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Non preoccuparti della pioggia, lasciala cadere” (Marco Brignoli, Rifugio Baroni al Brunone, Sentiero delle Orobie Orientali)

mercoledì 30 gennaio 2013

I treni arrivavano in orario…

Domenica scorsa ricorreva il Giorno della Memoria. Il 27 gennaio 1945, sessant’otto anni fa, le truppe sovietiche entravano ad Auschwitz. Dalla Vistola all’Oder era stata un’avanzata rapida, le armate della Stella Rossa, spinte dal vento gelido della steppa, aveva travolto i rimasugli della potente Wehrmacht e si apprestavano a varcare i “sacri confini” del Terzo Reich. Tre mesi ancora di inutile spreco di vite e la guerra sarebbe finita.

I primi ad entrare nel campo furono gli uomini della LX Armata, comandati dal generale Kurockin. Davanti a loro trovarono circa settemila prigionieri ancora in vita. Nei locali abbandonati in tutta fretta furono rinvenuti migliaia di capi d’abbigliamento ben ordinati, oggetti di varia utilità appartenuti agli internati al loro arrivo, e otto tonnellate di capelli umani imballati e pronti per il trasporto.
Durante le celebrazioni avvenute a Milano, presso la Stazione Centrale – dalla quale partivano i convogli dei deportati diretti in Germania – , la stampa ha raccolto le dichiarazioni di alcuni eminenti esponenti politici italiani. Qualcuno, non si sa bene con quale finalità, ha affermato che il Fascismo, al di là di qualche errore grave, tipo le Leggi Razziali del 1938 e l’entrata in guerra a fianco di Hitler, ha fatto cose buone. Ora, premesso che quella non era né la sede né tantomeno la circostanza più opportuna per fare simile dichiarazione, occorre fare un po’ di chiarezza storica. È indubbio che nell’arco di vent’anni il regime fascista abbia realizzato qualcosa di positivo: nemmeno il più acceso partigiano della Brigata Garibaldi potrebbe negarlo. Ma da qui a ribaltare le proporzioni ce ne vuole. Ci furono politiche in campo economico, amministrativo e sociale di indubbia rilevanza, venne portata avanti un’idea di Stato forte, autocratico e indipendente dalle potenze straniere; negli anni ’30 ci fu una grande vivacità culturale nella letteratura e nelle arti figurative, nell’architettura, nel design industriale. Questa è storia, non un’opinione. Inoltre per moltissimi anni gli italiani furono tutti fascisti o quasi. Non per nulla lo storico De Felice, nell’ambito della sua monumentale opera, ha scritto un volume intitolato Gli anni del consenso. Gli italiani si ribellarono al Fascismo sostanzialmente con l’arrivo della guerra, con la prospettiva della catastrofe finale, in un clima da “rompete le righe”. Ennio Flaiano diceva: “Gli italiani sono sempre pronti a correre in soccorso dei vincitori”. Prima di allora la battaglia contro la dittatura era stata portata avanti solo da un numero esiguo di irriducibili, disposti a sacrificare la libertà e spesso la vita, a favore di un’ideale.
Di certo la propaganda era molto agguerrita, la popolazione irreggimentata, controllata e gli oppositori silenziati, ma qualcosa doveva pur piacere alle masse perché il consenso fosse così vasto a tutti i livelli, anche a quello operaio e, ancor più, contadino, specie tra i giovani. Ma a fronte di tutto ciò non si può dimenticare che si viveva pur sempre in uno stato totalitario, repressivo, violento, fatto di soprusi e ingiustizie di Stato.
Quando ero piccolo sentivo spesso i miei nonni parlare della guerra e del Fascismo. Raccontavano sottovoce, con parole accorte e misurate, come se temessero – a distanza di oltre mezzo secolo – che qualche orecchio indiscreto potesse ancora ascoltare e riferire. Eppure non erano frasi di “sovversivi bolscevichi”, tutt’altro. Spesso si trattava di elogi (“Quanto erano belle quelle parate, quanta forza e bellezza veniva fuori da quei volti di giovani in divisa…”), di ricordi che portavano nostalgia. D’altra parte quelli erano pur sempre gli anni della loro gioventù. Altre volte si raccontava dei bombardamenti – Foggia fu quasi rasa al suolo per via del suo snodo ferroviario e del suo aeroporto – dell’occupazione tedesca. Ho ancora nella mente l’espressione spaventata di mio nonno materno quando parlava delle sirene contraeree, delle esplosioni e soprattutto dei soldati della Wehrmacht, resi ancora più feroci dopo il “tradimento” italiano. Giorgio Bocca ne Il Provinciale dice “Pur sconfitti, facevano ancora paura”. E c'è da credergli.
L’altro nonno invece, quello paterno, parlava poco della guerra. Egli aveva visto dritto negli occhi quell’orrore, al fronte, prima in Albania e dopo in Grecia. E chi sopravvive a tragedie come queste, non ama parlarne. Uno dei pochi episodi che rammento riguarda una parata militare. L’Italia era ancora in uno stato di non-belligeranza, ma la propaganda fascista già preparava il terreno per il discorso di Palazzo Venezia, quello del 10 giugno 1940. Mio nonno quel giorno, così come tutti gli altri concittadini, attendeva il transito del corteo con le autorità del regime. Era pur sempre un evento mondano, un rito di popolo che si ripeteva e faceva parte della cultura del tempo. Ad un tratto una manata da dietro gli fece volare il cappello: «Giù il cappello davanti al Fascio» gridò il “capostrada” fascista, una sorta di ras di quartiere, delegato dal partito a sovrintendere all’ordine e alla disciplina. Mio nonno, sebbene in preda alla rabbia per quell’affronto, non reagì. Egli era un uomo forte, violento, era stato sott’ufficiale dell’esercito per diversi anni: insomma era una persona per nulla avvezza a tollerare oltraggi. Eppure, messo di fronte a quell’autorità becera e arrogante, al cospetto del sopruso legittimato dal diritto della forza, non ebbe il coraggio di ribellarsi. Perché ribellarsi, infondo voleva dire mettersi contro il regime e il regime era lo Stato. L’affronto oltretutto, provenendo da un tale comunemente chiamato “u sgubbatill” – cioè il gobbetto – per via di un difetto alla colonna vertebrale, era ancor più difficile da digerire in anni di “sabato fascista” ed esaltazione della forza fisica delle italiche genti.
Qualche tempo fa, girando su internet, mi sono imbattuto in una vecchia fotografia di fine anni ’30: ritrae un gruppo di persone, metà in divisa d’orbace, metà in borghese, riuniti intorno ad un paio di bandiere italiane. La didascalia dice “Gruppo di fascisti davanti alla Caserma Miale - Foggia”. Ebbene, tra costoro, quarto da destra e in prima fila, compare un uomo in divisa, con un fez sul capo. Piccolo di statura rispetto a tutti gli altri, appare curvo in avanti, come se portasse un pesantissimo fardello sulla schiena. Non ne ho la certezza matematica, ma ci sono buone probabilità che costui sia quel famoso “sgubbatill” che fece volare il cappello di mio nonno.
È poca cosa rispetto alla tragedia che ha investito l’umanità in quegli anni, me ne rendo conto. Di fronte ai campi di sterminio, ai bombardamenti a tappeto, alla ritirata di Russia e tutto il resto, un affronto come questo è un’inezia insignificante, un battito di ciglia nell’Apocalisse. Ma anche un piccolo episodio di questo genere, può aiutare a capire cosa sia stato il Fascismo in Italia. Un’epoca in cui la libertà personale, la dignità e la giustizia divennero parole prive di significato, vuote e senza valore. Ecco cosa fu prima di ogni altra cosa il Fascismo.
Che poi i treni arrivassero in orario è tutto da dimostrare. E in ogni caso aveva ragione Troisi: “Per fare arrivare i treni in orario, mica c’era bisogno di farlo Capo del Governo (Mussolini: ndr.), bastava farlo Capostazione” (Le vie del Signore sono finite, 1987).

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