Prova


Non preoccuparti della pioggia, lasciala cadere” (Marco Brignoli, Rifugio Baroni al Brunone, Sentiero delle Orobie Orientali)

martedì 19 febbraio 2013

Rimettete a posto il lavatoio

Domenica scorsa, approfittando della bella giornata di sole, ho fatto un giro in bicicletta. Certo l’aria era ancora fredda e i postumi dell’influenza non del tutto smaltiti, ma quando il richiamo della strada si fa sentire, non c’è verso di resistergli. E così mi sono bardato di tutto punto, ho messo su tutto ciò che era possibile indossare senza perdere ovviamente in eleganza, e mi sono avviato lungo un percorso breve, ma paesaggisticamente assai remunerativo, come usano dire le guide turistiche dei nostri giorni. D’altra parte il bello di vivere in una città di provincia è proprio questo, vale a dire basta allontanarsi di qualche chilometro dal centro e subito ci si immerge nella bellezza della natura. L’alto cremasco poi, la zona in cui vivo, è caratterizzato da enormi distese pianeggianti di campagna - quasi esclusivamente coltivate a mais - , abbondanti corsi d’acqua (fiumi, navigli, rogge e fontanili) lungo gli argini dei quali stanno proliferando magnifiche piste ciclabili, e paesini graziosi - a volte poco più che dei borghi - immersi nella quiete del fuori dal tempo. Quando esco in bicicletta durante la bella stagione cerco di fare sempre dei percorsi circolari, degli ampi giri a stella lungo le strade basse di campagna, quelle snobbate dal traffico automobilistico. A volte, quando “sento la gamba”, riesco a percorrere anche novanta o cento chilometri nell’arco di un pomeriggio senza quasi incrociare una macchina. L’altro giorno però, dato che ero fermo da alcuni mesi, non ho voluto esagerare e così ho pensato bene di fare non più di una trentina di chilometri. Mi sono bastate poche pedalate per capire di essere completamente fuori forma: fiatone tipo mantice, tachicardia maligna, vista annebbiata. Ho scalato subito di marcia e, piano piano, ho cercato di riguadagnare un minimo di contegno ciclistico. Col passare dei minuti l’organismo ha cominciato a girare meglio, la respirazione si è regolarizzata e anche il cuore ha smesso di picchiare furiosamente. E più passava il tempo, più si faceva largo dentro di me quella gioia antica di andare in bilico sulle due ruote, di mordere l’aria che sa di fresco, di correre libero come un uccello del cielo. E come ogni volta che ricomincio a pedalare dopo un lungo periodo di stop, mi sono tornate in mente le parole di Pantani, pronunciate al microfono del giornalista che raccolse le sue prime dichiarazioni, dopo l’incidente stradale che l’aveva fermato per mesi: “Avevo dimenticato la felicità che si prova andando in bicicletta”. Ed in effetti la bicicletta non è solo un mezzo di trasporto, è molto di più. È una macchina del tempo che ti riporta a quando eri bambino, a quando per la prima volta assaggiavi l’ebbrezza della velocità, il gusto della temerarietà, il sapore dei nuovi orizzonti, della libertà di movimento nel tempo e nello spazio. E dunque dell’emancipazione dalla limitatissima età infantile che relegava in luoghi finiti. E così l’altra mattina ho iniziato a percorrere un tragitto non troppo lungo, una strada affrontata decine di volte, che si snoda lungo una serie di paesini uniti tra loro da viottoli secondari di campagna. Mi piaceva l’idea di ripassare da un piccolo borgo visto l’ultima volta in autunno. Quella volta la mia attenzione era stata rapita da alcuni operai intenti alla sistemazione di una piazzetta. In quel piccolo angolo, di quel minuscolo agglomerato, c’è un antico lavatoio con tanto di pensilina. Uno scorcio incantevole, un reperto del passato giunto miracolosamente fino ai nostri giorni. Anche a Milano ce n’è ancora qualcuno, nella zona dei navigli (meraviglioso il “vicolo dei lavandai” presso la chiesa di San Cristoforo). E così mi ero fermato e, mettendo le mani dietro la schiena come da prassi, avevo cominciato a guardare gli operai a lavoro. C’erano naturalmente un nugolo di anziani pensionati ad assistere tutt’intorno e qualcuno dava anche consigli non richiesti su come metter giù la putrella. Gli operai chiaramente facevano finta di niente e non davano un minimo di soddisfazione. Era bella quella scena: buttata giù la catapecchia che ingombrava la visuale, ora finalmente la piazzetta emergeva in tutta la sua bellezza, mettendo al centro dell’attenzione quel piccolo lavatoio, dove generazioni e generazioni di donne avevano faticato lavando i panni nelle acque della roggia. Non ci si fa mai caso, ma ci fu un tempo in cui si lavava tutto a mano. E non è poi un’epoca così remota come si possa immaginare. Le prime lavatrici arrivarono in Italia solo col boom economico, vale a dire cinquant’anni fa. Prima di allora tutto avveniva a forza di braccia. Mi raccontava mio padre che un giorno la madre, non sentendosi molto bene, chiese a lui di fare il bucato. Egli in quel periodo era nel pieno della sua vigoria giovanile e quel lavoretto, che tanto pesava sulle spalle della madre, sarebbe stato per lui una bazzecola. Tanto più che ogni giorno egli si dedicava al body-building. E così prese la gerla dei panni e si mise all’opera: sbatteva, strofinava, strizzava, e poi risciacquava e ricominciava. Una furia ceca. Quando alla fine del cimento andò dalla madre per mostrarle orgoglioso l’opera compiuta, questa si accorse con orrore che sulle lenzuola erano comparsi degli strappi osceni. Tanta e tale era stata la foga del giovanotto, che il bucato era ridotto quasi a brandelli. Certo l’arrivo della lavatrice risolse molti problemi alle massaie. I miei nonni materni acquistarono la prima lavatrice sul finire degli anni ’60. Era un oggetto così prezioso che mia nonna prima di metterci dentro i panni, li lavava a mano: perché sennò poi si sporcava il cestello. Fatto il carico, si sedevano entrambi davanti all’oblò e guardavano, come se si trattasse di un film alla televisione. E se poi la macchina smetteva di girare, magari per caricare acqua, loro cominciavano ad entrare in angoscia: «Forse si è rotta… – diceva lei – Tu che dici?». «E che ne so io – replicava lui agitato – , te l’avevo pur detto di lasciar perdere queste diavolerie». Al che lei si alzava dalla seggiola e andava a dare un pugno non troppo forte sul ripiano superiore della lavatrice. E lui, guardandola male, si apprestava a redarguirla. Salvo che poi il cestello miracolosamente ricominciava a girare, cosicché entrambi si rasserenavano per ulteriori cinque minuti di risciacquo delicato. Ma non divaghiamo troppo e torniamo al nostro lavatoio. Domenica dunque ero proprio curioso di vedere com’era venuta la mia piazzetta: in tutti questi mesi sicuramente i lavori erano stati ultimati e io avrei finalmente ammirato quello scorcio meraviglioso. Quando sono giunto al borgo, ho girato come sempre l’angolo e mi sono immesso sulla via principale, ma non ne ho riconosciuto la prospettiva. Mi sono fermato e ho voltato il capo in ogni dove per cercare di capire se mi trovassi effettivamente dove pensavo di essere. Non c’erano dubbi. Mi sono inoltrato più avanti e là dove prima c’era il mio lavatoio, mi sono accorto con orrore che ora c’era una palazzina di quattro o cinque piani, color rosa salmone. Oscenamente ingombrante e fuori luogo in quel contesto. Ho cacciato un urlo soffocato di sdegno. Sono sceso dalla bicicletta e mi sono avvicinato alla ricerca di una qualche traccia di quell’antichità perduta. Niente di niente: tutto spianato, ricoperto, la roggia tombinata e affidata per sempre alla memoria degli anziani. Di quella piccola, poetica porticina del tempo, non c’era rimasto più nulla. Chiusa definitivamente, come se non fosse mai esistita. Così come tutte quelle donne che per secoli si inginocchiarono su quelle sponde scoscese per lavare i panni di una vita. Mi è salita improvvisa una grande rabbia. Chi può aver autorizzato tale scempio? Chi è stato quel bifolco che ha progettato questo delitto? Possibile che a nessuno sia venuto in mente che abbattendo a colpi di piccone quel piccolo simbolo della nostra storia, non s'è fatto altro che cancellare una parte del nostro passato? Possibile che non si riesca a capire che senza ricordi, senza radici non siamo che granelli di sabbia esposti al vento? Sono stufo, stufo marcio di sentirmi dire che l’utile e il conveniente viene sempre prima di ogni altra cosa. Non è vero, è una fesseria. Tirate giù quell’obbrobrio e rimettete a posto il lavatoio. Ora, subito.

Nessun commento:

Posta un commento