Prova


Non preoccuparti della pioggia, lasciala cadere” (Marco Brignoli, Rifugio Baroni al Brunone, Sentiero delle Orobie Orientali)

giovedì 4 aprile 2013

Paghetta sì o paghetta no?

Secondo un recente studio condotto dalla Royal economic society britannica, pare che dare soldi ai figli ogni settimana, la cosiddetta  “paghetta”, sarebbe controproducente oltre che per le saccocce del donante, anche per la psiche del ricevente. E perché mai, viene da chiedersi? Il motivo è presto detto: l’abitudine di avere per le mani una somma certa a scadenza, renderebbe gli adolescenti dipendenti del denaro. Se proprio si muore dal desiderio di sganciare dei quattrini – consigliano gli esperti – meglio associare l’idea dell’elargizione a quella della ricompensa per l’esecuzione di un piccolo lavoretto. Dallo studio emergerebbe, tra l’altro, che la certezza di avere del denaro a disposizione, deprimerebbe il valore del risparmio, dell’attesa, della conquista attraverso il sacrificio, a vantaggio del tutto e subito.
Quando ero bambino non ricevevo la paghetta dai miei genitori: se avevo bisogno di qualcosa la chiedevo, ma non avevo a disposizione dei soldi. Gli unici quattrini che vedevo durante l’anno erano le mance di Natale, ed erano regalie quasi esclusivamente dei nonni. Mia madre un certo periodo provò a convincermi ad eseguire alcuni lavoretti in casa dietro compenso, ma già da allora dimostravo di non avere grande interesse verso il denaro. Per di più ero pigro e indolente, e dunque non c’era proprio materia sulla quale lavorare. Cominciai a ricevere del denaro alle scuole superiori, e si trattava di un’esigenza concreta, non certo di un gesto di liberalità dei miei. D’altra parte per recarmi a scuola dovevo prendere una corriera che prevedeva un abbonamento, e poi ci volevano i soldi per la colazione di metà mattinata. Quella dell’intervallo. Erano poche migliaia di lire, s’intende, ma furono una bella rivoluzione. Quando suonava la campanella delle undici e trenta, si spalancavano le porte delle aule e ci s’involava verso il bar per una manciata di minuti di libertà. Di solito mi affiancava il mio compagno di classe Enrico, un genio. Costui era sempre senza un centesimo – almeno così sapevo – e dunque si appoggiava completamente a me per quanto riguardava la sua sussistenza. Ogni giorno era una lotta all’arma bianca tra la folla per la conquista del bancone: “Che prendiamo di buono oggi – mi diceva una volta di fronte alla barista – , focaccina o fiamma al cioccolato?”. Non aspettava mai neanche la risposta e ordinava. Intanto io prendevo il portafogli e andavo alla cassa. Non saprei dire perché lo facevo: forse perché quel ragazzo così particolare mi faceva tenerezza. Di certo non lo facevo per copiare i suoi compiti, anche perché era impossibile decifrare la sua scrittura. Ricordo che durante le lezioni – soprattutto di storia e filosofia – si armava di pennarello e decorava le gambe del suo banco con delle scritte in lettere ebraiche. Studiava la lingua da autodidatta. All’esame di maturità si presentò vestito da pescatore e, durante gli orali, ingaggiò una furibonda diatriba con il presidente della commissione (un imbecille totale) sull’ontologia esistenzialista di Martin Heidegger. Ovviamente aveva ragione Enrico, ma quel farabutto se la prese così tanto che gli abbassò in maniera infame il voto finale.
Altri ragazzi invece, pur avendo la loro bella paghetta, preferivano risparmiare sull’autobus. E non facendosela a piedi, ma salendo a bordo senza biglietto. Idea che non mi ha mai sfiorato, non tanto per il timore della sanzione, quanto perché temevo la figuraccia che avrei fatto di fronte agli altri passeggeri. E così, quando qualche controllore si palesava alla fermata, facevo sempre il tifo per lui. Certo non arrivavo al livello di Giacomino (“Gli faccia una bella multina…”), ma in cuor mio pensavo che in fondo quella era semplicemente giustizia. Un giorno, purtroppo, mi capitò di smarrire l’abbonamento tra le mille tasche del giubbotto invernale. Due controllori mi trattarono come il più fetido dei furfanti e mi costrinsero a restar sull’autobus ben oltre la mia fermata. Gli altri viaggiatori facevano finta di niente, ma sui loro volti si leggeva un disprezzo inenarrabile. Alle porte di Monza finalmente trovai quel fottuto biglietto e il controllore-capo commentò solo: “Ebbe…, mezzora per tirarlo fuori…”. Dovetti fare a piedi tutto il tragitto per tornare a casa e da allora cominciai a guardare alle battaglie dei Radicali con altri occhi.
Ma tornando alla ricerca, gli esperti sostengono che compito dei genitori è quello di far comprendere ai figli il valore del sacrificio. Gli adolescenti vivono un’esistenza fatta di desideri, di ambizioni, di volontà di accumulo, ed è proprio in questo ambito che si deve sentire la presenza dell’adulto: il bambino deve capire che non tutto ciò che si vuole si può realizzare. Capire ciò, di per se stesso equivale ad una crescita responsabile. I genitori dovrebbero cioè educare al risparmio come esercizio di pazienza, di attesa, di conquista. Una piccola rinuncia oggi, per un qualcosa di più grande domani. Alcuni anni fa andai a far visita a mia zia Rita di Roma. Mio padre, prima di partire, mi diede il compito di consegnare una busta contenente del denaro al piccolo nipote di Rita (il figlio della primogenita). Si trattava di un gesto di affetto, che in parte ricambiava l’ospitalità che avrei ricevuto. Quando effettuai la consegna, il ragazzino, che allora aveva una decina d’anni, mi guardò senza dire una parola. Poi aprì la busta e vide che c’erano delle banconote all’interno. Al che cominciò a sorridere di gusto. Ma a rompere quell’incantesimo, giunse assai opportunamente la nonna, con un ragionamento spietatamente logico: “Ecco Federico…, hai visto che bel regalo? Ora puoi decidere tu cosa fare: o ti compri un giochino subito con questi soldi…, oppure… li metti da parte e quando ne avrai accumulati ancora un po’, ti compri un giochino ancora più bello”.
Il bambino seguì tutto il ragionamento con occhi pallati e a me venne da ridere. Davanti a me avevo un nuovo, povero disperato alle prese con lo sterco del demonio.

Nessun commento:

Posta un commento