Prova


Non preoccuparti della pioggia, lasciala cadere” (Marco Brignoli, Rifugio Baroni al Brunone, Sentiero delle Orobie Orientali)

lunedì 22 aprile 2013

Come distruggere la sinistra italiana in tre giorni

E così, dai e ridai, finalmente siamo riusciti ad avere un Presidente della Repubblica. Del come, del quando e del perché ci siamo arrivati è cosa notoria a tutti. D’altra parte uno spettacolo (horror) come quello che è andato in onda in questi giorni non poteva perderselo veramente nessuno.
A partire da giovedì il Parlamento si è riunito in seduta comune presso l’aula di Montecitorio e ha cominciato a ragionare. Un gran bel ragionare bisogna dire…! Il compito di scegliere il nome per l’inquilino del Colle, come da prassi, se l’è arrogato subito il partito che detiene la maggioranza relativa. Cioè il Pd. Dopo un lungo e proficuo dibattito interno, la segreteria, con una lungimiranza veramente sensazionale, se n’è uscita con un nome che è riuscito in un intento apparentemente impossibile, vale a dire quello di scontentare praticamente tutti. Al solo udire il nome di Franco Marini, uomo politico appartenente ad un’era geologica consegnata alla storia (anzi alla preistoria), oltre la metà dei grandi elettori del Partito Democratico presenti al teatro Capranica ha lanciato grida di disapprovazione. E con essi, la quasi totalità dei cittadini italiani, informati immediatamente dalla stampa circa la geniale trovata di Bersani e dei suoi stretti collaboratori. Il perché di questa scelta s’è subito inteso, tanto più leggendo le dichiarazioni di gradimento giunte rapidamente dalle forze d’opposizione. Giovedì mattina, dopo l’interminabile “chiama” e la lunga e monotona litania dello spoglio delle schede – animatasi esclusivamente ai nomi di Raffaello Conte Mascetti o Marini Valeria – , s’è arrivati alla prima, “inimmaginabile” sorpresa: affondamento del candidato Marini. “Caspita, e chi l’avrebbe mai sospettato un risultato del genere?” – avranno pensato gli astuti dirigenti del Pd – “Si d’accordo, c’era un certo qual dissenso tra i parlamentari, ma com’è possibile che la metà di costoro abbiano votato davvero contro il candidato espresso dal partito?”. Eppure così è stato. Nel frattempo fuori da Montecitorio una folla di persone manifestava a favore dell’altro candidato, quello espresso dal Movimento Cinque Stelle, vale a dire Stefano Rodotà, uomo di sinistra da sempre. Provocando peraltro un fastidioso risentimento da parte di alcuni importanti esponenti del Pd: “Ma che vogliono questi…?”. A questo punto, sfumato l’accordo con l’opposizione (chiamato altresì “inciucio”), la dirigenza del Pd ha pensato bene di prendere tempo mandando a vuoto la successiva votazione. In uno stato mentale sempre più confuso e schizofrenico, s’è arrivati alla seconda serata del Capranica. Bersani e i suoi, tramortiti dalla figuraccia del mattino, compiono l’atteso passo e tirano fuori dal cilindro il più classico dei conigliotti: Romano Prodi, acerrimo avversario del Silvio. In altre parole, rispetto al candidato precedente, qui si realizza una repentina sterzata di 180°: niente più accordi con l’opposizione. La platea apprezza e levatasi dalle poltrone, applaude con entusiasmo. Prodi, in Africa per conto dell’Onu, viene avvisato e si attiva immediatamente per far ritorno in Italia. La strategia dunque sarà questa: alla terza votazione, scheda bianca; alla quarta, quando basterà il 50 per cento più uno dei votanti, si voterà in massa Prodi. Perfetto. Che poi sulla carta manchi al candidato ancora qualche voto per arrivare al risultato, poco conta: qualcuno di altro schieramento sicuramente si aggregherà. Ovviamente. E di fatti venerdì pomeriggio nuova convocazione della seduta e nuova grande sorpresa: dallo scrutinio delle schede – lette da una Boldrini sempre più annoiata, e passate di mano ad un Grasso sempre più inutile e sonnacchioso – salta fuori che Prodi non riesce neanche lontanamente ad avvicinarsi alla soglia dei 504 voti necessari per diventare Presidente della Repubblica. Oltre cento deputati e senatori Pd, nonostante l’intenzione favorevole manifestata la sera prima, fanno mancare il loro appoggio al candidato. Prodi viene contattato urgentemente: “Abbiamo scherzato…! Resta pure in Africa…”.
È la notte della sinistra italiana. Tutti accusano tutti, si rinfacciano colpe, si urla al tradimento, si chiede conto alla dirigenza. Dall’altra parte si esulta: l’avversario di sempre è sconfitto, colui che solo è riuscito a battere per ben due volte il Silvio, è finito, cancellato. Fuori dai palazzi la rabbia cresce. Il popolo della sinistra non riesce a capacitarsi di quest’ennesima debacle dei propri rappresentanti e torna ad urlare a gran voce il nome di Rodotà. Non si riesce a capire il perché di questa chiusura. Anche perché nessun esponente del Pd dice una parola su questa candidatura. Alla fine, assediati dagli elettori e dai giornalisti, alcuni cominciano a sbilanciarsi: “Perché no Rodotà? Semplice: perché il suo nome è stato fatto dal Movimento Cinque Stelle”. “Cosa…? – urlano in coro i cittadini – E questa sarebbe la spiegazione? Ma neanche all’Asilo Mariuccia si sentono certe cose…”. Ed infatti, siccome l’affermazione non regge, qualche altro preclaro esponente Pd aggiunge: “Ma no…, Rodotà non si può votare: la gente non lo conosce. Non lo conoscono nemmeno i miei genitori…”. Che chiaramente è una argomentazione davvero molto convincente. Delusione e amarezza raggiungono il massimo livello. Solo nella notte giunge la confessione, ed ha il volto onesto di Giuseppe Civati, detto Pippo: “Rodotà non passerebbe. Se non è passato Prodi, come pensate che possa passare Rodotà? Metà partito guarda a destra…”. Colpo di scena: si squarcia finalmente il sipario. Ecco finalmente materializzarsi davanti agli occhi degli elettori di sinistra la realtà dei fatti.
E così, incassata l’ennesima umiliante sconfitta, Bersani (dimissionario) e i suoi si recano al Quirinale, e sconfortati fino alla disperazione, chiedono a Napolitano il sacrificio di accettare un secondo incarico. Cosa peraltro mai avvenuta in sessantacinque anni di storia repubblicana. E questi, ascoltati tutti gli altri leader di partito – salvo i Cinque Stelle, naturalmente – scoglie favorevolmente l’iniziale riserva. A patto che la sua nuova elezione sia preludio per l’avvio di un successivo Governo di larghe intese. Da tutto ciò ne deriva che sabato 20 aprile, nel tardo pomeriggio, il Parlamento riunito per la sesta votazione, proclama Giorgio Napolitano nuovo Presidente della Repubblica. L’87enne esponente del vecchio PCI, in Parlamento dal 1953, si conferma dunque Capo dello Stato tra gli applausi di giubilo della quasi totalità dell’emiciclo. Al termine del mandato avrà la tenera età di 95 anni. Dai banchi del Pdl i deputati guardano al Silvio come vero vincitore della partita e gli tributano gli onori del grande statista. Bersani invece, capo chino e occhi gonfi di commozione, gusta l’amaro calice della sconfitta.
Fuori da Montecitorio esplode la protesta. L’Italia nelle ultime elezioni ha chiesto il cambiamento? Ecco pronto un bel Napolitano Bis fino al 2020. Gli italiani hanno bocciato il Governo dei Professori e tutta l’ammucchiata che l’ha sostenuto? No problem: a breve un esecutivo di larghe intese, magari con a capo l’ottimo Amato.
Ma come si è giunti a tutto questo? Tutto nasce da un problema mai risolto nel Partito Democratico, ovvero dalla presenza delle diverse anime e correnti presenti al suo interno. E così diametralmente opposte le une alle altre. Riformisti, liberal, Renziani, D’Alemiani, Bersaniani, Veltroniani, Giovani Turchi: questo partito è un insieme raccogliticcio di gruppi di persone che hanno ben poco in comune tra di loro. E lo si è visto nelle votazioni. “Un partito – come dice il Garzanti – è un’associazione di cittadini mirante allo svolgimento di una comune attività politica”. Cosa c’è rimasto di tutto ciò, in un partito incapace perfino di eleggere un proprio rappresentante al Quirinale? Il problema più grave tuttavia, al di là di tutte queste guerre intestine, risiede nella leadership. Bersani ha sbagliato tutto: non ha coinvolto il partito nelle decisioni; ha seguito una linea politica e nel breve volgere di una notte, ha deciso di cambiarla radicalmente; ha ignorato il dissenso tra le sue fila; si è umiliato di fronte ai Cinque Stelle e poi, nel momento di raccogliere il nome di Rodotà, gentilmente offerto dagli stessi su un piatto d’argento, si è girato verso il Silvio. Raramente mi è capitato di osservare un capo alle prese con tanti errori messi in fila uno dietro l’altro. Crozza ha riassunto tutto ciò in una frase: “Ma chi era il consigliere di Bersani: Schettino…?”. E stiamo parlando di un uomo che come ministro aveva fatto un ottimo lavoro. Bersani è un uomo poco comunicativo, senza grossa presenza scenica, sostanzialmente privo di carisma, ma è una persona onesta e perbene. Non si spiegherebbe altrimenti il travaglio interiore dimostrato in questi giorni e ancor più durante l’elezione di Napolitano. Ma a fronte di tutto ciò, l’errore più grosso da lui commesso, sta nel non aver allontanato da se gli avversari. Una volta vinto il congresso, sarebbe stato suo diritto e dovere, fare piazza pulita del dissenso dimostrato verso di lui. Pur nel rispetto delle idee e delle opinioni altrui, un capo non può permettersi di avere una spina conficcata nel fianco, non può consentire che i suoi stessi uomini lo pugnalino alla prima occasione. Non è lecito, ed è proprio c’ho che è avvenuto. Se Bersani fosse stato lungimirante, avrebbe fatto chiarezza all’interno del partito: forse avrebbe perso una fetta di elettorato, ma non sarebbe andato incontro alla sua fine a alla fine rovinosa dell’attuale sinistra. Scrive Machiavelli: “Non è di poca importanza a un Principe la elezione de’ ministri, li quali sono buoni o no, secondo la prudenza del Principe. E la prima coniettura che si fa di un signore, e del cervel suo, è vedere gli uomini che lui ha d’intorno; e quando sono sufficienti e fedeli, sempre si può riputarlo savio, perché ha saputo cognoscergli sufficienti e mantenerseli fedeli. Ma quando siano altrimenti, sempre si può fare non buono giudizio di lui; perché il primo errore che e’ fa, lo fa in questa elezione”. E poco più oltre: “Ma come un Principe possa cognoscere il ministro, ci è questo modo che non falla mai. Quando tu vedi il ministro pensare più a sé, che a te, e che in tutte le azioni vi ricerca l’utile suo, questo tale così fatto mai non fia buon ministro, né mai te ne potrai fidare; perché quello che ha lo Stato di uno in mano, non deve mai pensare a sé, ma al Principe; e non gli ricordare mai cosa, che non appartenga a lui”. Esattamente il contrario di tutto ciò che abbiamo visto in questi giorni.

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