta irremovibilmente salda sui propri principi. Già, ma è bastato introdurre un ulteriore elemento nella vicenda, vale a dire stessa proposta, ma in un contesto aperto ad altre persone, perché la percentuale schizzasse immediatamente al 76 per cento. “In markets, people face several mechanisms that may lower their feelings of guilt and responsibility” sostiene Nora Szech (Nei mercati, le persone devono affrontare diversi meccanismi che possono abbassare i loro sentimenti di colpa e di responsabilità). L’utilità personale in altre parole viene prima delle preoccupazioni morali. “This logic is a general characteristic of markets – afferma Falk - If I don’t buy or sell now, someone else will” (Questa logica è una caratteristica generale dei mercati, se non compri o vendi ora, lo farà qualcun altro). Sapere che ad una propria rinuncia, corrisponderà quasi certamente un vantaggio economico per un’altra persona, consente ad un individuo medio di tacitare il proprio Superio (per usare un termine psicanalitico). E così, triste a dirsi, di fronte alla possibilità di mettersi in saccoccia una bella banconota da dieci euro, più di tre persone su quattro sono disposte a sacrificare la vita di una povera bestiola indifesa. Quando si dice “tutto ha un prezzo”…!
Il fatto è che ormai, siamo talmente invischiati nelle questioni economiche che non riusciamo più neanche a scindere le diverse sfere dell’agire umano. Ogni singola cosa ha un prezzo, ogni comportamento, ogni azione. Perfino la vita umana è soggetta a valutazioni monetarie. Basta dare un’occhiata alle tabelle assicurative: a seconda dell’individuo (sesso, età, attività professionale, censo etc…) ecco pronta una bella stima precisa al centesimo. Come se la vita umana non avesse un unico, immenso valore. E dunque figuriamoci se ci si può fare scrupolo di una cavia da laboratorio. Mark Gongloff, il notista dell’Huffington Post’s, commentando la ricerca afferma: «I mercati non sono per natura malvagi […], ma non sono neanche infallibili. Lo studio arriva al termine di lunghi decenni in cui i liberi mercati sono stati quasi elevati al livello di status sacro e hanno permeato le nostre vite, non sempre con buoni risultati. Michael Sandel, economista di Harvard ha avvertito che l’America rischia di diventare una “società di mercato”, un luogo senza più anima». Per bacco, e se lo dicono gli americani…! Oggi purtroppo gli unici valori che contano sono il denaro, la ricchezza, il successo. In qualsiasi modo vengano conseguiti. Anche calpestando qualsiasi norma etica e morale, come abbiamo visto. Nel nostro passato il denaro non era un fine, ma lo scopo per conseguire una vita tranquilla, un’esistenza senza grossi pensieri. Non per niente nel medioevo i mercanti (per non parlare dei banchieri e degli usurai) erano considerati, soprattutto dalla Chiesa, persone immorali, spregevoli. L’attaccamento al vil denaro era quanto di più disdicevole ci fosse al mondo. Perché in fondo il denaro altro non era che una promessa di utilità futura, e il futuro apparteneva a Dio. In India poi era proibito l’uso del denaro ai Bramini (gli esponenti della casta sacerdotale), e anche i samurai giapponesi ritenevano indegno avvicinarvisi. E a tutt’oggi i monaci buddisti non possono toccare il denaro e si servono di ciotole per raccogliere e conservare le offerte. Le cose cambiano in occidente solo con l’avvento della Rivoluzione industriale e con la trasformazione del mercante in imprenditore. È da allora che la società comincia ad adottare un codice etico improntato alla cultura dell’accumulo, dell’investimento fruttifero, del profitto, della speculazione, dell’arricchimento fine a se stesso e quant’altro. Prima di allora si lavorava quel tanto che bastava per vivere e tutto il resto del tempo era dedicato a se stessi, alla famiglia, alle relazioni personali, al culto. Ma tutto ciò, come detto, cede il passo ad un’altra filosofia, ad un altro modo di vedere il mondo. E con ciò, anche le figure che un tempo erano viste come dei modelli cui ispirarsi, vale a dire cavalieri, nobili, armigeri, filosofi, grandi pensatori, artisti, cedono il passo al nuovo che avanza, ovvero al Mercante, l’uomo dello sfolgorante successo economico. E da qui a scendere, sempre più verso il fondo, fino ad arrivare a vendersi la pellaccia di un topolino per dieci euro. Che progresso...!

http://www.huffingtonpost.com/2013/05/13/markets-morals-study_n_3267995.html?utm_hp_ref=business

 

mercoledì 15 maggio 2013

Il bisturi che allontana la morte e rovina la vita

Ieri tutti i mass media hanno dato ampio risalto alla notizia che Angelina Jolie, l’attrice più sexy del pianeta, si è sottoposta ad una duplice “mastectomia” preventiva, ovvero all’asportazione di entrambe i seni per scongiurare la possibilità di incorrere in un futuro, ipotetico tumore. La sua scelta mi ha lasciato senza parole, devo ammetterlo. Immaginare che un corpo così armonioso, florido, nel pieno della maturazione e del fulgore, perfettamente integro e sano, sia passato sotto i bisturi di un chirurgo, mi ha messo addosso uno sconforto enorme. “E perché mai, di grazia, tanto strazio?” mi sono chiesto. A rispondere è la stessa Angelina Jolie con un’intervista al New York Times: “I medici mi hanno detto che ho il gene BRCA1 che mi dà l’87 per cento di probabilità di avere il cancro al seno e il 50 per cento alle ovaie. Una volta appresa la realtà ho deciso di agire. Sono partita dal seno perché il mio rischio di tumore è più alto e gli interventi più complessi”. Quindi, se tanto mi da tanto, è in previsione anche l’asportazione delle ovaie in un prossimo futuro.
Rischio, probabilità, possibilità…! Mio Dio, ma qui siamo alla follia: si asporta, si taglia, si smembra un corpo umano per la possibilità che una parte di esso possa un giorno incorrere in una malattia. Possibilità di ridurre il rischio, si dice: ma già il rischio è qualcosa di aleatorio, cioè può essere che l’evento infausto si concretizzi o meno; la possibilità (non già la certezza) di ridurre il rischio è l’aleatorietà al cubo, ovvero intanto ti opero, poi vediamo se effettivamente la percentuale di rischio diminuisce. Un po’ come la guerra preventiva: visto che potresti un giorno decidere di attaccarmi (ma non è affatto detto, s’intende), nel frattempo ti scarico in testa una valanga di bombe. Siamo al ribaltamento della realtà e della concatenazione delle cose. Come prendere un’aspirina perché potrebbe eventualmente venire un mal di testa: ma aspetta prima che ti venga e poi impasticcati…! Il che non vuol dire, ovviamente, rinunciare alla prevenzione: una cosa è fare ciclicamente delle analisi, altra è cominciare una cura – o peggio farsi operare – in assenza di malattia.
Questa pratica operatoria peraltro rientra in una tendenza in crescita fra le donne americane: dal 2000 è triplicata la scelta fra le donne più giovani di farsi togliere almeno un seno sano. Un senso sano…! E se puta caso un giorno la scienza medica scoprisse che la presenza di un gene particolare potrebbe (e dico potrebbe: si parla sempre di fattori di rischio, non di previsioni assolute) causare un tumore alle gambe, alle braccia o a qualche altra preziosa appendice? Che si fa, tagliamo anche in quel caso?
E così continua la Jolie: “Ora il rischio è sceso al 5 per cento. Posso dire a Maddox, Zahara, Shiloh e i gemelli Knox e Vivienne (i figli: ndr) che non devono aver paura di perdermi”. Fa impressione tutta questa fiducia nella medicina, tutta questa certezza di aver sconfitto definitivamente la morte. E se puta caso vai a prendere il pane, attraversi la strada e un tram ti arrota? Come la mettiamo?
“Molte donne non sanno di vivere sotto l’ombra del cancro – prosegue Angelina – la mia speranza è che si sottopongano al test e che, se scoprono di essere a rischio, possano prendere decisioni forti”. Di fronte a tale dichiarazione, una larga parte del mondo medico ha preso le distanze: Fran Visco, presidente della National Breast Cancer Coalition, sostiene che “i dottori che non riescono a prevedere chi ha maggiori possibilità di morire, portano le donne a scelte aggressive non sempre necessarie”. Che detto in parole semplici vuol dire: asportiamo seni (e non solo) che magari non si ammaleranno mai…! Senza considerare le conseguenze inevitabili (fisiologiche e psicologiche) cui andrà incontro una persona che subisce una mutilazione così importante. Riccardo Masetti, Direttore del Centro di Senologia del Policlinico Gemelli di Roma e Presidente della Komen Italia afferma che “la tendenza è di proporre alle pazienti la mastectomia preventiva con troppa leggerezza, mentre si tratta di una scelta delicatissima da ponderare con grande attenzione”. Ed anche lo stesso Veronesi si è detto contrario: “Sono più vantaggiosi i controlli periodici ogni sei mesi”.
E Brad Pitt che ne pensa di questa decisione della compagna? “Ho trovato la scelta di Angie assolutamente eroica; tutto quel che voglio è che Angelina abbia una vita lunga e sana, con me e con i nostri figli. Questo è un giorno felice per la nostra famiglia”. Eroica? Ma eroismo, al limite, è scegliere di ignorare il rischio, di infischiarsene delle previsioni catastrofiste, di vivere ogni giorno che il buon Dio manda in Terra come fosse l’ultimo della nostra vita. È chiaro poi che tutti ci auguriamo una vita lunga e sana, ci mancherebbe, ma non c’è niente e nessuno che ci possa dare assicurazioni su questo. In America si dice: “Due sole cose sono certe al mondo: le tasse e la morte”. Ecco, da noi è vera solo la seconda, ma cambia poco.
Quanto più la scienza medica (e con essa la diagnostica) progredisce, tanto più ci si addentra nei meccanismi biologici e patologici che regolano la nostra esistenza. Ma con ciò, paradossalmente, abbiamo ottenuto come risultato di trasformare qualsiasi individuo sano in un potenziale soggetto a rischio. E d’altra parte quando il destino ultimo di tutti è la morte, c’è poco da fare. Suggerendo l’idea che una malattia mortale potrebbe incombere improvvisamente sul nostro capo, abbiamo ipso facto rovinato per sempre la vita agli individui sani. E così, una donna che avrebbe potuto trascorrere una vita (lunga o breve che fosse) senza l’immanente e costante terrore della fine, si riduce a sperare che la medicina, a cui ci si aggrappa ormai come naufraghi nella tempesta, non fallisca e mantenga le sue promesse. Promesse a cui peraltro si crede, ma fino ad un certo punto. Perché ognuno, nel profondo di se stesso, accanto alla speranza, ha altresì la consapevolezza che i miracoli non esistono (o al limite avvengono, ma una volta ogni tanto).
Il problema è sempre quello: la nostra società si è allontanata antropologicamente dal concetto della morte, non ne conosce quasi più il volto, il modo di affrontarla e di conviverci. Da ciò ne deriva un terrore e uno sgomento tale che qualunque pratica medica (o anche magica: quanti, ormai privi di speranza si rivolgono all’occulto…) è ben’accetta pur di allontanare il pericolo della fine. Costi quel che costi. Senza considerare poi la paura della sofferenza, dell’agonia. In una scena del film Due irresistibili brontoloni Walter Mattheu e Jack Lemmon, già avanti nell’età e negli acciacchi, apprendono da un conoscente della morte di un loro caro amico. Mattheu chiede com’è morto il poveretto e il tipo risponde: «Se n’è andato nel sonno». Al che i due compari, all’unisono, commentano: «Che culo…».
Ecco, questa è fifa…! Fifa blu. Aveva ragione Epicuro: “Chi ha paura della morte muore mille volte”.

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