Prova


Non preoccuparti della pioggia, lasciala cadere” (Marco Brignoli, Rifugio Baroni al Brunone, Sentiero delle Orobie Orientali)

giovedì 20 dicembre 2012

Il calice della fatica

Per molti, troppi anni ci siamo dimenticati degli operai. Ci hanno fatto credere che non esistessero più, che si fossero estinti come foche monache insieme alle loro fabbriche. Ho vissuto la mia infanzia, e parte dell’adolescenza, a Sesto San Giovanni - la cosiddetta “Stalingrado d’Italia” - crescendo al ritmo delle sirene degli stabilimenti che chiamavano turni di lavoratori. Un piccolo agglomerato contadino alle porte di Milano, divenuto in pochi anni metropoli industriale, manifesto assoluto del boom economico.
Città dormitorio prima, periferia anonima di fatica, speranza e poco altro, e solo dopo comunità vera, unita dal vincolo dell’identità operaia, dal comune sradicamento dalle terre d’origine, dal crogiolo linguistico in cui nessuno era straniero. Questo era la città in cui sono nato e cresciuto, una realtà che aveva tessuto la sua storia, che aveva fatto la lotta per i diritti dei lavoratori, che aveva creato appartenenza, orgoglio e condivisione, e in cui, pur con tutti i problemi ambientali e sociali legati all’industria siderurgica, era comunque bello vivere.
Col tempo però, già a partire dagli anni ’80, questa realtà cambia, e in luogo delle fabbriche mefitiche e inquinanti, ecco comparire enormi palazzoni in vetro e cemento, edifici nuovissimi, avveniristici, stipati di uffici asettici, studi lindi e dal design pratico e razionale, sale convegno comode ed eleganti; e con essi alberghi quattro stelle, negozi hi-tech, fast-food “mordi e fuggi”. Basta con la schiscetta e la fiaschetta di vino del povero operaio polveroso, ora c’è lo snack integrale, l’insalatina salutista, accompagnata dall’acquetta natural, rigorosamente temperatura ambiente. E mentre tutti raccontano questa meravigliosa favola del progresso, la mia Sesto si trasforma, perde la sua identità, si snatura a vantaggio di una realtà fatta di anomia fatua, inconsistente, senza radici, senza storia, in cui ognuno è solo con se stesso, rinchiuso nel suo piccolo universo che si nutre di egoismo e paura del prossimo.
E così per molto tempo ho creduto veramente che la classe operaia fosse scomparsa e che fosse stata consegnata ai libri di storia. Fino a che non mi sono trasferito nella bassa padana. Qui, a dispetto del tanto osannato terziario avanzato, e della crisi economica globale, persiste un forte tessuto produttivo di piccole e medie imprese, soprattutto del settore manifatturiero, che fa la ricchezza della Nazione. Fatto di imprenditori coraggiosi e battaglieri e, udite udite, di operai: specializzati, ma anche generici. I cari, vecchi operai di una volta, quelli che i media avevano dichiarato estinti come i dinosauri del mesozoico. Al bar degli ubriaconi, dove spesso mi intrattengo, ci sono diversi avventori che provengono da questo mondo, e che mi onorano della loro compagnia. A fine giornata ci si trova tutti a bere un calice di vino rosso (anche due) per festeggiare la fine della fatica e per fare “due parole”, come si usa dire da queste parti. Non dico che loro siano meglio di altre persone che frequento abitualmente, questo no, ma neanche peggio: sicuramente li trovo più veri, più sinceri, più legati al concreto, ed in ultima analisi, più vitali. Forse è il lavoro che svolgono a renderli tali, il fatto di essere a contatto con cose reali, con oggetti creati dalle loro mani, di cui vedono la nascita e la realizzazione finale. Fatto sta che, a differenza di coloro che lavorano d'intelletto (o anche solo di concetto), per lo più sempre imbufaliti col mondo intero, questi appaiono rilassati, di buon umore, più spontanei, più veri e quindi più simpatici. E pur nella stanchezza di una dura giornata di lavoro in fabbrica o sui cantieri, fatta di manualità e fatica fisica, riescono a godersi quegli scampoli di felicità che la vita concede loro, molto più di coloro che tornano a casa carichi di sola (si fa per dire) fatica mentale. Tra questi simpatici avventori del bar degli ubriaconi, c’è un tizio, Marietto, che ogni tanto mi regala qualche perla: alcuni anni fa finì a lavorare per un imprenditore che fabbricava copri water in plastica dura. Egli è un tipo coscienzioso, un buon lavoratore, e nonostante avesse pesanti origini meridionali, era stato ben accolto dai padroni fin dal primo minuto di lavoro. D’altra parte si sa che il pregiudizio è duro da estirpare, soprattutto nelle zone più arretrate. Non era tuttavia questo il caso. Trascorso qualche mese, Marietto chiese al titolare dell’impresa se non avesse bisogno di un altro paio di operai. Questi gli rispose affermativamente e così il giorno successivo due bei ragazzotti, sempre originari del profondo sud, si presentarono a colloquio. Nel giro di una settimana erano assunti. Nell’ampia officina c’erano sacchi di plastica in polvere ovunque, mastelli, paioli e grosse presse a caldo che sfornavano copri water a tutte le ore del giorno e della notte (facevano anche il terzo turno). Sulla parete lunga poi, tra gli altri cartelli sull’antinfortunistica, campeggiava una scritta inquietante che era un po’ la filosofia di vita del sagace imprenditore : “Chi non fa la produzione, li paga”. I due nuovi assunti lavorarono senza eccessivo impegno per un paio di giorni, ma poi, a causa di un banale incidente d’auto – senza grosse conseguenze, fortunatamente – si piantarono in malattia per tre settimane buone. Trascorso tale periodo tornarono a lavoro, ma senza quell’assurda e inutile voglia di strafare che caratterizzava i loro colleghi. Un bel giorno il titolare fece una sbraitata mostruosa a tutto il personale perché la produzione era scarsa e non consentiva di rispettare le consegne. E così anche i due scansafatiche, sotto la paventata minaccia di essere lasciati tutti a casa, sentirono il bisogno di darsi da fare. Iniziarono dunque a lavorare a ritmo serrato, ma non avendo dalla loro l’attitudine alla precisione né la meticolosità delle genti del nord, produssero senza grossa cognizione di causa. Uno dei due si avvide che la sua macchina sfornava ciambelle crepate in più punti, storte e brutte da vedere, ma temendo di essere redarguito per lo scarso numero di pezzi eseguiti e soprattutto temendo di dover pagare di tasca propria gli ammanchi (come da ammonimento scritto sul muro), continuò imperterrito, a impilare quegli aborti osceni nelle casse. Il suo compare poi, oltre a lavorare male, lavorava anche poco e così la sua pila era sempre triste ed esangue. Quando a metà mattinata gli operai si riunirono in saletta per la pausa, il titolare scese in officina e cominciò a dare un’occhiata alla produzione. Andò tutto liscio finché non s’imbatté nella cassa degli orrori. Afferrò il primo ciambellone, lo scrutò attentamente da vicino togliendosi gli occhiali da miope, e si soffermò su quelle crepe passandole meticolosamente a pollice. Lo lasciò cadere per terra con fare inespressivo e ne prese un altro: stesso risultato. Ancora uno…! Al quarto tentativo esplose: «E questi sarebbero coperchi fatti a regola…? Ma che cazzo combinate, maledetti stronzi…» e cominciò a lanciare le ciambelle in giro per l’officina. Gli operai non dicevano una parola, spaventati a morte. L’unico che trovò la forza di parlare fu uno dei due compari, il quale rivolto a Marietto disse: «Se prova solo ad avvicinarsi, gli spacco un copri cesso in testa». Furono licenziati tutti e tre per giusta causa.
Per fortuna Marietto trovò subito un nuovo lavoro nel campo della manifattura in resina e silicone. Qui si producevano componenti per tralicci elettrici. Fu subito preso a benvolere sia dal capofficina e che dai colleghi tutti. Uno in particolare, Giacomo, gli dimostrò grande simpatia e non lesinò consigli assai utili per scansarsi la fatica e al contempo ben figurare con i superiori. Egli infatti lavorava a gran ritmo nella prima parte della giornata e, una volta arrivato alla produzione minima richiesta, spegneva la macchina e se ne andava in giro a rompere le palle ai colleghi e fumare allegramente. Ma tutto ciò, va da sé, non si poteva fare. Egli tuttavia conosceva gli orari dei capi e quindi andava sicuro. Un brutto pomeriggio però accadde che il titolare fece una visita inaspettata, e passeggiando per l’officina si avvide che la macchina di Giacomo era spenta e lui assenti. Lo fece chiamare d’urgenza e gli domandò come mai avesse spento la macchina. Ma questi non riuscì a trovare una scusa che fosse una. E dunque, oltre alla cazziata sanguinosa, subì anche una multa nient’affatto piacevole. E così, da quel giorno e per molti mesi a seguire, dovette subire anche il sarcasmo feroce dei colleghi: «Perelli…, ti sei fatto beccare eh…! Bravo».
Per recuperare i punti persi Giacomo decise di fare un po’ di straordinario, anche nel fine settimana. Un sabato mattina tuttavia, nonostante avesse garantito con giuramento solenne la sua presenza al lavoro, non se la sentì proprio di alzarsi dal letto. “Ma sì, chi se ne frega…! Non si accorgeranno neanche della mia assenza…! E poi c’è di mezzo la domenica…, quel babbeo del capofficina se ne scorderà sicuramente”. Fatto sta che il lunedì successivo si presentò al lavoro e non accadde nulla. Anzi il capofficina lo salutò anche cordialmente. Pensava a quel punto di averla sfangata, ma ad un tratto questi tornò sui suoi passi e gli piantò addosso due occhi di fuoco: «A proposito…, come mai non sei venuto sabato?». Giacomo cominciò a farfugliare «… e perché…, e perché…». Cercava disperatamente una fottuta risposta, non voleva fare la fine miserabile della volta precedente. Ma non sortì fuori nulla anche questa volta e il capofficina concluse: «È perché sei un coglione…!».
Ecco, tra un bicchiere e l’altro si parla anche di questo al bar con questi amici. Ed è vita vera, vita che scorre e scola leggera, che pulsa prepotente nelle vene e nelle gole. E che al termine del giorno, e nonostante tutto, urla forte “alla salute”.

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