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Non preoccuparti della pioggia, lasciala cadere” (Marco Brignoli, Rifugio Baroni al Brunone, Sentiero delle Orobie Orientali)

martedì 27 novembre 2012

Prima di pensare alle aggravanti, proviamo a parlarci

Qualche giorno fa le pagine di cronaca dei giornali si sono occupate del suicidio di un ragazzo di quindici anni avvenuto a Roma. Dalle ricostruzioni fatte dai media parrebbe che il motivo di tale gesto sia legato alle persecuzioni subite dal ragazzo a causa della sua sessualità. “Voglio sapere perché un ragazzo di quindici anni, mio figlio, ha preso una sciarpa e si è impiccato” - A chiederselo in una conferenza stampa è la madre di Andrea, il ragazzo suicida - “Andrea non era gay, era sensibile, gentile, intelligente, aveva letto più di mille libri. Dalla scuola nessuno ci ha informato, nessuno ci ha detto che ci fossero problemi di integrazione, ora voglio sapere”.
È l’urlo di dolore di una madre che ha perso il figlio, la tragedia più sconvolgente che possa colpire una persona, l’avvenimento più contro senso, più innaturale che si possa verificare nella catena generazionale. Per giorni si è discusso - e ancora se ne discuterà almeno fino a che i fari mediatici saranno accesi sul caso - sulla necessità di dare seguito all’iniziativa parlamentare volta ad introdurre nel codice penale l’aggravante riguardo all’omofobia: vale a dire un surplus di pena per chi mette in atto atteggiamenti discriminatori nei confronti di chi manifesta una sessualità differente. Un coro unanime ed indignato si è levato contro questo crimine: “Non si può morire perché omosessuali”. E a seguire una selva di dita accusatrici si sono alzate contro i compagni di classe, la scuola, la società e il sistema. Con il passare dei giorni poi, sono emersi nuovi elementi sul caso. La deputata del Partito Democratico Paola Concia, unica parlamentare omosessuale dichiarata in Italia e promotrice da anni di una legge contro l’omofobia, dopo aver fatto visita alla scuola del ragazzo suicida ha dichiarato: “Oggi ho incontrato per due ore i compagni di classe e i professori del ragazzo suicida del Liceo Cavour di Roma. Ho voluto farlo per capire cosa fosse accaduto davvero. I ragazzi mi hanno spiegato che hanno un doppio dolore: quello della perdita del loro compagno di classe e quello di essere stati descritti oggi su tutti i siti come i responsabili della sua morte. Li ho trovati sconvolti e ho riscontrato un contesto scolastico assolutamente non ostile alla diversità”. E poi aggiunge: “Era sicuramente un ragazzo originale, di certo in cerca della sua identità, come molti a quindici anni, ma di sicuro mi sembra che questa sua diversità fosse ben inserita nel contesto della classe”. Questo non esclude tuttavia che il ragazzo abbia subito persecuzioni al di fuori di tale contesto. E infatti pare che su facebook ci fosse una pagina in cui lo si definiva “il ragazzo dai pantaloni rosa” ed altre carinerie di questo genere. Ora la magistratura si sta occupando del caso, e pare che ci sia un fascicolo aperto con l’ipotesi di istigazione al suicidio. Quando andavo a scuola c’erano dei ragazzi che venivano costantemente angariati, sfottuti, a volte anche malmenati. E non già perché fossero omosessuali, ma semplicemente perché c’era un elemento nel loro modo di fare, nel fisico, perfino nel cognome che potesse convogliare su di loro le spinte di aggressività dei compagni di classe. C’era ad esempio un tale di nome Rosario che, per sua somma sfortuna, era nato con un enorme orecchio a sventola e l’altro no. Non passava singolo giorno che qualcuno non decidesse di prenderlo in giro. Era tutto uno sghignazzo, uno sberleffo: c’era chi gli tirava delle manate con rincorsa sull’orecchio storto, chi gli sparava un’elasticata, chi faceva disegni caricaturali sulla lavagna. Un vero tormento. Rosario reagiva con violenza a queste aggressioni, non era uno che si faceva mettere sotto tanto facilmente. Ma per lui era una guerra tutti i giorni. C’era poi un altro ragazzo che di cognome faceva Moscone. E anche in questo caso gli sfottò erano all’ordine del giorno: una selva di ragazzini gli si stringevano intorno ronzanti e poi, all’improvviso, partiva uno di loro con uno schiaffone violento sul coppino: “T’ho acchiappato finalmente, brutta bestiaccia”. Altre volte invece si arrivava in classe muniti di picchietto schiaccia mosche e partiva la caccia. Un giorno il poveretto, affranto fino alle lacrime, mi confidò: «Per colpa di questo mio maledetto cognome mi sfottono tutti…, sono proprio nato sfortunato». In effetti, l’adolescenza è un bel banco di prova per tutti, una dura scuola di vita che ci prepara all’età adulta. Chi più chi meno, tutti hanno provato l’amarezza di essere presi in giro, di essere isolati, incompresi, respinti. E il suicidio giovanile, come fenomeno sociale legato al mal di vivere e di crescere, non è una tragedia che scopriamo oggi. La vita di ogni giorno, da che ci svegliamo ci riserva trattamenti duri, spietati. Nino Manfredi diceva: “I calci son tanti, ma il culo è sempre lo stesso”. Purtroppo dobbiamo fare i conti con la natura umana che è perlopiù egoistica e soggiace all’istinto della sopraffazione e della sopravvivenza. Quello che Hobbes descriveva nel suo famoso “Homo homini lupus”. Dobbiamo dunque rassegnarci al fatto che una giovane vita venga stroncata dalla cattiveria altrui? No, questo no: ognuno - dagli insegnati ai genitori, dai compagni di classe alle istituzioni - deve fare quanto è in suo potere perché l’aggressività, che pure fa parte della natura umana, non trascenda, non travalichi il limite della normale tollerabilità. Forse sarebbe bastato poco per salvare quella vita: un po’ meno indifferenza, un po’ più di umanità. Una la legge contro l’omofobia, si diceva. Ma prima di arrivare a questo, valutiamo se chi aveva determinate responsabilità, ha fatto tutto ciò che era in suo potere. Senza arrivare al codice penale, che già punisce i reati contro l’onore della persona, chiediamoci se famiglia, scuola, istituzioni hanno fatto tutto quanto era in loro potere per sconfiggere l’ignoranza e il pregiudizio. Non possiamo demandare un problema di natura sociale e culturale esclusivamente alle aule di giustizia. Altrimenti arriverà il giorno in cui qualcuno, scaricandosi la coscienza, proporrà l’aggravante contro le elasticate sull’orecchio. E la cosa oltre che far ridere, decreterà il tramonto definitivo della capacità di comporre le conflittualità tra uomini.

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