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Non preoccuparti della pioggia, lasciala cadere” (Marco Brignoli, Rifugio Baroni al Brunone, Sentiero delle Orobie Orientali)

martedì 11 dicembre 2012

Contrario alla pubblica decenza

Qualche giorno fa la terza sezione penale della Corte di Cassazione ha confermato la condanna inflitta a una straniera a pagare una multa di seicento euro per essersi aggirata in luogo aperto al pubblico in abiti troppo succinti (sentenza n.47868). A quanto pare la donna era stata sorpresa da un poliziotto “abbigliata in modo da far vedere le parti intime, in particolare il seno e il fondoschiena”.
Secondo i giudici della Suprema Corte tale comportamento concretizza il reato di cui all’articolo 726 del Codice Penale, vale a dire consiste nel “porre in essere atti contrari alla pubblica decenza”. L’articolo in oggetto – continuano i giudici – “tutela i criteri di convivenza e decoro che, se non osservati e rispettati, provocano disgusto e disapprovazione”.
Come ogni sentenza che ha a che fare con l’etica e la morale, anche questo provvedimento ha suscitato diversi strascichi e polemiche. I moralisti benpensanti hanno esultato di gioia essendo stata punita una “spudorata” che se ne andava per la città ledendo impunemente la pubblica decenza; i libertari e gli anarchici invece si sono indignati, sostenendo che nessuno può essere discriminato per il proprio abbigliamento, che in ultima analisi è espressione del proprio modo di essere: “Ognuno ha il diritto di vestirsi come vuole”. Di fronte a tali notizie resto sempre molto confuso e indeciso, perché trovo del buon e del cattivo in ogni posizione. Se non ponessimo alcun confine alla libertà di comportamento, un’asticella oltre la quale non è lecito spingersi, faremmo del bene o del male alla società? La libertà assoluta, sciolta da qualsiasi vincolo e restrizione, è un valore da difendere sempre e comunque, o dobbiamo pensare a qualche limitazione? A sto punto anche andarsene ignudi come gli aborigeni della Papua Nuova Guinea - indossando al massimo una canna pelvica - potrebbe essere non solo ammesso, ma anche tutelato in quanto manifestazione di libertà personale e di pensiero: “Sono per il nudismo integrale e guai a chi mi obbliga ad indossare le mutande”. Ma dall’altra parte, l’idea di obbligare il cittadino ad indossare abiti che non provochino “disgusto e disapprovazione”, dove può condurci? E soprattutto, che cos’è la pubblica decenza, e chi decide cosa sia decente e cosa invece indecente? Esistono forse delle regole astratte, dei criteri a cui rivolgersi quando ci si trova in difficoltà, o dobbiamo stabilire per legge il numero dei centimetri minimi a cui le sartorie devono attenersi? E ancora, perché non redigere un decalogo nel quale inserire tutti i comportamenti ritenuti indecenti e offensivi della morale? Se non altro faremmo un po’ di chiarezza.
Già, ma la morale per sua natura è un concetto così etereo e fluttuante – nello spazio e nel tempo – che sarebbe compito assai complicato arrivare ad un elaborato organico e razionale. Basta pensare, ad esempio, a tutte le polemiche scoppiate sulla proposta di legge “sul fine vita”. Ciò che per qualcuno non solo è auspicabile, ma anche legittimo, per altri è un’aberrazione. Un tempo esisteva il delitto d’onore: l’uomo che scopriva la moglie in flagrante adulterio era autorizzato ad ucciderla. Oggi tutto ciò ci fa inorridire. Per i talebani dell’Afghanistan è pubblica decenza che le donne indossino il burqa, e giustamente noi fremiamo di sdegno di fronte a tali restrizioni. Ma che ne pensano i talebani del nostro mondo, che ne dicono delle nostre donne, quelle rappresentate soprattutto nelle pubblicità? Quale tra i due modi di vedere il mondo è il migliore? I loro, che rinchiude le donne dentro sarcofagi ambulanti, o il nostro che le espone come quarti di bue in macelleria? Che poi a questo punto sorge anche un altro interrogativo: perché i giudici perseguono le donne discinte per strada e non quelle che appaiono tali in televisione? E quelle sulle spiagge? Come si vede, tutto è relativo, oltreché dal sapore vagamente ipocrita. Occorre rendersi conto che la società è in costante evoluzione, e che ciò che ieri era considerato sconcio e reietto, oggi potrebbe essere ben tollerato ed anzi fare “moda e tendenza”. E viceversa. Se non si entra in confidenza con questo concetto, se non si capiscono – e non si accettano – i continui mutamenti dei valori etici e sociali, che regolano la nostra quotidianità, saremo sempre disperatamente alla ricerca di un metro di giudizio che ci dica cos’è “bene” e cos’è “male”. E brancoleremo spaesati nel buio.
E dunque c’è una via d’uscita da questa situazione, c’è un punto di equilibrio tra libertà e idea di decenza condivisa? Probabilmente no. Il problema di fondo risiede nell’essenza stessa della nostra democrazia, nei pilastri del nostro modo di vedere la vita. Avendo posto tra i principi della convivenza il rispetto reciproco della libertà di ogni individuo, abbiamo posto il germe della legittimazione per ogni comportamento che non leda con la violenza la sfera altrui. In altre parole, solo uno stato etico - e dunque totalitario e illiberale - potrebbe arrivare a vietare a priori la manifestazione d’idee, l’espressione di sentimenti, i modi di essere, di comunicare. E quindi anche di vestirsi.
Ma le sentenze della Corte di Cassazione, come si sa, fanno giurisprudenza, e dunque da ora in poi attente donne che andate in giro per strada mettendo in mostra la vostra “mercanzia”. O forse no. E già, perché girando su internet mi sono imbattuto in un’altra sentenza. Questa volta di assoluzione: “Non integra gli estremi di reato di atti contrari alla pubblica decenza il comportamento di una avvocatessa che si sia presentata all’ingresso di un istituto penitenziario in minigonna colore aragosta che copriva parzialmente i glutei nella parte posteriore, mentre nella parte anteriore si intravedeva uno slip di colore nero, e indossando anche una maglietta trasparente dalla quale si notava il seno coperto da un reggiseno che lo lasciava intravedere con chiarezza”. Recita così la sentenza n.9685/1996 con la quale la Corte di Cassazione assolve un’avvocatessa del foro di Bologna, che il primo aprile del 1994 si é presentata al carcere di Parma in abiti succinti, tanto da essere condannata dal pretore a trecento mila lire di ammenda, perché l’abbigliamento era tale da “offendere il comune senso del pudore”. Nel ricorso l’avvocatessa ha posto l’accento su un punto cruciale: il concetto di decenza deve essere giudicato in relazione al tempo in cui si vive. E la sentenza, accogliendo tale principio, ha stabilito che “il giudice non deve essere fustigatore dei costumi, un promotore di campagne moralistiche, ma deve limitarsi ad accertare il sentimento medio della popolazione nel momento storico dato”.
Ma tutto ciò avveniva quasi vent’anni fa: il mondo è cambiato. Purtroppo.

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