Prova


Non preoccuparti della pioggia, lasciala cadere” (Marco Brignoli, Rifugio Baroni al Brunone, Sentiero delle Orobie Orientali)

martedì 16 aprile 2013

Tutto è vanità

Domenica scorsa si sono svolte le prime comunioni. Il Duomo era gremita all’inverosimile, l’altare addobbato a festa e in ogni angolo vi erano vasi e mazzi di fiori. All’inizio, dato lo sfarzo dei presenti, ho creduto che si trattasse di un matrimonio. Poi però, accompagnata da una frizzante musica d’organo, una schiera di adolescenti ha fatto il suo ingresso in chiesa. Si trattava per lo più di ragazzine vestite di bianco candido, suorine dallo sguardo raggiante, a tratti confuso e curioso. I maschi erano due o tre in tutto, e abbigliati alla maniera di uomini in miniatura, apparivano più spauriti e in imbarazzo rispetto alle loro coetanee. Oggi come trent’anni fa, la prima comunione si riceve in terza elementare, all’età di 10-11 anni. Ricordo bene quel giorno, era primavera e c’era un sole delle grandi occasioni. Si trattava di una grande festa, una celebrazione che riguardava tutta la comunità. Anche perché i ragazzini a quell’epoca erano ancora tantissimi. I miei comprarono per me un elegante abito beige, con un giacchino corto chiuso con una cerniera lampo. Doveva costare molto, soprattutto tenendo conto che sarebbe stato usato una sola volta: tipo un matrimonio. Dopo la cerimonia ci furono le foto: in una appaio accanto al mio compagno di classe Daniele, il gigante buono della scuola. Io mostro un sorriso un po’ forzato, lui un’espressione spenta e seccata. Che tremenda costrizione fu tutta quella lunga giornata. Sul piazzale della chiesa altre foto: anche una di gruppo con la maestra Alba Segantini Notarangelo. I miei sono ancora nel pieno della giovinezza, avranno non più di 35 anni. E sono felicissimi. La festa si concluse in un ristorante sul lago di Lecco, se non ricordo male.
E così, domenica scorsa, la chiesa era strapiena di persone mai viste prima. Tutte molto eleganti, si aggiravano con sguardo attento e indaffarato lungo le navate, alla ricerca della miglior sistemazione possibile. Gli uomini tutti sfoggiavano giacca e cravatta, le donne tailleur colorati, scarpe tacco dodici, borsette plissettate. Trucco e parrucco da dive di Hollywood. Per tutta la chiesa poi, si spandevano intense fragranze d’eau de toilette e acqua di colonia, tanto che neanche l’incenso del turibolo poteva coprirle. E più si avvicinava il momento clou dell’inizio della cerimonia, più montava in tutti costoro come un senso di agitazione, una frenesia spasmodica di assistere all’evento. E non soddisfatti della postazione occupata, molti si levavano in piedi e si avviavano con occhio innervato, verso lidi più promettenti. E nel fare ciò, neanche un briciolo di gentilezza e cortesia per il vicino di banco, non un grammo di educazione, ma solo spinte, spallate senza parole o sguardi di scuse, calcetti e piedi schiacciati. In una confusione magmatica, all’improvviso il sacerdote ha preso il microfono e ha esclamato: “Come da accordi presi in precedenza, invito tutti i presenti a spegnere telefonini e fotocamere. Al termine della cerimonia sarete liberi di fare tutte le foto che volete”. Neanche cinque minuti e il primo cellulare ha cominciato a squillare, disturbando peraltro e quindici fotografi assiepati intorno all’altare. In una baraonda sempre più crescente, fatta di chiacchiericci di sottofondo, risatine, borbottamenti e pianti di pargoletti in fasce, la funzione si è trascinata fino alla conclusione. Accompagnata dall’incessante defilé di moda di un’adolescente, abbigliata con un top bianco striminzito e una minigonna talmente corta da mettere in mostra quasi integralmente le sue acerbe natiche.
Assistendo a tutta questa fiera dell’effimero e del cattivo gusto, ho incominciato a interrogarmi su che senso avesse tutto questo. Tutta questa ostentazione di opulenza, quest’eleganza posticcia, questo schiamazzo da Carnevale, c’entrano qualcosa con la religione cattolica, con la fede, la Chiesa? E tutto questo chiasso, questo strepito, questa baldoria sguaiata, ha qualcosa di vagamente riconducibile alla sacralità del rito eucaristico? All’essere cristiani e cattolici? E facendomi queste domande, mi sono accorto, per la prima volta e a malincuore, di dover dare ragione alla mia amica Elettra, da sempre acerrima avversaria dei “credenti ipocriti”, come dice lei, quelli che si riempiono la bocca di parole evangeliche e poi agiscono senza alcun riguardo per la loro fede. Quante volte ci siamo azzuffati su questo argomento, e quante volte io stesso mi sono sentito rivolgere quest’accusa, incapace di replicare alle sue acute stilettate. In questo caso però siamo su un altro piano ancora, qui l’ipocrisia non c’entra affatto. La maggior parte dei presenti non s’era mai vista prima dell’altro giorno in chiesa: al netto di parenti e amici giunti da fuori città, qui siamo in presenza di persone che, pur professandosi credenti, in chiesa non entrano mai, se non appunto in occasione di matrimoni, cresime e comunioni. E forse dei funerali, ma non ne sono sicurissimo. Sono i cosiddetti “credenti non praticanti”, coloro che hanno fiducia in Dio, ma non nella Chiesa (e men che meno nel Vaticano), coloro che amano più la scenografia che non la cerimonia, più la festa fine a se stessa che non l’essenza sacramentale. Persone che ricordano di essere cattoliche solo nelle grandi occasioni, e dietro opportuna richiesta di partecipazione.
Non saprei dire se questo sfogo da borbottone un po’ bigotto sia effetto dell’età avanzante. Fatto sta che più passa il tempo e più mi scopro intollerante e insofferente alla sguaiataggine, al cattivo gusto e all’arroganza della vacuità. Non mi ci ritrovo più in questa società che ha perso qualsiasi senso del decoro, della misura e della dignità. Siamo arrivati perfino ad applaudire ai funerali, sporcando di chiasso e caos la sacralità della morte. Non per niente qualche tempo fa il parroco ha tuonato: “La prossima volta ne prendo a calci qualcuno”.
Mi piacerebbe tornare per un attimo solo a quel giorno di trent’anni fa - quando ragazzino mi avvicinavo anch’io alla prima comunione - e guardare quella chiesa piena, osservare i volti delle persone, ascoltare ciò che dicono o ciò che non dicono. Chissà che scena avrei sotto i miei occhi? Se fosse troppo dissimile da quella vista l’altro giorno vorrebbe dire che sto proprio invecchiando. In caso contrario, sarebbe anche peggio.

Nessun commento:

Posta un commento