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Non preoccuparti della pioggia, lasciala cadere” (Marco Brignoli, Rifugio Baroni al Brunone, Sentiero delle Orobie Orientali)

lunedì 7 gennaio 2013

La volta che decisi di non avere più cani

Un mio caro amico ha scritto un post su Cesar Millan, lo psicologo dei cani più famoso del mondo. Pare (e dico pare dal momento che non guardo più le reti Mediaset da almeno un decennio) che il programma Striscia la notizia abbia mandato in onda un servizio su cotanto scienziato, e sui suoi raffinati metodi educativi, basati sull’utilizzo di collari elettrificati, violenze fisiche e traumi psicologici, filosofia alla base della quale l’animale sarebbe solo “una macchina da domare e con la quale il proprietario non ha nessun ruolo relazionale”.
Nel post di questo mio amico, egli ricorda un episodio della sua vita, quando il suo cane, lasciato in una pensione durante le vacanze estive, prese a ringhiargli contro, inferocito per essere stato abbandonato. Sono pagine struggenti – che solo coloro che hanno condiviso un pezzo della loro vita con un animale riescono a comprendere – che hanno riaperto una pagina della mia vita che avevo volontariamente chiuso a doppia mandata, uno di quei periodi che ti lasci alle spalle, che vuoi dimenticare alla svelta perché troppo carichi di sofferenza e dolore.
Quando ai primi anni ’90 mi trasferii con la famiglia da Sesto San Giovanni a Crema, la nostra vita cambiò radicalmente. Da un piccolo appartamento di città ci ritrovammo in una grande villa di campagna, con tanto di giardino, orto e tanto spazio. E come naturale conseguenza di questo mutamento agreste ci fu l’arrivo di un cane. Un po’ per difesa, un po’ per compagnia in quel nuovo ambiente in cui tutto era più o meno estraneo. Mia madre da sempre aveva avuto una paura atavica e irrazionale dei cani e quando per strada ne incrociava uno, anche di taglia minuscola, cambiava aria: il solo pensiero di averne un esemplare per casa la terrorizzava. Ci volle un’enorme opera di convincimento per farle non già digerire l’idea di prenderne uno, ma soltanto per andare a dare un’occhiata ad una cucciolata di un privato, che abitava poco lontano da noi. Si trattava di boxer: in un ampio recinto gironzolavano e saltellavano sei o sette cucciolotti vispi e allegri, tutti in cerchio intorno a Dea, la loro mamma, orgogliosa e spaesate per tutta quella confusione intorno a lei. Noi tutti – cittadini per nulla avvezzi al miracolo della natura – ammiravamo quello spettacolo con occhi sgranati, carichi di entusiasmo e tenerezza, e non riuscivamo a proferire una sola parola. Perfino mia madre, di fronte a quella meraviglia, cominciò ad intenerirsi, a provare sentimenti d’affetto. E così, bastarono pochi attimi per decidere che uno di quei cagnetti sarebbe entrato a far parte della nostra famiglia. Osservammo con attenzione tutti gli esemplari e alla fine decidemmo all’unanimità per quello più grosso e vispo. Dea si accorse subito del nostro interesse per quel cucciolo e cominciò ad essere irrequieta. Non faceva che frapporsi tra lui e noi, ce lo celava alla vista, temendo che potessimo portarglielo via. Quando con la forza l’allevatore prese il cucciolo e lo separò dalla madre e dai fratelli, costoro cominciarono a correre disperati lungo il perimetro del recinto alla sua ricerca, emettevano flebili e strazianti guaiti, si alzavano sulle zampe per cercare di individuarlo. Dea era letteralmente impazzita, saltava, abbaiava, schiumava rabbia e disperazione. Una reazione che aveva qualcosa di straordinariamente umano, misteriosissima e sconvolgente per persone che non avevano mai avuto a che fare con degli animali. E che ci fece seriamente vacillare nel proposito di portarglielo via. Il cucciolo, che poi chiamammo Argo, era frastornato, disorientato, e in macchina ebbe anche un rigurgito che ci fece inorridire. Col tempo divenne il punto centrale della famiglia, il fulcro intorno al quale si svolgeva la nostra vita. Sembra un’assurdità, una sciocca umanizzazione di un rapporto che dovrebbe tenere ben saldo il concetto di uomo-animale, ma è quello che avvenne. Ogni nostra attività, ogni viaggio, incontro con parenti, vacanze e tutto il resto aveva come incombenza primaria la sua sistemazione. Per il meglio, s’intende. Il solo pensiero di rinchiuderlo in una pensione, agli "arresti domiciliari", privato della nostra presenza e del nostro affetto, era inconcepibile. E mia madre, che pure per tutta la vita aveva avuto una fobia invereconda dei cani, prese ad amarlo come un figlio.
Quando tornavo da lavoro, Argo cominciava a saltarmi intorno, consapevole che l’avrei portato in giro per la campagna. Mi sedevo sugli scalini e mettevo su gli scarponi, e lui, nell’attesa mi poggiava il suo testone sulla spalla destra. E sentivo di volergli un bene immenso, nonostante alle volte quelle uscite mi costassero una gran fatica.
Morì un paio d’anni dopo, per un’infezione virale. Era un cane forte, grande, di una taglia gigante. Pesava più di quaranta chili, ed era il terrore dei cani del quartiere e il mio orgoglio. Una volta affrontò il cattivissimo cane lupo di un vicino, un autentico Ammazzasette, e afferrandolo per la gola, si preparava a strozzarlo. Solo grazie al mio intervento – lo sottrassi alla zuffa tirandolo per le zampe posteriori – evitai che ne facesse una vittima.
Si ammalò improvvisamente, e nonostante l’intervento del veterinario, non ci fu nulla da fare. Lo portammo a casa di peso. La sua forza se n’era andata, le sue zampe non lo reggevano. Cercava spazi d’intimità, di solitudine, come alla ricerca del pudore della morte. Spirò tra le mie braccia, avvolto dal nostro affetto e dalle sue cose. Lo piangemmo come una persona di famiglia. Per la prima volta vidi mio padre non solo piangere, ma singhiozzare. Lo seppellimmo all’alba nella campagna, dopo una notte insonne.
I giorni che seguirono furono mesti, funerei e senza parole. Trascorsa una settimana, ci chiamò la padrona della cagna che Argo aveva coperto qualche settimana prima. Tra qualche tempo ci sarebbe stata una nuova cucciolata. Andò a finire che il primogenito maschio lo prendemmo noi. Alla morte sostituivamo la vita. E anche il nome fu lo stesso. L’unica differenza fu che ad Argo Junior non facemmo tagliare le orecchie. Crebbe forte, scattante, meno imponente del padre, ma più allegro e giocherellone. Una vera gioia di vivere. Visse tredici anni, un’eternità per un boxer.
Negli ultimi tempi che lo portavo in giro per la campagna, mi faceva capire che non ce la faceva, puntava presto il muso verso casa. Una volta si adagiò per terra e boccheggiando mi guardava, come a chiedere aiuto, sfinito, vinto dalla vecchiaia. Quel portento di forza animale si stava lentamente spegnendo, senza capirne la ragione. Lo presi in braccio e con la morte nel cuore lo portai a casa. Qualche settimana dopo spirò. In una clinica, solo nel suo box, a seguito di una complicata operazione. Al mattino presto il veterinario ci chiamò, comunicandoci che se n’era andato. E a me restò lo sgomento di non essere stato con lui in quel momento, di averlo lasciato morire solo, abbandonato, disperato. E forse anche per questo decise di lasciarsi andare.
Non prendemmo altri cani. La misura del dolore era colma.
E così, al termine di questo tuffo nel passato doloroso vorrei dire solo una cosa a Cesar Millan, psicologo per cani: “Egregio dottore, ma lei ha mai avuto a che fare con un animale? Ne ha mai osservato il comportamento, le manifestazioni d’affetto, la gioia, il dolore. Ha mai provato apprensione per lo stato di salute di un animale, l’ha mai assistito? È mai spirato tra le sue braccia un essere vivente che ti guarda consapevole che tu sei il suo dio?”. Temo proprio di no. Quando smetteremo di stupirci della straordinarietà degli animali che ci circondano, quando ci renderemo conto che non sono oggetti semoventi e privi di sentimenti, quando ci accorgeremo che essi, al fine sono come noi, forse riusciremo a capirli veramente. E a rispettarli per ciò che sono.
“Gli animali non solo provano affetto, ma desiderano essere amati” (C.H.Darwin).

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