Prova


Non preoccuparti della pioggia, lasciala cadere” (Marco Brignoli, Rifugio Baroni al Brunone, Sentiero delle Orobie Orientali)

lunedì 11 marzo 2013

Visite (fiscali) non gradite

In questi giorni televisioni, radio e giornali hanno alluvionato il povero cittadino italiano con le vicende processuali di un importante uomo politico. Stando alle ricostruzioni dei cronisti (che per definizione sono fazioni e comunisti) l’imputato avrebbe avanzato in sede dibattimentale l’impossibilità di presenziare in aula a causa di una grave malattia debilitante. Ma i giudici (faziosi e comunisti anche loro) non hanno creduto né a lui, né ai luminari che hanno stilato il bollettino medico e, di conseguenza, hanno pensato bene di mandare una visita fiscale all’imputato. E scandaloso a dirsi, l’esito della visita ha rivelato che la malattia addotta dall’imputato non costituisce un legittimo impedimento assoluto alla partecipazione in aula. Obbrobrio, scempio giuridico, attentato alla democrazia: questo l’urlo lanciato dai supportes dell’importante uomo politico. Com’è possibile arrivare a tanto? Allora neanche la malattia esime più dalle grinfie della giustizia…? Cosa deve fare un poveraccio per avere un po’ di umana pietà? Domande retoriche, rimaste prive di risposta. E dunque prossimamente gli sfortunati cittadini dovranno rassegnarsi ad assistere alla comparsa in aula dell’imputato in barella. Stile Mubarak. E a quel punto, come diceva Flaiano, la situazione diventerà grave, ma non seria.
Questa storia mi ha fatto tornare in mente un vecchio episodio a cui ho assistito personalmente. Da anni vivo in una zona residenziale, sorta alle porte di una città di provincia. Piccoli fabbricati, villette a schiera, ambiente tranquillo. Qualche tempo fa accanto a me viveva una famigliola: lui commesso viaggiatore, piccolotto, di origini meridionali, ma fortemente impegnato nel difficile processo d’integrazione (parlava un po’ come Maurino Di Francesco, l’attore che cerca grottescamente di esprimersi in milanese, ma resta pur sempre tragicamente un immigrato di seconda generazione); lei impiegata, un donnone di circa un metro e ottanta centimetri per novantadue chilogrammi di peso vivo - simile ad Ave Ninchi - ; un figlio piccolo e taciturno. Il capofamiglia, come detto, passava gran parte del suo tempo seduto in macchina per lavoro, ma appena aveva un momento libero, cercava di dedicarlo alle relazioni umane con gruppi locali. Il suo ambiente naturale era il bar “Da Romolo”. E come spesso accade, la sua presenza era un tocco di eccentricità in un contesto fortemente chiuso e provinciale. Egli, in altre parole, veniva sì accolto, ma con il rango del paria, dell’ultimo arrivato, del cittadino di seconda classe. Questi tuttavia faceva finta di non vedere tutto ciò, ed anzi ancor di più si esercitava nella complessa pratica dell’omologazione, con tanto di esilaranti espressioni dialettali malamente raffazzonate. Una volta, nel cuore della notte, lo sentii piangere disperato di là del muro: la sua camera da letto confinava purtroppo con la mia. La moglie cercava di consolarlo e provava a capire cosa fosse accaduto, ma egli, ubriaco all’inverosimile, biascicava parole incomprensibili. Poi ad un tratto la nebbia si diradò e s’intuì che aveva perso il portafogli. La moglie gli chiese dove, come. Ed egli, tra i forti lai, raccontò che era stato all’osteria con gli amici e che all’improvviso si era accorto di non avere più con sé il portafogli. Tredicesima mensilità compresa. A parte l’irritazione di dover sentire uno strazio simile alle quattro di mattina, pensai subito che i suoi simpatici amiconi di bevute gli avessero tirato un brutto tiro. Forse non è andata così, magari se l’è perso andando al cesso, oppure entrando o uscendo dall’auto: chi può dirlo? Ad ogni modo da quel giorno in poi il poveretto, per quanto ne so io, smise di frequentare l’allegra combriccola e cominciò a vivere un rapporto più profiquo con il vicinato. Profiquo e conveniente aggiungerei. Quando si cimentava infatti in lavori di piccolo giardinaggio, bricolage o altro, non si risparmiava mai di chiedere in prestito zappette, rastrelli, pinze, forbici, tagliasiepi. Anche se poi, molto opportunamente, faceva rilevare la scarsa qualità degli oggetti prestatigli: “Si però…, questa tagliasiepi è davvero troppo pesante…”. Tanto che a quel punto ci si sentiva necessariamente obbligati a investirlo di responsabilità future: “In effetti…! La prossima volta che devo comprare qualcosa chiedo la tua preventiva consulenza. Va bene così?”. Dopo qualche tempo, venne ad abitare dalle nostre parti una famiglia africana. Lui era un medico, un uomo distinto e ben educato; lei una giovane donna, alta, austera, bella come una principessa e drappeggiata con gli abiti tradizionali del suo paese. Avevano un paio di figlie e purtroppo poca confidenza con gli abitanti del borgo. Abitanti peraltro abituati a vedere africani solo quando questi suonavano il campanello di casa per vendere qualche mercanzia. E quando ciò accadeva, la maggior parte degli usci restava desolatamente sprangata, o al massimo si apriva veloce una finestra per un rifiuto sbrigativo. Ancora oggi succede la stessa cosa, ed anzi, complice la crisi che ha incattivito la società, spesso si sente anche qualche improperio d’accompagnamento: “Vai a lavorare, barbone…”.
Ora avvenne che il mio triste vicino pensò bene di mettersi sotto cassa mutua per un certo periodo. Non so di cosa soffrisse esattamente - anche perché pur non disdegnando di sapere i fatti altrui, rarissamente raccontava i propri - , ma a me pareva che tutto sommato stesse benone. Un disgrazziatisso giorno tuttavia, il suo datore di lavoro, esasperato per la lunga assenza del dipendente, decise di mandargli la visita fiscale. A quel tempo studiavo e non avendo obbligo di frequenza all’Università, me ne stavo comodamente a casa. Intorno alle dieci di quella mattina suonò il campanello di casa del vicino: era estate ed essendoci tutte le finestre aperte, udii tutto perfettamente. Curioso come un bonobo mi affacciai alla finestra: si trattava del medico di colore nostro vicino. Dalla finestra accanto sentii il mio vicino affacciarsi: “No guardi, abbiamo già dato. Grazie”. Rimasi senza parole: il poveraccio evidentemente non aveva capito un emerito piffero. Il campanello suonò nuovamente e dopo qualche attimo di silenzio si udì un ciabattere veloce e irritato: “Ancora tu? Ti ho già detto che non ho bisogno di niente. Vattene o chiamo i Carabinieri…”. Al che il tipo disse assai educatamente: “Sono il medico fiscale…”. Il vicino agguantò la borsa dell’acqua calda e si precipitò giù dalle scale per aprire la porta. La visita durò pochi minuti. Il giorno dopo tornò a lavorare.

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