Prova


Non preoccuparti della pioggia, lasciala cadere” (Marco Brignoli, Rifugio Baroni al Brunone, Sentiero delle Orobie Orientali)

venerdì 30 novembre 2012

Problemi a letto? Ecco finalmente la soluzione

Prima o poi dovevamo arrivarci: dopo il life-coach, il personal shopper e lo human trainer, ecco finalmente anche il sex coach. E chi sarebbe sto sex coach, vi chiederete? E soprattutto cosa fa? Il lavoro del coach è quello di sedersi in un angolo della stanza di un albergo, fornire ai “pazienti” dei sexy toys e guidarli nell’atto sessuale, indicando loro spunti per nuove esperienze. Perbacco…, questa sì che è una grande trovata.
Ed anche se a noi retrogradi mediterranei questa nuova professione può sembrare una bischerata, nel Regno Unito sono ormai a migliaia le coppie sposate che si rivolgono a questo maestro d’amore, questo guru del sesso. Clienti in crescita sarebbero anche le coppie in crisi e i single. Certo con i single dev’essere anche più imbarazzante…! Ma tant’è. Le tariffe? 200 euro all’ora per il coach presente in carne ed ossa accanto al vostro letto. O in alternativa, se volete spendere meno - pur senza rinunciare all’efficacia della terapia - , c’è anche la possibilità di utilizzare la videoconferenza per la modica cifra di 130 euro. Sempre all’ora, s’intende. Alla perversione non c’è mai limite: roba da matti…! Leggendo questa notizia balenga - come direbbe la Litizzetto - mi è tornato alla mente un episodio raccontato da Paolo Villaggio in un suo libro. All’inizio della sua tragica carriera, l’attore genovese s’accompagnava con Fabrizio De Andrè in cerca di qualche editore che pubblicasse i suoi scritti. Un giorno finirono a Milano e dovettero pernottare in una bettolaccia di periferia. Non ci volle molto per capire che si trattava di un albergo ad ore. Nella stanza accanto alla loro c’era una prostituta tedesca che riceveva clienti a rotazione. Tempo cinque minuti dall’accesso in quella stanza del piacere e si sentiva un feroce barrito risuonare in tutto l’albergo. Verso le tre di notte però arrivò un cliente portoricano che, nonostante le notevoli attitudini e impegno della professionista, non riusciva a provare il piacere finale. E così, dai e dai, ad un certo punto Villaggio e De Andrè cominciarono a seccarsi di quella faccenda rumorosa. A quel punto - stando a quello che dice Villaggio - , De Andrè ebbe un colpo di genio: “Signorina, provi con la carota…”. La tedesca colse al balzo il suggerimento e procedette a “carotare” il cliente. Quindici secondi netti e l’intero quartiere venne svegliato da un urlo di piacere definitivo.
Cari inglesi, altro che sex coach. Qui siamo avanti anni luce…!

Del come e del perché conviene sposarsi. Forse.

Po’ quand’i’ fu’ cresciuto, mi fu dato - per mia ristorazion moglie che garre - da anzi dì ’nfin al ciel stellato; - e ’l su’ garrir paion mille chitarre: - a cu’ la moglie muor, ben è lavato - se la ripiglia, più che non è ’l Farre.
Con queste due terzine Cecco Angiolieri conclude il sonetto “La stremità mi richer per figliuolo”. Sonetto nel quale ripercorre con tonalità cupe e tetre la sua vita, dalla nascita al matrimonio.
Matrimonio che gli regala una moglie che si lamentava da mattina a sera più di mille chitarre, sempre pronta a imprecare, inveire contro il povero, disgraziatissimo marito. E come chiosa una considerazione di carattere universale verso agli uomini vedovi, reputati assai più sciocchi del farro se riprendono moglie. Chissà cosa ne direbbe il grande poeta toscano se sapesse che studi recenti hanno dimostrato che la vita coniugale fa decisamente bene alla salute. Certo essendo egli un ribelle e bastiancontrario di natura, contesterebbe in radice queste asserzioni, così come contestò fino allo stremo ogni carattere proprio dello Stilnovo. In primis naturalmente il concetto di donna angelicata. E Socrate invece? Se leggesse le conclusioni di tali studi, si ricrederebbe o meno sulla nefasta opinione che si era fatto della moglie, dopo una vita intera passata al suo fianco? Probabilmente no, anche perché fonti non confermate sostengono che il disgraziato, in luogo dell’ergastolo ai domiciliari - ovvero fine pena mai, chiuso in casa con quella rompicoglioni della moglie - abbia preferito un biberone di cicuta. Hendrik Schmitz, docente della Germany’s Ruhr Graduate School in Economics, commentando la ricerca (condotta da un’équipe neozelandese in collaborazione con l’Organizzazione Mondiale della Sanità e l’Università americana di Harvard), sostiene che gli uomini sposati fanno più controlli medici ed esercizio fisico, rispetto ai single. E il motivo risiederebbe nel fatto che questi ultimi non hanno una moglie che ricorda loro insistentemente di fare check-up medici, di seguire uno stile di vita più sano e di praticare attività per tenersi in forma. Certo qualcuno potrebbe chiedersi cosa significa esattamente quell’"insistentemente": anche Santippe rompeva insistentemente i coglioni al povero Socrate. Ma Schmitz va oltre e aggiunge: “…il matrimonio allontana le forme depressive, l’ansia e la possibile dipendenza da alcool, psicofarmaci e stupefacenti”. E per converso una separazione o un divorzio costituiscono un grave danno per la salute mentale dei coniugi. Altre ricerche poi affermano che il matrimonio abbassa la pressione arteriosa e protegge il cuore, allontana il pericolo del tumore e dell’Alzheimer, ha un’azione antidepressiva, preserva dall’influenza e rimargina le ferite. E già qui, non so voi, ma io comincio ad avvertire un intenso puzzo di zolfo e magia. Ma proseguiamo: le persone sposate inoltre sarebbero più gentili, socievoli rispetto a chi è single; e i tratti negativi della personalità, come aggressività, tendenza a mentire e anche a commettere delitti, risulterebbero meno marcati. Che ci siano poi coniugi come Olindo e Rosa, aggiungerei io, è appunto l’eccezione che conferma la regola. E per concludere le persone sposate hanno un tasso di mortalità del 10-15 per cento più basso rispetto alla media (studio dell’Università di Cardiff pubblicato sul British Medical Journal a firma di David e John Gallacher). L’unico neo del matrimonio, rilevano i ricercatori, non senza una punta d’ironia, sta nel fatto che una volta sposati si tende ad ingrassare di circa due chili e mezzo. Nel Mezzogiorno si direbbe “tendenza a inquartarsi”. E quindi che dire? Sposiamoci tutti, che aspettiamo: finalmente abbiamo trovato la panacea di tutti i mali. A questo punto però, stante che la vita matrimoniale è così benefica e portatrice di serenità, perché le separazione e i divorzi in Italia sono in crescita continua. Nell’arco di quindici anni - rileva infatti l’Istat - sono quasi raddoppiati sia il numero delle separazioni, che dei divorzi: nel 1995 ogni 1.000 matrimoni si registravano 158 separazioni e 80 i divorzi; nel 2010 si arriva a 307 separazioni e 182 divorzi. Anche volendo considerare le più svariate ragioni che stanno alla base di un fallimento coniugale, c’è qualcosa che non mi torna. Ad ogni modo, e indubbiamente, l’amore è una forza vitale, fa ribollire il sangue nelle vene, dà intensità e sostanza all’esistenza. "Move il sole e l'altre stelle" dice Dante. E certamente sentirsi amati ci fa amare. Nel film Qualcosa è cambiato, Jack Nicolson è una specie di matto da manicomio senza speranza, ma l’incontro con la bella cameriera Helen Hunt, instilla in lui la voglia di vivere. “Mi hai ferito - dice lei durante una cena turbolenta - , voglio un complimento da te, lo voglio ora. Ma che sia sincero, che sia sentito”. E il vecchio Jack cosa s’inventa? “Allora, stammi bene a sentire, il mio complimento per te è che da quando ti ho conosciuta ho ricominciato a prendere le medicine”. Helen non capisce e quasi si irrita. E lui continua: “Mi fai venire voglia di essere un uomo migliore”. Ma questo è un film, finzione per definizione. De Filippo in Natale in casa Cupiello fa dire al protagonista, seduto accanto alla moglie svenuta: “Qua siamo rimasti solo io e te: Concetta, se tu muori, muoio pure io”. Ma questo è teatro, finzione pure questa. Almeno così pensavo, fino all’alba di stamattina, allorché non sono stato chiamato con altri colleghi a soccorrere una donna anziana, colpita da un malore. Accanto a lei c’era il marito, disperato e gravemente malato anch’egli. L’immagine di due persone che hanno vissuto tutta l’esistenza insieme, e che il destino potrebbe da un momento all’altro separare. “Angela…, Angela rispondi…! Ha le mani fredde…, le mani fredde!”. Così grida ancora nelle mie orecchie quell’uomo. Quanta forza c’è in quell’urlo, quanta passione, quanto amore.
A conti fatti dunque, forse davvero il matrimonio ha la sua convenienza. Anche nel caso non si chiami propriamente matrimonio. Perché vivere insieme ad un’altra persona significa, tra le altre cose, anche avere un testimone della propria esistenza.

Nell'immagine "Socrate e Santippe" - Reyer Van Blommendal 1655

giovedì 29 novembre 2012

Si stava meglio quando si stava peggio?

La settimana scorsa si è tenuto a Milano il 57° Congresso Nazionale di Geriatria e Gerontologia. Mi interessano - anzi m’intrigano - sempre moltissimo queste notizie. E non perché sia malato di gerontofilia, ma perché ci trovo sempre qualcosa di tragicomico in queste faccende. E in generale, come ad esorcizzare un momento della nostra vita che arriverà prima o poi - sempre che il buon Dio lo voglia, s’intende - , si è assai propensi a ridersela degli acciacchi dei vecchi. Soprattutto quando si tratta di incontinenze violente o sordità feroci.
Una volta capitai con amici in un albergo di Riccione, era la fine di agosto. Gli ospiti della struttura erano quasi tutti ottuagenari e nella sala da pranzo c’era un caos assordante, dovuto al tenore di voce molto alto dei presenti. I camerieri erano esasperati anche perché, oltre a dover parlare quasi urlando per farsi capire, avevano a che fare con persone che pretendevano il trattamento. E che trattamento. E se ciò a loro avviso non era adeguato, erano pronti ad arrivare alle estreme conseguenze. Una sera ci raggiunse un nostro conoscente e quando si sedette a tavola con noi cominciò a guardarsi attorno preoccupato: in ogni direzione solo teste bianche, vociare assordante e rumore di nacchere masticanti. Se ne uscì con una frase che mi rimase scolpita nella mente: “Aho, ma che siamo finiti in un reparto geriatrico?”.
Con il mio amico Davide invece negli ultimi anni abbiamo cominciato una sorta di gioco a chi la spara più grosso, a chi si vanta di più in fatto di malattie ed età avanzante:
«Oggi ho la stessa energia di Asfidanken, il cane di Drive-In. Stavolta sono proprio malato. Tra l’altro ho la gola in frantumi: sembra che ho mangiato un riccio».
«Passa una vecchia e mi strimpella il campanellaccio della bicicletta nell’orecchio: “Sveglia giovane, un po’ di contegno”. Ecco, ora posso anche morire contento».
«Se mi secca invecchiare? Beh, considerando le alternative, no».
«Come sto io? Sempre peggio: la notte dormo poco, ho le extra-sistole e la pancia di un malato di fegato…! E così prendo dei lassativi. Non dormo lo stesso, però ho qualcosa da fare».
«Lascia stare, è una via crucis: ora è tre giorni che ho una specie d’infarto che non vuole esplodere. Resterò offeso e non se ne parla più. Intanto però, per un triste omino con gastrite ulcerosa acuta, brodino, pigiamino e nanna…, cazzo!».
«Allora fai così, lascia stare per una sera il Biancosarti e scolati la fiasca di Bisolvol: male non fa».
«Ma ti pare che non lo faccia già? Mi butto giù tante di quelle medicine che se mi fanno gli esami del sangue isolano la zona per pericolo di contaminazione batteriologica».
Tra gli altri argomenti di cui si è discusso al congresso milanese c’è stato quello sulle cause della longevità. Nel mondo pare che ci siano cinque località dove si vive più a lungo: Sardegna, Ikaria, Loma Linda, Okinawa e Costa Rica. In queste aree geografiche, chiamate dagli esperti “blu zones”, vi sarebbero alcuni elementi comuni che, combinati assieme, darebbero il giusto mix della longevità. Non si fuma, la famiglia ha assoluta priorità, si è attivi forzatamente poiché sono zone scoscese che costringono a camminate dispendiose, si fa una vita sociale importante, e si mangiano prevalentemente frutta, verdura e cereali. A spiegarlo è Roberto Bernabei, presidente di Italia Longeva. E da tale analisi ne derivano alcune regolette, che salvo eventi inaspettati, dovrebbero condurci a diventare tutti centenari. Per prima cosa ci vuole una corretta alimentazione. E fin qui ci siamo, anche se rinunciare al fritto misto, alle cotiche, agli insaccati e a tutti i cibi che fanno malissimo, ma sono ottimi, è una vera tragedia, oltreché un’ingiustizia. A seguire c’è il divieto tassativo di fumare, bere alcolici e drogarsi. Facile a dirsi, diranno molti di voi. Io per primo. So di persone che hanno intavolato trattative estenuanti e conteggi furiosi con i loro medici curanti per giungere ad un compromesso accettabile: «Allora dottore, mi stia bene a sentire: se rinuncio alla fiasca, ma continuo a fumare cinque sigarette al giorno, campo di più o di meno rispetto al fatto di farmi una pera di Settimo cielo al mese e un goccio di Fernet dopo cena?». Ma la risposta è sempre la stessa, ed è spietata: “La cura funziona solo se ci si attiene scrupolosamente alle disposizioni mediche…”. Ma andiamo avanti: una camminata a passo svelto non deve mai mancare nell’arco delle ventiquattro ore. Giustissimo, anche nel caso vi troviate in Louisiana, e dalla finestra vi sembra che si avvicini una specie di uragano: l’importante è camminare. Altra regola base è quella di assicurarsi un futuro economico stabile e sicuro: il consiglio è sottoscrivere polizze e pensioni integrative. Se poi siete lavoratori precari, cassintegrati, o peggio ancora disoccupati, che vi frega del futuro: anche tirando la cinghia fino a strozzarvi, non ci arrivate a cento anni. È già tanto se arrivate a fine mese. E ancora, dato che la vecchiaia porterà, tra le altre conseguenze, stanchezza, riduzione della memoria e disagi motori, meglio attrezzarsi per tempo con servizi domotici e controlli automatici per elettrodomestici. Già ai giovani capita di dimenticare la caffettiera sul fuoco, figuriamoci agli anziani. Ultimo consiglio? Affidarsi alla tecnologia per essere sempre in contatto con qualcuno che ci possa aiutare in caso di necessità, senza perdere al contempo l’autonomia domestica. Tipo il "Salva-la-vita Beghelli". Ottima invenzione, per carità. Anche se alle volte capita che l’anziano si addormenta con la cicalina al collo, si rigira nel letto e inavvertitamente suona l’allarme. Il figlio chiama al telefono per sapere se il papà sta male, ma questi purtroppo si è tolto l’apparecchio acustico andando a dormire, e dunque non sente. Al che parte l’allarme, i pompieri abbattono la porta d’ingresso con l’ascia e di fronte ad una selva di soccorritori preoccupatissimi si palesa l’anziano, visibilmente scocciato: “E voi che cazzo volete?”. E per finire, in tema di consigli, indossare maglie che effettuano check-up costanti: cuore, pressione, glicemia, sempre tutto sotto controllo. Che se poi un valore si discosta anche lievemente dalla norma, parte un avviso acustico violentissimo che, nella migliore delle ipotesi, causa un infarto miocardico al povero vecchio.
Se dietro a tutto ciò non ci fosse un’immane tragedia sociale, ci sarebbe da ridere. Ogni volta che ascolto questi consigli, queste ricerche che pretendono, in buona fede, di migliorare la nostra vita e quella dei nostri cari, mi sorgono sempre mille obiezioni. Obiezioni che si scontrano inevitabilmente con il nostro maledetto modo di vivere. Un tempo l’anziano era il perno della famiglia, era il saggio, il capostipite a cui si doveva rispetto. Esisteva un patto generazionale per il quale il vecchio, che a suo tempo era stato l’asse portante della famiglia, veniva accolto ed accudito dai figli. In quelle premure vi era l’amore e il riconoscimento per tutto ciò che egli aveva fatto nel tempo in cui era stato produttivo, per tutti i sacrifici fatti per tirar su la prole. Non c’era bisogno di previdenza, né di assicurazioni: la famiglia, con la catena solidale padre-figlio-padre, era tutto ciò che serviva. Per millenni questa è stata l’unica, forte garanzia di tutela per la vecchiaia. Il nostro attuale sistema previdenziale invece ha poco più di cento anni (il D.M. 18/7/1898 n. 350 istituisce la Cassa Nazionale di Previdenza come organo di tutela previdenziale per la vecchiaia e per l’invalidità) ed è già sulla via dell’estinzione. Oggi l’anziano è generalmente abbandonato a se stesso, vive giorni tristi e vuoti ed è isolato dalla famiglia, in quanto inutile portatore di problemi di cui nessuno vuole occuparsi. Ciò che conta è solo il successo, la dinamicità, il denaro, la gioventù: sono gli unici fattori sui quali basiamo il valore delle persone. E così il vecchio, per una semplice questione anagrafica, è tagliato fuori dal mondo. A meno che non provi a trasformarsi in un vecchio-giovane, tipo quelli che si tingono i capelli, oppure fanno le lampade, vale a dire coloro per i quali solitamente si usa l’espressione: “Però, lei ha proprio un aspetto giovanile”. Con il risultato però di diventare persone eccentriche e ridicole. Per coloro che non ce la fanno invece, nascono strumenti di controllo a distanza sempre più sofisticati, apparecchi dei quali gli anziani non ci capiscono quasi nulla, ma che fanno sentire la coscienza a posto. Ho visto in diverse occasioni uomini e donne dare in escandescenza con padri e madri anziani perché non riuscivano a intendere l’utilità e la modalità d’impiego di questi aggeggi. Erano scene di una tristezza infinita: si avvertiva in quell’aggressività tutto il distacco e l’insofferenza per quell’umanità ferita e bisognosa d’aiuto. Invece di accogliere e accudire l’indifeso, il malato stanco, colui che si avvia verso l’ultimo tratto di strada - e che per questo si sente ancor più perso e smarrito - gli regaliamo scatoline magiche, con pulsanti e lucine colorate, pretendendo che se ne serva. Si fa di tutto purché il vecchio non dia troppo fastidio. Quando invece neanche la tecnologia è sufficiente a consentire l’esistenza tra le mura domestiche, c’è sempre pronto un ottimo istituto, di quelli in cui gli anziani sono curati, lavati, pettinati. Tutto a regola d’arte, ci mancherebbe, ma pur sempre luoghi che assomigliano inevitabilmente ad anticamere della morte.
E tutto questo pare che si chiami progresso.

mercoledì 28 novembre 2012

Pianeta Terra: il punto di non ritorno

E sì, pare proprio che ormai siamo arrivati a fine corsa. Ventinove chili di suolo, due tonnellate circa di acqua e quattro litri di gasolio: questi sarebbero i consumi giornalieri di ogni singola persona che abita sul nostro pianeta. Il tutto moltiplicato per sette miliardi di persone. Un dato che, va da se, non promette niente di buono per il futuro dell’eco-sistema. È l’analisi presentata da Julian Cribb, esperto di comunicazione scientifica, a una conferenza dell’Accademia australiana di scienze a Canberra.
Secondo le ultime ricerche della Fao la metà del suolo del pianeta è già degradato, e ogni anno quattro mila chilometri cubi d’acqua dolce viene estratta dal sottosuolo con metodi non sostenibili. A dar retta a Cribb, abbiamo ormai pochi decenni per non trovarci impreparati al punto di non ritorno. E per fare ciò, l’unica strada perseguibile è cominciare a pensare a cambiamenti radicali nel campo dell’agricoltura industriale, nel modo in cui sono concepite le nostre città, i sistemi di trasporto, lo stile di vita, a partire dal modo in cui ci alimentiamo. Nel libro pubblicato un paio d’anni fa - The Coming Famine: the global food crisis and how we can avoid it - Cribb individuava alcuni punti critici: la dipendenza da combustibili, l’allevamento industriale, la crescita mondiale della popolazione e il sovraconsumo. E forniva anche alcune ipotesi sulle quali lavorare, tipo la crescita dell’acquacoltura (pesce d’allevamento), l’incremento della coltivazione di alghe per la produzione di cibo, ma anche di combustibili e plastiche; e poi ancora l’avvio dell’agricoltura urbana e la diversificazione delle colture. Ecco, al di là del fatto che m’inquieta non poco sapere che le alghe possano essere, alla bisogna, sia cibo sia combustibile, dobbiamo veramente aprire gli occhi su questi argomenti e cominciare ad amare un po’ di più la nostra Terra. “Ci sono venticinque mila piante commestibili sul pianeta Terra - continua Cribb - e il 99% di esse sono sconosciute alla maggior parte della popolazione”. A sto punto, c’è da saziarsi fino all’eternità, verrebbe da dire: basta volerlo. In effetti, il problema del sovrappopolamento e depauperamento del nostro pianeta è uno di quegli argomenti che releghiamo sempre tra le notizie catastrofiste, tra le materie che ci preoccupano, ma fino ad un certo punto. E comunque non c’interessano, perché sono sempre gli altri i colpevoli. Nell’immaginario collettivo ormai, anche a causa di trasmissioni televisive che fanno dell’allarmismo smodato il loro appeal, abbiamo catalogato tali problematiche nello stesso sottoinsieme dei terremoti, degli tsunami e delle eruzioni violente. Cose di cui aver timore, ma al limite del fantascientifico. Perché se passano in televisione e ad ora di cena, in fondo qualcosa di finto devono pur averlo. Ed anche qualora tali tematiche giungano a colpirci, tendiamo sempre a metterle un gradino dietro ai problemi più impellenti. Possiamo preoccuparci del fatto che tra cinquant’anni comincerà a scarseggiare l’acqua anche nelle nazioni ricche, quando abbiamo problemi ad arrivare a fine mese? E invece, proprio perché abbiamo il tempo per intervenire gradualmente, dovremmo cominciare a ripensare seriamente a tutto il nostro modo di vivere. Anche perché ne va della nostra salute. Un po’ come dicono gli esperti di alimentazione ai loro pazienti grandi obesi: “Lei non ha bisogno di una dieta, lei ha bisogno di altro stile di vita”. Il mese scorso il Wwf, in collaborazione con la Seconda Università di Napoli e l’Università della Tuscia ha lanciato l’iniziativa del “carrello della spesa virtuale”: scopo dell’iniziativa è sapere quanto impattano le nostre scelte alimentari sull’ambiente. E così, tra le altre nozioni veniamo a scoprire che una bottiglia di passata di pomodoro “costa” la bellezza di 206 litri d’acqua ed equivale a 1,5 kg di Co2; mentre per un barattolo di pelati si utilizzano 440 litri d’acqua ed emette 1,83 kg di Co2 equivalenti; un litro di olio d’oliva, invece, in acqua costa 13.353 litri e comporta 2,44 kg di Co2, mentre un litro di oli di semi richiede 4.234 e produce 2,28 kg di Co2. Sono dati che non dovrebbero lasciarci indifferenti. Anche considerando l’aumento esponenziale degli esseri umani: nell’anno zero dell’era cristiana, per esempio, sulla Terra vivevano 160 milioni di persone; nell’anno mille poco più di 250 milioni. In poco più di cinquant’anni siamo passati da 2,5 miliardi a 7. Ma tutto ciò non sarebbe un male in se. Lo diventa nel momento in cui pensiamo di poter continuare a sfruttare il nostro pianeta a piacimento, senza un minimo di coscienza ecologista. E tutto ciò, al di là dei grandi proclami lanciati in sedi internazionali, per non parlare dei protocolli regolarmente disapplicati, dipende in larga parte da noi. Da ogni singolo individuo, da ogni singolo atto del nostro agire quotidiano. Se sapessimo, per esempio, che per mezzo chilo di carne bovina si utilizzano 7.751 litri d’acqua e si emettono 3,51 kg di Co2, forse saremmo più invogliati a consumare carni bianche (500 grammi di carne di pollo o tacchino, 1.951 litri d’acqua e 1 kg di Co2) o pesce, sia di d’allevamento che pescato (zero litri d’acqua ed emissioni di Co2 inferiori al kg). Ognuno di noi è chiamato oggi, non solo ad avere comportamenti e abitudini responsabili, ma anche a divulgare queste informazioni. D’altra parte, proprio perché siamo diventati tanti, forse troppi, non possiamo più permetterci gli sprechi; dobbiamo azzerare il trasporto pubblico e privato inquinante, ridurre il più possibile il consumo di carne animale; e poi occorre privilegiare le produzioni biologiche, la stagionalità: basta cedere alla tentazione dalle arance uruguaiane in agosto, o delle albicocche neozelandesi in dicembre; e ancora, scegliamo la vendita a chilometri zero e il rapporto diretto agricoltore consumatore. Sono piccoli gesti destinati a dare un futuro al nostro pianeta. Oltretutto come italiani, e dunque legati alla dieta mediterranea, siamo già sulla buona strada, dato che tra tutte, questa è quella più rispettosa dell’ambiente. “Quando avranno inquinato l’ultimo fiume, abbattuto l’ultimo albero, preso l’ultimo bisonte, pescato l’ultimo pesce, solo allora si accorgeranno di non poter mangiare il denaro accumulato nelle loro banche”. Ecco, speriamo di non dover un giorno dare ragione a Tatanka Iotanka (Toro Seduto), grande capo dei Lakota (Sioux). Uno dei popoli più poetici della storia dell’Umanità. per un’alimentazione sostenibile leggi anche

martedì 27 novembre 2012

Prima di pensare alle aggravanti, proviamo a parlarci

Qualche giorno fa le pagine di cronaca dei giornali si sono occupate del suicidio di un ragazzo di quindici anni avvenuto a Roma. Dalle ricostruzioni fatte dai media parrebbe che il motivo di tale gesto sia legato alle persecuzioni subite dal ragazzo a causa della sua sessualità. “Voglio sapere perché un ragazzo di quindici anni, mio figlio, ha preso una sciarpa e si è impiccato” - A chiederselo in una conferenza stampa è la madre di Andrea, il ragazzo suicida - “Andrea non era gay, era sensibile, gentile, intelligente, aveva letto più di mille libri. Dalla scuola nessuno ci ha informato, nessuno ci ha detto che ci fossero problemi di integrazione, ora voglio sapere”.
È l’urlo di dolore di una madre che ha perso il figlio, la tragedia più sconvolgente che possa colpire una persona, l’avvenimento più contro senso, più innaturale che si possa verificare nella catena generazionale. Per giorni si è discusso - e ancora se ne discuterà almeno fino a che i fari mediatici saranno accesi sul caso - sulla necessità di dare seguito all’iniziativa parlamentare volta ad introdurre nel codice penale l’aggravante riguardo all’omofobia: vale a dire un surplus di pena per chi mette in atto atteggiamenti discriminatori nei confronti di chi manifesta una sessualità differente. Un coro unanime ed indignato si è levato contro questo crimine: “Non si può morire perché omosessuali”. E a seguire una selva di dita accusatrici si sono alzate contro i compagni di classe, la scuola, la società e il sistema. Con il passare dei giorni poi, sono emersi nuovi elementi sul caso. La deputata del Partito Democratico Paola Concia, unica parlamentare omosessuale dichiarata in Italia e promotrice da anni di una legge contro l’omofobia, dopo aver fatto visita alla scuola del ragazzo suicida ha dichiarato: “Oggi ho incontrato per due ore i compagni di classe e i professori del ragazzo suicida del Liceo Cavour di Roma. Ho voluto farlo per capire cosa fosse accaduto davvero. I ragazzi mi hanno spiegato che hanno un doppio dolore: quello della perdita del loro compagno di classe e quello di essere stati descritti oggi su tutti i siti come i responsabili della sua morte. Li ho trovati sconvolti e ho riscontrato un contesto scolastico assolutamente non ostile alla diversità”. E poi aggiunge: “Era sicuramente un ragazzo originale, di certo in cerca della sua identità, come molti a quindici anni, ma di sicuro mi sembra che questa sua diversità fosse ben inserita nel contesto della classe”. Questo non esclude tuttavia che il ragazzo abbia subito persecuzioni al di fuori di tale contesto. E infatti pare che su facebook ci fosse una pagina in cui lo si definiva “il ragazzo dai pantaloni rosa” ed altre carinerie di questo genere. Ora la magistratura si sta occupando del caso, e pare che ci sia un fascicolo aperto con l’ipotesi di istigazione al suicidio. Quando andavo a scuola c’erano dei ragazzi che venivano costantemente angariati, sfottuti, a volte anche malmenati. E non già perché fossero omosessuali, ma semplicemente perché c’era un elemento nel loro modo di fare, nel fisico, perfino nel cognome che potesse convogliare su di loro le spinte di aggressività dei compagni di classe. C’era ad esempio un tale di nome Rosario che, per sua somma sfortuna, era nato con un enorme orecchio a sventola e l’altro no. Non passava singolo giorno che qualcuno non decidesse di prenderlo in giro. Era tutto uno sghignazzo, uno sberleffo: c’era chi gli tirava delle manate con rincorsa sull’orecchio storto, chi gli sparava un’elasticata, chi faceva disegni caricaturali sulla lavagna. Un vero tormento. Rosario reagiva con violenza a queste aggressioni, non era uno che si faceva mettere sotto tanto facilmente. Ma per lui era una guerra tutti i giorni. C’era poi un altro ragazzo che di cognome faceva Moscone. E anche in questo caso gli sfottò erano all’ordine del giorno: una selva di ragazzini gli si stringevano intorno ronzanti e poi, all’improvviso, partiva uno di loro con uno schiaffone violento sul coppino: “T’ho acchiappato finalmente, brutta bestiaccia”. Altre volte invece si arrivava in classe muniti di picchietto schiaccia mosche e partiva la caccia. Un giorno il poveretto, affranto fino alle lacrime, mi confidò: «Per colpa di questo mio maledetto cognome mi sfottono tutti…, sono proprio nato sfortunato». In effetti, l’adolescenza è un bel banco di prova per tutti, una dura scuola di vita che ci prepara all’età adulta. Chi più chi meno, tutti hanno provato l’amarezza di essere presi in giro, di essere isolati, incompresi, respinti. E il suicidio giovanile, come fenomeno sociale legato al mal di vivere e di crescere, non è una tragedia che scopriamo oggi. La vita di ogni giorno, da che ci svegliamo ci riserva trattamenti duri, spietati. Nino Manfredi diceva: “I calci son tanti, ma il culo è sempre lo stesso”. Purtroppo dobbiamo fare i conti con la natura umana che è perlopiù egoistica e soggiace all’istinto della sopraffazione e della sopravvivenza. Quello che Hobbes descriveva nel suo famoso “Homo homini lupus”. Dobbiamo dunque rassegnarci al fatto che una giovane vita venga stroncata dalla cattiveria altrui? No, questo no: ognuno - dagli insegnati ai genitori, dai compagni di classe alle istituzioni - deve fare quanto è in suo potere perché l’aggressività, che pure fa parte della natura umana, non trascenda, non travalichi il limite della normale tollerabilità. Forse sarebbe bastato poco per salvare quella vita: un po’ meno indifferenza, un po’ più di umanità. Una la legge contro l’omofobia, si diceva. Ma prima di arrivare a questo, valutiamo se chi aveva determinate responsabilità, ha fatto tutto ciò che era in suo potere. Senza arrivare al codice penale, che già punisce i reati contro l’onore della persona, chiediamoci se famiglia, scuola, istituzioni hanno fatto tutto quanto era in loro potere per sconfiggere l’ignoranza e il pregiudizio. Non possiamo demandare un problema di natura sociale e culturale esclusivamente alle aule di giustizia. Altrimenti arriverà il giorno in cui qualcuno, scaricandosi la coscienza, proporrà l’aggravante contro le elasticate sull’orecchio. E la cosa oltre che far ridere, decreterà il tramonto definitivo della capacità di comporre le conflittualità tra uomini.

lunedì 26 novembre 2012

Incontri surreali

Mi scrive un amico:
«Questa mattina, dopo aver seguito la messa - a proposito, non applaudire mai ai funerali: il mio parroco dice che la prossima volta ne prende qualcuno a calci… - ho fatto un giro in centro, e ho incrociato il Pasotti. Pare che intenda candidarsi come presidente di comitato. Tra un ragionamento e l’altro, ha cercato di offrirmi il caffè. Dispiace, se invece del caffè mi avesse offerto la sambuca, lo votavo».
«Eh, possibile? Ti vendi per così poco?».
«E lo so, sembra brutto detto così. Però devi capire che Farina già si è proposto di pagarmi il Fernet. Ora sono in attesa dell’ultima offerta: se Rapetti rilancia impegnandosi almeno per un Ramazzotti con ghiaccio, voto lui».
È strano questo dialogo, surreale, comico e tragico al contempo. Un'ironia amara che ci parla dei nostri tempi. Come dire che comunque sia, a dispetto di qualsiasi ragionamento, affinità, ideali ed altro, l’importante è guadagnarci il più possibile. Fosse anche soltanto una sambuca. Chiaramente è uno scambio di battute tra amici che scherzano, e non c’è nulla di reale in tutto ciò. Alle volte la malinconia che giunge la domenica sera ti costringe a cercare lidi di buonumore, soprattutto se dal cielo scende giù quella pioggerellina fine e fastidiosa, che porta l’umido nelle scarpe e nelle ossa, e ti fa sbattere gli occhi. E ieri sera era una di quelle sere e così sono uscito per una passeggiata, una passeggiata senza fretta lungo le stradine deserte di fine domenica. Mi piace camminare a fine giornata, mi aiuta a rilassarmi, a mettere in fila i pensieri, senza dover per forza trovarvi una soluzione. Il cammino aiuta a ragionare, a riflettere, dà il giusto ritmo al fluire delle idee e delle riflessioni. Non per nulla Aristotele teneva i suoi discorsi filosofici passeggiando. E mentre passeggiavo un’automobile mi si è affiancata e dall’abitacolo ne è uscita una ragazza molto agitata: «Scusa, sai per caso dove si può votare per le primarie? Pensavo che avessero allestito un seggio qui alla scuola, ma è tutto chiuso». A quel punto sono stato sradicato con violenza dai miei ragionamenti peripatetici e ho dovuto impegnarmi a fondo per dare una risposta utile e convincente. In effetti già la sera prima mi ero trovato in una situazione analoga, una di quelle situazioni in cui ti trovi a dare una risposta istantanea senza averla ponderata prima. Dovevo acquistare l’occorrente per la grigliata del giorno dopo ed ero assai di fretta. Entro trafelato nel supermercato e di fronte a me trovo quattro ragazzone “incelofanate” di giallo che mi sbarrano quasi fisicamente il passaggio: «Offre qualcosa per il banco alimentare?». Al che mi ritraggo leggermente intimorito, barcollo, lo sguardo perso di colui che ha or ora ricevuto una badilata nella schiena. Cerco nella mente una risposta per svicolare senza troppo sfigurare, non la trovo. Comincio a roteare gli occhi verso il soffitto e poi tutto intorno, le labbra semiaperte in attesa di parole che non arrivano. Le quattro volontarie continuano a fissarmi con sguardo severo: mi sento già in colpa perché non ho aderito immediatamente e con entusiasmo all’iniziativa, ma ora peggioro la situazione dato che sto palesemente cercando una scusa per non dare nulla. E lo sguardo severo che avverto intorno a me si tramuta lentamente in sguardo spietato e di leggero disprezzo. A quel punto qualcosa a fatica si fa largo tra le fauci, balbettante: «No scusate…, non…, ecco io…, mi piacerebbe moltissimo…, ma vedete…, non ho tempo…, anzi… non ho abbastanza soldi…!». A quel punto col fiatone mi dileguo nel dedalo delle corsie. Il carrello è strapieno, salamelle, bistecche con l’osso, spiedini; e poi vini doc, verdure, frutta in abbondanza. Alla cassa cerco di non sollevare lo sguardo per non incrociarlo con le quattro incelofanate. Non reggerei l’onta. Ma poi all’uscita me le ritrovo davanti, e con un sorrisino ironico mi aprono anche la porta. A quel punto blocco il carrello e dalla busta della verdura tiro fuori un bel mazzo di rapanelli rossi. L'espressione un po’ delusa delle ragazzotte mi spinge a praticare un’aggiunta al già dato, vale a dire un paio di banane. E così ho guadagnato la libertà: finalmente sereno e in pace con me stesso e con il mondo. Ma tornando alla sera di domenica e alla ragazza delle primarie, mi sono concentrato più che potevo e ho risposto: «Ma, non credo che qui ci siano seggi aperti. Stamattina ho visto che in centro c’erano i banchetti per votare. Io ho votato lì. Se ti affretti fai ancora in tempo». In realtà non ho votato affatto, però mi piaceva l’idea di creare un’empatia con quella sconosciuta che mi appariva in difficoltà. Lei mi ha ringraziato, ha ingranato la marcia ed è sparita. Al che io sono rimasto nuovamente solo con i miei pensieri malati ed ho cominciato a riflettere su quell’ultimo episodio. Io non solo non avevo votato per le primarie del centrosinistra - di cui francamente non mi fregava nulla - , ma ero anche rimasto assai colpito dalla foga di quella ragazza, dalla volontà forte di cercare un luogo dove esprimere la sua preferenza, anche al costo di fare una corsa in centro alle otto di sera. E così pensavo tra me e me: “Ma tu guarda questa…, perché mai si dà tanto da fare? Cosa vuoi che cambi se vince l’uno o vince l’altro? Crede veramente che il suo voto servirà a qualcosa?”. Ma poi lentamente ho cominciato a provare una certa invidia per quella persona. Perché lei, a differenza mia, dimostrava di credere ancora in qualcosa, aveva ancora la forza di lottare e di sperare che con il suo voto il mondo sarebbe cambiato in meglio. Mentre io me ne stavo lì, qualunquista più che mai, a maledire il mio paese e a delegare il mio futuro ad altri. Proprio io che fin da giovane avevo fatto della politica una delle ragioni per cui valesse battersi sempre e in ogni caso, contro tutto e tutti. Soprattutto contro coloro che, come me ora, mi dicevano: “Ma pensa alla salute…”. Un tempo infatti pensavo che non solo “gli assenti hanno sempre torto”, ma consideravo gli stessi degli “idiotes”, come dicevano gli antichi greci, vale a dire degni di disprezzo perché si disinteressavano della cosa pubblica. E così passeggiando verso casa mi è parso di avvertire come una leggera inversione di rotta, come se mi fosse tornata un po’ di voglia di politica, di votazioni, di partecipazione. Una ventata di freschezza e di nuova fiducia. Del tutto inaspettata. Poi però ho avuto la sciagurata idea di accendere la tv..., e all’istante mi sono detto: “Ma pensa alla salute...”.

venerdì 23 novembre 2012

La riscossa dei riciclati

E così ci risiamo, tra qualche giorno, causa l’approssimarsi delle festività, ripartirà l’angosciante e irresistibile corsa all’acquisto dei regali natalizi. Ci troveremo come ogni anno immersi nel turbine degli eventi, nel chiasso dei centri commerciali a prezzi scontatissimi, nell’indecisione più assoluta circa la scelta tra una sciarpa acrilica tinta pisellino o una cravatta finta seta, color trota salmonata. C’è da prendere paura al solo pensiero. D’altra parte non sarà sfuggito all’occhio attento dell’osservatore, che già da diversi giorni imperversano, su private abitazioni e non, festoni e luci intermittenti, stelle filanti e decorazioni policrome - spesso di assai dubbio gusto, occorre dirlo - .
Tempo ancora un paio di giorni e compariranno anche gli orrendi Babbi Natale scalatori, appesi alle finestre - che qualcuno prima o poi prenderà a fucilate - , e i poveri pini derelitti, oberati di chincaglierie e “sistemati per le feste”. Quest’anno però non mi sono fatto trovare impreparato: nel box riposano, in attesa del grande exploit, ben cento fantasmagoriche palle decorative, di diverso colore e grandezza, che faranno del mio alberello da giardino, il più apprezzato di tutto il quartiere. E come mi ritrovo in questa posizione di vantaggio, vi chiederete? Semplice, ho risposto ad un annuncio pubblicato su un giornaletto di seconda mano. A dire il vero, quando lo lessi eravamo ancora in giugno, e la prima cosa che pensai tra me e me fu: “Ma chi cacchio comprerebbe mai cento palle di natale da addobbo in estate? Ci vuole proprio un bel citrullo”. Ed infatti, il giorno dopo chiamai l’inserzionista e corsi a ritirare il malloppo. Per giorni non seppi dove diavolo sistemare le cento palle, mi stavano sempre tra i piedi: un vero tormento. E cominciai pure ad avere seri dubbi sull’effettiva convenienza del mio affarone - oltreché sulla mia completa sanità mentale. Poi trovai un angolo in soffitta e dimenticai quel triste avvenimento. Oggi però, a distanza di mesi sono decisamente felice di tale acquisto, anche perché, oltre ad aver speso poco, è un pensiero in meno nell’approssimarsi delle tremendissime feste. Leggendo i quotidiani di questi ultimi giorni mi sono imbattuto in una ricerca condotta dall’istituto demoscopico Ipsos per conto di eBay Annunci (700 individui ambo sesso, residenti in tutta Italia dai 18 anni in su): dai dati emergerebbe che la crisi economica inciderà molto o abbastanza sulle spese di Natale (69%). E come si estrinsecherà tale congiuntura sulle scelte degli italiani riguardo ai regali? È presto detto: dovranno essere utili e soprattutto economici. Finalmente una buona notizia, bando al consumismo inutile e sfrenato: alleluia. E oltre a ciò pare stia prendendo sempre più piede la pratica del riciclo (72%), anche se i sensi di colpa attanagliano quasi due intervistati su tre. Già, i sensi di colpa: chi di noi non ha mai regalato un bel “riciclone”, andiamo siate onesti? Chi di noi non si è mai liberato con piacere di una qualche rara oscenità: d’accordo che “a caval donato non si guarda in bocca”, ma ad ogni limite c’è una pazienza - come diceva giustamente Antonio De Curtis, in arte Totò - . E quali sono le frasi che più spesso accompagnano l’impacchettamento dell’oggetto da riciclare? Ecco una breve antologia: «Madre Santissima, sta berretta non si può proprio guardare…, la regalo a Sandrino che tanto a lui qualunque cosa sta male: ulteriori danni non se ne fanno»; «Oddio oddio…, e sta grappaccia velenosa dove l’hanno scovata? Non va bene neanche per i gargarismi: gliela rifilo a Giannetto “palato di stagno”, che tanto lui butta giù qualunque porcheria, purché sia alcolica»; «Un paio di pantofole, un pigiama, una vestaglia da camera…, oh…, ma cos’è, il kit del perfetto lungodegente? Via, via…, riciclare…»; «Ecco, ci mancava anche il cane di maiolica…, ma si può? Questo finisce dritto dritto nel giardino di Alduccio: accanto ai nani e a Biancaneve farà un figurone!». Qualche anno fa partecipai ad una festa di amici: c’erano tanti invitati e ci trovavamo in montagna per trascorrere alcuni giorni, tra camminate per i boschi e gustose mangiate di canederli e gulasch. Era il ponte dell’Immacolata. Ognuno di noi aveva portato un dono impacchettato da scambiare con gli altri partecipanti e l’ultima sera ci fu una sorta di tremendo sorteggione per la distribuzione dei regali. A me capitò un completo guanti-sciarpa di lana che, tutto sommato, andava alla pari con ciò che avevo portato io, vale a dire un’elegante fusciacca. Alla mia amica Alessandra invece capitò un oggetto che non la soddisfece del tutto. E così, astuta come una volpacchiotta dell’alto lario, mi propose uno scambio ulteriore tra di noi. Vuoi perché ero sbronzo marcio, vuoi perché non sono mai stato troppo attaccato al voluttuario, accettai senza neanche sapere cosa fosse l’oggetto del baratto. Quando però, quale frutto dell’insano smercio, ricevetti tra le mani una bambola di pezza fatta con degli strofinacci, reagii con una certa qual volgarità. E non contento, nottetempo, sgattaiolai fuori dalla mia camera e procedetti all’impiccagione sommaria della bambola stessa, nel corridoi centrale del terzo piano dell’albergo. Il mattino seguente fui quasi linciato dai clienti, indignati per quel gesto sconsiderato. Che se solo costoro avessero saputo che anni dopo, l’artista Maurizio Cattelan avrebbe impiccato non uno, ma ben tre bambolotti in Piazza XXIV Maggio a Milano, forse mi avrebbero dedicato un applauso di profonda stima. Ma così purtroppo vanno le cose della vita. E quindi da quel giorno, nel profondo del mio animo, ho sempre provato grande turbamento per quell’onta, soprattutto pensando al dispiacere che il mio gesto aveva provocato in colui che aveva regalato quella bambola. Qualche tempo fa ho ricominciato a sentire via mail una ragazza che quell’anno era in montagna con me. Una ragazza che mi aveva colpito molto in quei giorni e che, nonostante i miei sforzi, non ero riuscito più a rintracciare. Ed ecco un breve, sorprendente estratto delle conversazioni:
«È strana questa faccenda, sai. In fondo ti ho vista solo una volta, eppure mi sei rimasta dentro. Non so perché, alle volte me lo chiedo. Forse perché in te c’ho visto qualcosa di speciale, di raro […]. Io spero che un giorno tu possa tornare a guardare questo nostro disgraziatissimo paese con occhi diversi. E non ultimo mi auguro un giorno di poterti rivedere…! Un abbraccio forte, fortissimo da toglierti il fiato».
«Che parole! E io che pensavo che mi avessi bocciata dopo aver ricevuto in regalo la mia bambola di strofinacci! [...]».
«No, davvero era tua la bambola di pezza…? Ecco svelato uno dei misteri più arcani della mia esistenza…! E io sbronzo come un ubriacone da bar che lanciavo il tuo regalo da una parte all’altra del tavolo insultandolo. Ora sono triste».
«Non essere triste per la bambola di strofinacci: esiste ancora un particolare che non conosci ancora e che completerà degnamente la storia… La bambola era un regalo riciclato! E non mi ricordo nemmeno da parte di chi fosse!».
«Quindi la bambola era un regalo riciclato…! Oddio, e non ti ricordi neanche chi te l’avesse regalata…! E io che per anni ho avuto manie di persecuzione, miraggi, palpitazioni, feroci extra-sistole… ogni volta che pensavo a quella situazione…! Da non credere....! Va beh, allora se non era una bambola a cui tenevi particolarmente, posso ricominciare a dormire sonni tranquilli… Grazie, grazie davvero tesoro…!».
«Si, si tranquillo: anzi, quand’è che rifacciamo una festicciola come quella? Ho di là un sacco di altra roba di cui liberarmi…».

Ecco, appunto.

giovedì 22 novembre 2012

A ogni epoca la sua giungla

Qualche giorno fa i giornali hanno dato ampio risalto alle dichiarazioni del professor Gerald Crabtree, genetista dell’Università di Stanford, in merito alla presunta diminuzione dell’intelligenza del genere umano rispetto all’epoca preistorica. In due successivi articoli, pubblicati dalla rivista Trends in Genetics, l’esimio docente britannico sostiene che nel paleozoico la «punizione per la stupidità» era molto più forte di oggi, e questo contribuiva a selezionare una categoria di esseri umani migliori, più efficienti, più resistenti: «Se un cacciatore non riusciva a risolvere il problema di come trovare cibo moriva, e con lui tutta la sua progenie; oggi invece un manager di Wall Street che fa un errore riceve un cospicuo bonus e diventa un maschio più attrattivo. Chiaramente la selezione naturale non è più così estrema».
In effetti, il fatto di non essere più costretti a procurarci il cibo cacciando o andando a raccogliere per i boschi, oppure di non essere più obbligati a difendere la nostra vita dall’assalto dei predatori, o anche di non dover più accendere un fuoco con pietre focaie e bastoncini di legno per sopravvivere al rigore dell’inverno, ci ha reso meno scaltri, meno pronti ad affrontare lo stato di natura e le difficoltà. «La nostra civiltà, moderna e super tecnologica - continua Crabtree - , potrebbe portare ad una diminuzione dell’intelligenza umana»; con la conseguenza che «l’uomo del futuro sarà sempre più stupido». Leggendo queste dotte osservazioni, ed essendo io per natura un ribelle contestatore, ho subito pensato ad un modo per ribattere alle asserzioni di questo tale Crabtree. In fondo a me è sempre piaciuto il metodo di ricerca basato su tesi e antitesi, anche se spesso non mi ha portato a scovare soluzioni, ma bensì a ritrovarmi ancor più immerso nei dubbi e nel marasma. Marasma nel quale tutto sommato mi trovo a mio agio. Nella mia confusione infatti mi ci trovo assai bene, e guai a chi cerca di offrirmi un po’ di chiarezza. Ad ogni modo, tornado alla questione, la memoria mi ha restituito un pezzo molto completo di Maurizio Milani, comico e scrittore eccelso - ed ora anche esperto di storia dell’Umanità - : «Allora, a me dispiace dirlo, ma l’uomo primitivo era un mezzo scemo». E già qui si potrebbe chiudere, tale e tanta è la potenza espressiva dell’incipit. Ma andiamo avanti: «Vagava tutto il giorno, diceva una cosa ne pensava un’altra. Tendeva all’obesità. Era bello. Non aveva voglia di lavorare. In ultimo si fidanzava. Dopo un mese si stufava, ma non aveva il coraggio di riferirlo all’amata. A sua volta la donna piangeva apposta. Così l’uomo primitivo non la lasciava per non offenderla. Dopo cinque anni finalmente costruiva una piroga di bambù e scappava dall’arpia. Nel nuovo posto (Manciuria) conosceva un’altra ragazza e ricominciava tutto. Alcuni uomini primitivi invece non trovavano la morosa. I motivi: primo, scarsa igiene; secondo, ragionamenti da imbecille». Ecco, basterebbe questo per mettere in discussione in radice la teoria dell’uomo primitivo intelligente. Ma già immaginiamo le possibili obiezioni del lettore di fronte a tale presa di posizione: “Il Milani non è abbastanza titolato per essere considerato fonte autorevole”; “Ha la gamba corta e fa ragionamenti da osteria”; “É grande obeso e dunque ha il cervello scarsamente ossigenato”. E così abbiamo cercato altre possibili fonti per ribaltare l’ipotesi che l’uomo primitivo fosse più intelligente dell’uomo contemporaneo. Molti studiosi ad esempio ritengono che nell’uomo non siano diminuite le facoltà intellettive, bensì si siano diversificate. Vale a dire che l’intelligenza di cui disponiamo oggi ha trovato applicazione in molteplici campi, saperi, interessi, passioni. Mentre un tempo all’uomo primitivo l’intelligenza serviva soprattutto per non essere divorato dall’orso primitivo, oggi per esempio serve per trovare cure alle malattie. Liberati cioè dall’impellenza della sopravvivenza pura e semplice, abbiamo potuto mettere l’intelligenza al servizio di fini più elevati. Gli studiosi inoltre sostengono che negli ultimi cento anni, il quoziente intellettivo medio ha continuato a crescere, anche grazie ad un migliore regime alimentare. Ma tanta parte presumo debbano aver avuto anche l’aumentata scolarizzazione, le migliori cure mediche, gli ambienti abitativi più salubri. E chissà cos’altro. Ma a parte tutto ciò, al professor Crabtree mi piacerebbe fare questo tipo di obiezione: “Secondo lei, l’epoca che stiamo vivendo, con la crisi economica, il disfacimento della società, lo sfaldamento di tutto il sistema valoriale su cui si è basato per secoli il consorzio civile, la mancanza di certezze e di prospettive, le battaglie per il lavoro, sono un terreno fertile per l’infiacchimento della razza umana? In altre parole, professore, stiamo giocando in casa? Quella che stiamo affrontando è una partita semplice, dal risultato scontato e per la quale possiamo anche permetterci di non mettere in campo tutte le nostre migliori energie? O al contrario, siamo al cospetto di una delle sfide più ardue che l’umanità abbia mai affrontato. E ancora, la sopravvivenza si gioca solo nella giungla, di fronte alle fiere feroci e alle bufere di neve, o non anche con avversari che hanno perso zanne e artigli, ma che rimangono allo stesso modo letali?”. L’altro giorno mi sono recato in posta per una pratica. L’ufficio postale era chiuso e affisso alla porta d’ingresso vi era un cartello che annunciava alla cittadinanza il fatto che da quella data in poi l’apertura sarebbe stata limitata a due soli giorni della settimana. Nessuna spiegazione in merito a questa limitazione del servizio. La notizia mi ha colto di sorpresa e mi ha alquanto infastidito. Anche perché erano anni che mi servivo di quello sportello e da ora in poi mi sarei sempre dovuto chiedere: “Sarà aperto o chiuso…?”. Oppure avrei dovuto giocare alla roulette e sperare. A quel punto sono salito in macchina e mi sono diretto alla posta centrale. Dietro di me alcuni anziani avevano un altro argomento del quale lamentarsi ad alta voce. E così, giunto a destinazione, sono sceso e mi sono messo in coda. Una coda interminabile e molto innervosita dai tempi d’attesa. Quando è giunto il mio turno mi sono avvicinato ad una delle due impiegate ed ho palesato la mia richiesta, vale a dire il rilascio di una carta di credito. A quel punto l’impiegata mi ha fatto accomodare nell’ufficio interno e, con una calma e lentezza da “Grande di Spagna”, ha cominciato a raccontarmi tutto, ma proprio tutto sui servizi che avrei potuto richiedere e sottoscrivere in quella filiale. Dall’utenza telefonica agli investimenti finanziari, dai conti correnti a tassi agevolati, alle spedizioni on-line. A quel punto, dato che la faccenda andava per le lunghe, ho cominciato a dar segni d’insofferenza. Avevo fretta e oltretutto sapevo che di là dal muro, una sola addetta allo sportello aveva a che fare con una fila di clienti inferociti. E così ad un tratto, anche al costo di apparire scortese, ho sbottato: «Senta, la ringrazio per tutto quello che mi sta dicendo, ma a me non interessa niente di niente. Sono qui solo per quella fottuta carta di credito». Al che la signora, che nel frattempo si era qualificata con gran pompa, come la direttrice dell’ufficio, ha subito messo mano alla documentazione e in breve ha risolto la pratica. Sulla soglia della porta, un attimo prima di andarmene, e ancora irritato per la chiusura del mio vecchio caro sportello postale, ho chiesto:
«Ah scusi, mi tolga una curiosità, ma come mai l’altro ufficio ha ridotto l’attività?».
«Perché l’unità produttiva di quell’ufficio non ha raggiunto l’obiettivo minimo prefissato».
«Come sarebbe l’unità produttiva, in che senso?».
«Sì, l’unità produttiva…, l’addetta dell’ufficio non ha fatto sottoscrivere abbastanza contratti, abbastanza abbonamenti telefonici…, insomma non ha raggiunto il target minimo di produttività economica. E dunque…».
«E le mie lettere, le mie raccomandate?».
«Arrangiatevi…».

Ecco professor Crabtree: “unità produttiva”. Questo le basta?

mercoledì 21 novembre 2012

L'intervista doppia per la Festa del Camminare 2012

Oggi proponiamo l'intervista doppia integrale realizzata durante la Festa del Camminare svoltasi a Vicopisano (PI) qualche mese fa.

D’AUSILIO INTERVISTA BARBAGALLO

1) Cosa conta in un camminatore?
Avere delle scarpe buone ed essere curioso su cosa c'è oltre il colle
2) Hai cambiato radicalmente vita alcuni anni fa e sei andato a vivere negli Appennini: ci descrivi la tua giornata tipo?
Veramente sto a 10' dall'autostrada A1. Non ho giornata tipo anche perché improvviso.
3) Qual è l’identikit del camminatore perfetto?
Parla poco, non si lamenta mai e non gli vengono le vesciche.
4) Quali sono le soddisfazioni più belle che si raccolgono conducendo un trekking?
Quando tutti i partecipanti sono a letto e dormono con quel sorriso beato di chi è stanco ma felice.
5) Puoi spiegarci quali sono i benefici fisici e mentali del camminare per una persona giovane? Sicuramente fa meglio che stare davanti al computer.
6) Quanto sono importanti i sapori gastronomici in un viaggio a piedi?
Il 30% della riuscita del trekking a volte il 70%.
7) Come hai scoperto il camminare?
Da molto piccolo intorno all'anno di età ma non mi ricordo se gattonando o con il girello (all'epoca si usava).
8) Con XXX proponi molti viaggi a piedi: come sei venuto a conoscenza di tutto questi posti così diversi gli uni dagli altri?
Sono un vagabondo.
9) Quali fra questi posti sono preferiti dai camminatori?
Dolomiti e Val Maira in Piemonte vanno tanto.
10) Preferisci i viaggi brevi o di più giorni?
Io amo il trekking itinerante di almeno una settimana con zaino sulle spalle ma non più di 15 giorni di fila perché poi mi rompo un po'.
11) Ami camminare solo?
Manco per niente; la mia resistenza a camminare da solo non supera i tre giorni.
12) In che modo è possibile migliorare gli aspetti organizzativi del viaggio?
Accogliendo le critiche e i consigli dei partecipanti .
13) E nel tempo libero, cosa ami fare?
Dormire fino tardi e giocare con Alice e/o Duccio
14) Ti porti ancora dietro il Diario di Arnaud durante il trekking del Glorioso Rimpatrio, o lo scarichi sulla schiena di un partecipante?
Spero sempre di beccare un partecipante mentre usa il telefonino e punirlo facendogli portare il libro.
15) Che rapporto hai con i camminatori che prendono parte ai tuoi viaggi?
Dipende normalmente sto' abbastanza simpatico.
16) Tre cose da portare con sé in ogni viaggio?
Zaino, scarpone destro e sinistro (e siamo a tre?).
17) Noti un fermento nei mezzi di comunicazione e di informazione, anche nazionali, sui viaggi a piedi?
Sono di gran moda.
18) Come e perché sei diventato una guida ambientale?
Per campare in modo eco e sostenibile e per decrescere moooooooooooooooooooooolto.
19) Qual è il primo consiglio che dai a un camminatore?
Tagliarsi le unghie dei piedi, ma nel giusto modo se no si incarniscono.
20) Le nuove generazioni sono sensibili al camminare? Perché ai trekking si iscrivono quasi sempre e soltanto relitti umani?
No fino a che non si accorgono di avere il colesterolo alto. Non e' vero e' pieno di bella gente.
21) Non sei più giovanissimo, fino a quando vuoi vestire gli abiti da guida?
Fino a che schianterò sul sentiero schiacciato dallo zaino o dalla responsabilità.
22) A chi afferma che camminare è fatica, cosa rispondi?
Ha ragione!
23) Come cambia il rapporto con il cammino dal Nord al Sud dell’Italia?
Senza generalizzare il mio rapporto quando sono: al nord cammino tutto il giorno, magari senza mangiare; al centro mezza giornata e poi si va a mangiare; al sud si raggiunge il posto dove si mangia possibilmente vicino.
24) Qual è il ritmo dei tuoi viaggi a piedi?
Lento se non ci minaccia un temporale.
25) Qual è il tuo rapporto con le nuove tecnologie e i social network, sono utili per la tua attività? Sono utilissimi non devo più stamparmi i volantini e andarmeli a distribuire in giro.
26) Qual è il periodo che preferisci per viaggiare a piedi?
Tutto l'anno basta che non piova.
27) Quali sono le storie che racconti nei tuoi viaggi?
Tante e non tutte vere.
28) Sei comunista?
Posso affermare senza tema di smentita di essere una vittima del comunismo peggio che l'Albania. 29) Che rapporto hai con il denaro? Ti definiresti un prodigo o un taccagno fatto e finito?
Sono un taccagnissimo e sarà sempre peggio.

BARBAGALLO INTERVISTA D’AUSILIO

1) Per diventare scrittore bisogna leggere tanto?
Si, inevitabilmente. Anche se poi si corre il rischio di essere risucchiati da qualche autore, di esserne irrimediabilmente attratti, per poi imitarne, anche involontariamente, lo stile.
2) Quale è il libro più bello che hai letto?
Don Chisciotte. Rispondo senza pensarci. Entusiasmante, comico, a tratti tragico, completo direbbe Maurizio Milani. Come dice Erri De Luca, il vero “Invincibile”.
3) Prendi appunti solo durante i viaggi o anche normalmente per strada nella vita di tutti i giorni? Porto sempre con me un block-notes. Mi piace annotare frasi, battute, modi di dire originali. Ho una memoria a lungo termine molto forte, ma sono debolissimo sugli avvenimenti recenti. Da un piccolo spunto può nascere un grande racconto.
4) Vorresti vivere di sola letteratura?
È il sogno di tutti gli scrittori, ma in Italia è pressoché impossibile. Nei paesi anglosassoni ci sono molte più opportunità che non da noi. Le nuove tecnologie consentono di raggiungere un pubblico molto più vasto. E poi i costi di vendita sono più bassi e quindi più accessibili alle masse. E inoltre loro non hanno Bruno Vespa, né la Clerici e la Parodi.
5) A quale scrittore ti ispiri?
Mi piace scrivere per divertire: se non rido rileggendo ciò che ho scritto lo cancello subito. Adoro Gogol, trovo straordinaria la sua vena ironica. L’Ispettore Generale, ma anche Le Anime Morte sono capolavori di comicità, ancorché di letteratura. Da lui a scendere c’è Paolo Villaggio, soprattutto i primi libri pubblicati per Rizzoli, e infine Maurizio Milani: un genio.
6) Scrivere è faticoso?
Alle volte sì, ma è un’attività che svolgi soprattutto per te stesso, per il tuo piacere personale. A volte è talmente forte la necessità di scrivere che ti prende una frenesia incontrollata, ti sgorgano parole veloci, e hai fretta di metterle giù prima che riprendano a vagare…! E’ uno stato di ispirazione che va e viene: e bisogna afferrarlo prima che se ne vada di nuovo.
7) Che media avevi di Italiano alle medie?
Avevo una media molto alta, fu la mia professoressa di italiano a indirizzarmi verso il liceo classico. Io accettai il suggerimento perché ero una schiappa in matematica e al classico si facevano solo due ore a settimana.
8) E alle superiori?
Nella media, senza infamia né lode. Valutare un tema, al di là degli errori di ortografia o sintassi, è cosa assai complicata. Dipende dai gusti.
9) Se tu fossi in cordata su un ghiacciaio con Erri De Luca e Mauro Corona, SCIVOLATE! a chi dei due taglieresti la corda per salvarti?
Credo a nessuno dei due: sono sempre stato amante del bel gesto. E comunque bisogna trovarcisi in quella situazione: a parole sono buoni tutti. Ad ogni modo del primo ho tutti i libri, del secondo neanche uno.
10) Chi ti piacerebbe incontrare tra gli scrittori in vita?
Ne ho già incontrati molti, mi piace seguire le presentazioni dei libri dei miei autori preferiti. L’incontro più bello l’ho avuto con Dario Fo, casualmente in una trattoria di Milano. Ero così euforico di quell’incontro che non mi sono neanche accorto che era lì al tavolo con la moglie…!
11) E tra quelli trapassati? Senza dubbio Terzani. Un faro: ho scritto racconti di viaggio perché prima avevo viaggiato con i suoi libri.
12) Ami fare delle caricature dei personaggi dei viaggi, tu che fumetto saresti?
Non ho mai letto fumetti in vita mia: sono sempre stato un bambino orribilmente più maturo della mia età.
13) Quanto è stato importante per te lo sceneggiato con Kabir Bedi degli anni ‘70?
Ho dei ricordi molto sbiaditi, perlopiù negativi. Le colonne sonore di quello sceneggiato erano assolutamente ansiogene…, peggio di Orzoway… e poi i personaggi rischiavano sempre di essere divorati dalla tigre. C’era da non dormire la notte. No, direi che non mi piaceva proprio per niente. 14) Paolo Villaggio ti piace di più come Fantozzi, Fracchia o come opinionista politico?
Fantozzi senza dubbio. Mi piacerebbe che un giorno inventassero una pillola capace di cancellare solo alcune parti della memoria. Rivedrei con occhi nuovi quei film e rischierei, come per la prima volta, l’arresto respiratorio per il troppo ridere. Tra l’altro i libri sono più comici dei film: da non credere.
15) Per ogni libro pubblicato quanto guadagni?
Pochissimo, i contratti standard si aggirano sul 10% del prezzo di copertina.
16) Sei d'accordo con la difesa dei diritti d'autore contro internet etc.?
Credo che i diritti d’autore abbiano un senso per un periodo limitato di tempo. Qualche anno, non di più. Dopodiché devono diventare patrimonio dell’umanità.
17) Libri di carta o tablet?
Rigorosamente di carta. Penso che solo un’arida mente da “cinghiale laureato in matematica”, come diceva De Andrè, potesse inventare una cosa di questo genere.
18) Sei comunista?
No, mai stato. Neanche quando abitavo a Sesto San Giovanni, la Stalingrado d’Italia. Anzi, per reazione ero diventato missino. Frequentavo anche le sezioni di partito. Poi me ne andai. Era una tale noia: giocavamo sempre a risiko e ci si scannava per le armate nere….! Col tempo sono diventato un “giustizialista”, come si usa dire con termine spregiativo. Prima di tornare a votare per la destra o la sinistra (ammesso e non concesso che tali termini abbiano ancora un significato) bisogna ristabilire la democrazia in questo paese.
19) Scrivi anche poesie?
No, niente poesie. Non mi appartiene proprio il genere e non lo capisco. Sono un anaffettivo arido e senza passione.
20) Cosa fai per prevenire il callo dello scrittore?
Ehi, non scherziamo, io sono solo un cialtrone che scrive fesserie per passione. Fai la domanda a Bruno Vespa.
21) E vero che sei amico di Rumitz?
No, l’ho incontrato a Crema durante la presentazione de La cotogna di Istambul. Dato che sono amico del libraio che aveva organizzato l’incontro, siamo andati a bere qualcosa insieme. E’ un grande intenditore di vini…! Eravamo in quattro. Ho avuto il privilegio di avere tra le mani le bozze de Il bene ostinato. E’ stato emozionante.
22) Quale è il tuo quotidiano preferito?
Leggo spesso Il Fatto Quotidiano, ma in generale mi informo sul web. Tra l’altro pochi sanno che sul sito istituzionale della Camera c’è una rassegna stampa molto ben fatta, pagata dai contribuenti e scaricabile gratuitamente. Le do quasi tutti i giorni un’occhiata.
23) Hai camminato con molte associazioni quale è quella con i gruppi più simpatici?
Ho cominciato a viaggiare nel 2005. Prima di allora facevo delle vacanze vomitevoli, con la solita compagnia di giro, presso località balneari rinomate. Dopo aver provato diverse associazioni, posso dire, senza ombra di dubbio, che XXX è la migliore. E Maurizio anche, pure meglio di Kit Carson.
Eravamo d'accordo per 50 euro subito e 50 dopo la pubblicazione. Mi raccomando, niente scherzi.

martedì 20 novembre 2012

Una risposta spiazzante

Un paio di settimane fa sono andato a cena con una ex-collega. Non ci vedevamo da oltre dieci anni, vale a dire dai tempi in cui fui espulso dalla società per la quale lavoravo - e sì, già a quei tempi ero un gran bel farabutto - . Si trattava di una cooperativa che impiegava personale per la fiera di Milano e non solo. Ci occupavamo di accoglienza, ricevimento, e sorveglianza in occasione delle manifestazioni che si svolgevano durante l’anno. Fu il mio primo lavoro, e sebbene non fosse il massimo cui potessi aspirare, rimane nella mia mente e nei miei ricordi, come una delle esperienze più belle che abbia mai fatto. Anche perché si protrasse per diversi anni, e non si resta in un certo posto così a lungo se non piace e ci si trova bene.
In effetti era un ambiente giovane – i soci-lavoratori erano perlopiù studenti universitari – e il lavoro era sì lavoro, ma era anche un po’ divertimento. E le giornate poi, soprattutto se si ricopriva la qualifica di “coordinatore” qual’ero io, volavano letteralmente, visto e considerato che si era sempre in movimento, si conoscevano decine di persone ogni giorno, si legavano relazioni intense con i colleghi. Quando poi c’erano manifestazioni come il Salone Internazionale del Ciclo e Motociclo anche l’occhio aveva il suo bel tornaconto: “Donne e motori…, gioie e dolori”. Più gioie naturalmente: mai visto tante belle ragazze concentrate tutte insieme, neanche durante la Settimana della Moda. E così quelle giornate volavano via senza quasi accorgersene, a volte lavorando da buio a buio. Certo la faccenda cambiava se invece di essere un coordinatore del servizio ti trovavi a presidiare un’uscita di emergenza: lì la noia e la monotonia potevano anche condurre un soggetto poco equilibrato verso propositi sconsiderati e insani. Pare che lì sia nata per la prima volta l’idea del bungee jumping senza corda. Ed infatti, dialogando appunto con questa mia collega, è venuto fuori proprio questo diverso punto di vista. A dirla tutta la figura del “coordinatore”, nonostante all’epoca mi ostinassimo a considerarla un insieme di responsabilità e nulla più, era effettivamente un privilegio inestimabile rispetto a tutto il resto del personale. «Non sai quanto vi odiavamo – diceva Tamara fissandomi con uno sguardo tra il serio e il faceto - , potevano passare ore intere senza che nessuno vi vedesse…, ma dove diavolo vi andavate a cacciare?». Ogni mattina i coordinatori trovavamo una lista di persone incaricate di determinati servizi, e da quel momento in poi, tutto ciò che accadeva nel bene e nel male, in una determinata zona della fiera, ricadeva sotto la responsabilità loro: logistica, standard lavorativi, sostituzioni, pause pranzo e tutto il resto. Il coordinatore inoltre sostituiva materialmente i lavoratori per delle brevi pause che consentissero l’espletazione dei più elementari bisogni fisiologici. Come in ogni ambiente lavorativo c’erano elementi buoni ed altri cattivi. Anzi pessimi. E la categoria dei coordinatori non si sottraeva a questa regola. Alcuni erano davvero dei farabutti, facevano un giro rapidissimo tra le varie postazioni del personale loro assegnato, e senza neanche fermarsi a dire una parola, sparivano per ore intere, rendendosi assolutamente irreperibili. Dove andassero lo sapevo benissimo: il bar era il loro naturale ritrovo…! A dire il vero anch’io di tanto in tanto mi imboscavo, ma non era quello il mio piacere più grande. Io amavo incontrare persone, parlare con loro, sapere le loro storie. Sono sempre stato così, fin da piccolo, e quel lavoro mi consentiva di dar sfogo a questa smania di conoscenza. E di certo stando seduti al bar non si sarebbe conosciuta tutta quell’umanità: al massimo si faceva amicizia con la fiasca e qualche ubriacone. Ad ogni modo una volta capitò che il nostro personale fosse impegnato nei padiglioni nuovi del Portello. Era una delle prime volte che una manifestazione si svolgeva in quell’ambito, e la logistica era ancora di là dall’essere messa completamente a punto. C’erano più di un centinaio di addetti e i coordinatori circa una decina. Cercammo fin dal primo momento di suddividerci i compiti come meglio potevamo, facendo affidamento sulla nostra esperienza. Molto tuttavia restava legato l’improvvisazione. E così, intorno ad un tavolino mettemmo giù il piano operativo: «Allora, statemi bene a sentire, dobbiamo cercare di interagire, ognuno di noi si prenderà in carico un’area…, lasciate stare le liste del personale, pensate ai settori». «Esatto, sono perfettamente d’accordo: le liste sono fatte male, gli uomini sono sparpagliati in aree troppo distanti…, non è fattibile dar retta a schemi fissi. Dall’ufficio non hanno idea di cosa siano questi nuovi padiglioni…». «Giusto: l’unica cosa da fare è questa: Giovanni, tu prenderai in carico il primo livello, fino alla Torre Colleoni; tu Andrea parti dal Timpano e arrivi fino alla balconata Teodorico; Fabio, tu invece ti fai il resto, fino all’ingresso Scarampo…». E così, raggiunto un accordo di massima la manifestazione sembrò veleggiare verso acque tranquille. Per tutta la giornata comunque ci fu la necessità di sistemare qualcosa, di modificare qualche area di competenza, di rifinire dei dettagli. Ma nel complesso la giornata trascorse senza grosse difficoltà. Giunti a sera il personale cominciò a smontare dalle postazioni. I coordinatori attendevano presso il gabbiotto d’uscita che tutti passassero a timbrare il cartellino, così da spuntarli ed avere la certezza che non ci fosse più nessuno in giro. Verso le otto di sera non c’era praticamente più nessuno ed anche io e il mio collega Massimo, stanchissimi ma soddisfatti, ci preparavamo a smontare. Ad un tratto da una porta lontana saltò fuori uno dei nostri uomini. Da lontano non riuscivamo a intuire chi fosse. Ci guardammo in faccia e all’unisono ce ne uscimmo con una frase di tenore oxfordiano: «E questo chi cazzo è…?». E mentre ci veniva incontro costui, con il suo passo dondolante ed il volto che si contorceva in smorfie assai particolari, capimmo di chi si trattava. Era costui un personaggio alquanto singolare, poco più che trentenne, un tantino fuori di testa, ed era considerato da tutti il decano degli ascensoristi: una vita intera dedicata con grande abnegazione alla conduzione di elevatori, montacarichi, ascensori piccoli, medi, o anche giganteschi, di quelli che portavano su i tir. «Porca troia… - disse Massimo - , ma chi è che aveva in carico sto poveretto? Vuoi vedere che era nella mia lista?». «E no eh…, non me lo dire neanche per scherzo…, questo tizio è sicuramente qui dall’alba…!». «E sì, eccolo qua…, è segnato sull’ascensore numero 59. Cazzarola…, questo vuol dire che non ha visto nessuno per tutta la giornata…». «Quattordici ore senza neanche andare a pisciare…! Avrà la vescica gonfia come un canotto…». «Mi dispiace sai…, ma con sto casino di oggi…, me lo sono completamente perso. E poi non era mica di competenza di Andrea?». «Boh…, non ci capisco più niente… Ed ora come ne veniamo fuori, che gli diciamo…, come ci giustifichiamo?». «Dai retta a me, facciamo finta di niente: lascia che parli io». Il poveretto ci raggiunse, aveva una faccia stralunata, i capelli scompigliati, faceva dei versi strani e sembrava che parlasse con se stesso. Massimo mi guardò e lasciò partire una smorfia che tratteneva malamente una risata. Non riuscii a reggere e dovetti far finta che mi fosse caduta la penna per non esplodergli in faccia. A quel punto Massimo si ricompose e come nulla fosse disse: «Oh buonasera signor Petazzi. Da dove arriva di bello?». Al che il tipo lanciò uno sguardo verso l’alto, come a cercare una risposta alla quadratura del cerchio, ed esclamò con molta convinzione: «Petazzi…, Petazzi». Massimo mi guardò ancora…, gli occhi sgranati…, gli angoli della bocca protesi verso il basso e le gote gonfie da trombettista: ultimo disperatissimo tentativo di restare serio. Fu un attimo, scoppiammo a ridere come due idioti fatti e finiti.
E così, quando ho terminato di raccontare questo episodio a Tamara, lei mi ha guardato e sorridendo mi ha detto: «Che stronzi…». E le ho dato ragione.

lunedì 19 novembre 2012

Maratona che passione

Ieri si è svolta la sesta edizione della maratonina di Crema - Trofeo Memorial Daniele Verga - , corsa competitiva sulla distanza di 21 km. e 97 metri, omologata Fidal. Quest’anno i partecipanti sono stati più di due mila, record assoluto da che è nata l’iniziativa. La giornata era fredda e umida, ma perlomeno non c’è stata pioggia quest’anno. E d’altra parte non si può pretendere un clima particolarmente mite a metà novembre. I corridori si sono presentati al nastro di partenza in perfetto orario e, alle nove in punto da Piazza Garibaldi, un colpo di pistola ha dato il via alla corsa. E mentre gli atleti sgomitando cercavano di accaparrarsi le prime file, sullo sfondo uno spettatore, malauguratamente in asse con la canna da fuoco dello starter, si è accasciato al suolo senza un lamento e nell’indifferenza generale. Pare solo che qualcuno abbia commentato assai opportunamente: «Non gli date retta, è un mitomane da competizione».
Un paio d’anni fa prestavo assistenza sanitaria alla gara con la CRI: pioveva insistentemente fin dalla sera prima e dal cielo veniva giù un’acqua puntuta e gelida. I maratoneti, nell’attesa della partenza, sgambettavano nervosamente cercando di tenere i muscoli caldi. Erano tutti avvolti da tele cerate, impermeabili di fortuna e buste di plastica maxi, di quelle in uso per la spazzatura. Facevano una pena orrenda e i pochi che assistevano alla partenza di quel plotone di disperati, avevano l’espressione tipica di coloro che assistono impotenti al massacro di un branco di foche monache. Al solito sparo - quella volta a cadere folgorato fu uno spettatore affacciato al balcone del terzo piano, sopra la farmacia - ci fu la classica ressa furibonda, seguita da un silenzio irreale. Per terra restavano centinaia di k-way, ombrellini, buste di plastica lacerate, ed ogni altro indumento che aveva potuto preservare gli atleti dalla pioggia. Pareva fossimo stati catapultati a Napoli, in epoca di abbandono selvaggio dei rifiuti. Il maratoneta infatti, a differenza di altri atleti tipo i ciclisti, corre sempre in totale deshabillé: a lui basta una canottiera e un paio di pantaloncini. Vi sono poi alcune donne che rasentano l’esibizionismo correndo addirittura in bikini. E questo sia che piova o nevichi, sia che ci sia un sole che squaglia l’asfalto. E così, non avendo per il momento altre incombenze, i volontari della CRI furono ben lieti di adoperarsi al ripristino del decoro urbano, ripulendo tutto il piazzale. Ieri il primo classificato nella categoria maschile è stato Yassine Rachik con il tempo di un’ora e sei minuti. Tra le donne invece si è imposta Maria Righetti, con un’ora e diciassette. Ma al di là di questi preclari professionisti, quello che veramente fa appassionare la cittadinanza a queste manifestazioni è la gran quantità di “gente comune” che si cimenta in quest’impresa. Ci sono anonimi dipendenti di banca, professionisti di chiara fama, bibliotecarie polverose, casalinghe, sindaci; e poi giovani, meno giovani, persone anziane, vecchi decrepiti…! Una congerie variegata che non esclude alcuna categoria sociale. Tra le due ali di spettatori che facevano da corona all’arrivo, ci sono state scene davvero commoventi: persone esauste giunte quasi sulle ginocchia, mariti e mogli che tagliavano il traguardo mano nella mano, uomini anziani che incitavano i presenti chiedendo applausi, sconosciuti che si abbracciavano felici della loro impresa. E poi, in un silenzio di profondo stupore e ammirazione anche un uomo in carrozzella, spinto da un gigante rubizzo e sbruffante. Io non so cosa spinga tutte queste persone a correre, non ne capisco né il motivo, né il piacere insito in uno sforzo di questo genere. Quando da ragazzo facevo atletica leggera, la sessione d’allenamento si apriva sempre con cinque giri di corsa di riscaldamento. Cinque giri di pista d’atletica che corrispondono a due chilometri. Per me, abituato alla corsa veloce, era una tortura al limite dello sfinimento. Giungevo sempre stravolto, in preda a feroci miraggi e con le energie a zero. Tant’è che poi traccheggiavo malamente negli scatti e nelle ripetute. Dovetti, mio malgrado, cominciare a barare biecamente: ad ogni transito sul traguardo aggiungevo sempre ad alta voce un paio di giri rispetto al percorso fatto. L’allenatore si accorgeva di tutto, ma faceva finta di niente. Negli anni poi, abbandonata l’atletica, ho cercato a più riprese di corrichiare, di fare un po’ di fondo, come si suol dire. Anche perché ho diversi amici che amano questa disciplina e magnificano i benefici fisici di tale sport. E così di tanto in tanto, ci ricasco, ed ogni volta è lo stesso identico dramma: dolori muscolari e crampi micidiali, anche nei giorni successivi allo sforzo. «Devi insistere - commentano loro - , vedrai che piano piano, chilometro dopo chilometro, il fisico si abituerà e non ti fermerà più nessuno». E in me monta la rabbia e la delusione. Anche perché vedo che effettivamente i benefici sull’organismo di questi atleti sono notevoli. C’è infatti l’abitudine da parte dei fondisti di farsi rilevare la pressione dopo la corsa, e noi volontari della CRI siamo ben felici di esaudire questa richiesta. Ebbene, non ho mai visto dei valori così perfetti in anni di attività. Si trattasse anche di persone a cui non daresti due centesimi. Certo poi ci sono i casi di cronaca che ci ragguagliano su qualche decesso - in questo fine settimana un uomo è stato stroncato da un infarto durante la maratona di Palermo - , c’è chi parla di eccessivo affaticamento dell’impalcatura ossea, di malanni muscolari da stress ed altro. Ma nella sostanza pare proprio che la corsa faccia bene. Una mia cara amica di nome Antonietta, ad esempio, ha cominciato a correre qualche annetto fa, ed ora è stabilmente in cima alle classifiche della sua categoria. E’ un vero fenomeno, e se fosse giunta a questo sport in età più tenera, probabilmente la federazione italiana avrebbe avuto una freccia in più da spendere nelle competizioni internazionali. Antonietta va molto fiera di queste sue performance e non perde mai occasione di vantarsi con amici e conoscenti. E’ talmente affascinata dalla corsa che cerca sempre di migliorarsi, di limare qualche secondo al suo record personale. Anche al costo di incorrere in qualche incidente di percorso. Una volta si era messa in testa di fare il suo personale, ma a causa di una improvvisa indisposizione, il cimento si era rivelato più arduo del previsto. Ma lei è una tosta, una di quelle persone che quando si mettono in testa una cosa non se la tolgono più. E così chilometro dopo chilometro aumentava il ritmo, l’impegno, la grinta. Intorno alla metà della gara però la situazione sembrò precipitare. E dunque cominciò a correre guardandosi intorno angosciata. Poi all’improvviso ecco la salvezza: un bar aperto. E così - sempre con un occhio al cronometro - uscì senza un attimo d’esitazione dal percorso e infilò la porta dell’esercizio: «Dov’è il bagno…? Presto, è una faccenda molto seria questa…». Il barista e tutti i clienti del locale rimasero folgorati da quell’apparizione e soprattutto dall’espressione stravolta della mia amica. Ad un tipo molto apprensivo cadde finanche la tazzina del caffè di mano e il padrone del bar commentò giusto un filo adombrato: «E che cazzo…!». «Eh allora… - dovette ripetere Antonietta quasi urlando - sta latrina…?». «In fondo a destra - rispose lo sguattero - , come sempre del resto…». La faccenda venne esplicata in un tempo di assoluto valore mondiale: non ci fu purtroppo l’omologazione a causa della mancanza di prontezza del latrinaio. Antonietta saltò fuori dal bar e si dileguò verso il traguardo, senza neanche salutare chi le chiedeva un autografo. All’arrivo frantumò non solo il suo tempo personale, ma anche quello della categoria donne. E a chi le chiese un commento rispose solo: «Una passeggiata di salute...».

venerdì 16 novembre 2012

L'ignoranza e "la merda d'artista"

Qualche giorno fa ad un’asta di Sotheby’s, New York, è stata venduta per 75,1 milioni di dollari (equivalenti a 59 milioni di euro) un’opera di Mark Rathko, un pittore americano di origine lettone. Il titolo dell’opera? Royal Red and Blue. Ed in effetti trattasi proprio di tre colori sovrapposti su di una tela color rosa. “L’opera - riporta la stampa - è considerata dai critici come una delle più rappresentative dello stile di Rothko, con il suo accostamento semplice, ma sorprendente di blocchi di colore […] il capolavoro di grande respiro e precursore dello stile dell’artista”. Allora, devo essere sincero e ammettere tutta la mia ignoranza in materia: a me sto quadro fa letteralmente schifo. Guardandolo e riguardandolo non riuscivo a credere che qualcuno avesse potuto sborsare veramente quella somma iperbolica per appendersi in casa quell’affare (e parlo da incompetente, naturalmente). Per un attimo mi sono immedesimato completamente nei panni di Alberto Sordi, in visita alla Biennale di Venezia: "Sedia con corpo adagiato...". "Aho, ma chi so questi, me stanno a fotografà...!". "Scusino, ma che vogliono..., questa è la mia signora..."(Vacanze intelligenti, 1978). E dunque tanta e tale era la mia indignazione che ne ho parlato con una mia amica, una grande esperta di arte, anche per cercare di capirci qualcosa:

«Che ne dici di sto quadro? Io non ci capisco più niente, in questo mondo non mi ci raccapezzo più…! Un mio amico per esempio, ha speso una fortuna per un quadro di tale Sbirlotti da Buccinasco, artista post-moderno. Hai presente? Una tela di juta…, mezza bruciacchiata…, appesa ad un quadraccio fatto con le cassette della frutta. Piena di acari per giunta…, che poi tra l’altro lui è pure allergico alla polvere. Qualche giorno vado di nascosto a casa sua… e gli passo il pulivapor sul capolavoro…!».
«Per prima cosa nell’arte post moderna è necessario ficcarsi in testa due cose: non è l’aspetto del “disegnino” che conta, ma il fatto di essere il primo a cui viene in mente una certa idea. Cosa significa, nella zucca dell’autore quella roba lì; e poi c’è il corollario: cosa suscita in te che guardi. E poi c’è il desiderio di stupire, che spesso sfocia nella volontà di “scandalizzare”».
«E a te cosa suscita quella robaccia?».
«Dipende dalla robaccia: per esempio quello che mi hai girato prima, quello giallo e arancione, per me è un’alba apocalittica su un mondo trasformato…».
«Dio mio…, Cristina…, tutto bene? Un’alba apocalittica…? Ma a questo qua avanzava un po’ di tempera dalla ritinteggiatura del sottoscala e l’ha sparata col rullo sulla tela…! Almeno i contorni, che diamine, li poteva rifinire meglio…».
«Guardando queste opere si corre il rischio di liquidarle con un “eh bravo, ma così cono capace anche io…”. A parte il fatto che chi fa quadri di questo genere solitamente non ha problemi a realizzare copie del tutto identiche a quadri famosi di grandi artisti, e non credo che il fruitore medio di esposizioni artistiche sia in grado di fare lo stesso; senza poi contare che sì, forse sarebbero capaci tutti, ma solo a uno è venuta l’idea e l’ha realizzata: in questo si trova l’arte».
«Tipo la “merda d’artista”?»
«Esatto».
«È un impazzimento…, ecco come la penso. E noi gli andiamo pure dietro…! Per me la merda è merda. Anche se la fa Michelangelo».
«Al di là dei contenuti simbolici che credo ti sfuggano…, come sempre parli senza sapere».
«Ebbene si, lo ammetto: sono un ignorante. A me sta roba fa schifo. E vorrei vedere tra duecento anni cosa diranno i nostri posteri di queste tele multicolor».
«Se sapessi ti toglieresti il cappello».
«No, non voglio sapere. E anzi, sai cosa ti dico: la merda d’artista la butto nel cesso e tiro anche lo sciacquone».
«La merda d’artista è stata creata apposta come reazione al business che l’arte crea: siccome l’arte vende qualunque zozzeria e il mercato si impenna per qualunque porcata, allora ciò significa che l’artista può fare qualunque cosa e il mercato la valuta e la compra? Benissimo allora io vendo “merda d’artista”. Un’opera d’arte di contestazione, di aperta contestazione. Non un’opera fine a se stessa, ma qualcosa che esprime potentemente e immediatamente un concetto altrimenti più lungo e contorto…».
«… scusa Cri…, mi sono perso: potresti ripetermi il concetto…?».

giovedì 15 novembre 2012

Ha da passa’ ‘a nuttata

«E la maestra, ti capita di rivederla?».
«Si, di tanto in tanto la vedo. E ora cammina anche meglio: non porta neanche più il bastone».
«Bei tempi e che meraviglia di scuola. Avevamo anche le palestre, te le ricordi?».
«Si, e poi tutto quel verde ben curato…, e la ricreazione? Rammenti quel signore che portava frutta e panini? Altro che le merendine all’uranio impoverito e gli snack fatti con gli avanzi di topi morti. Non ci mancava nulla. Peccato che ormai…».
«Peccato cosa?».
«Ah già, ma tu non sai niente: la nostra scuola…».
«La nostra scuola cosa…?».
«Beh non esiste più…! O meglio esiste, ma non ci sono più dentro i bambini. Ora l’interno edificio è diventato un gerontocomio. Si insomma, una casa di riposo, una specie di “residence anni azzurri”». «Nooo, non è possibile…! Non ci credo. Ma com’è potuto succedere? Ma se quando eravamo piccoli quella scuola era affollatissima…, ogni classe aveva almeno trenta alunni…! Che tragedia».
«E beh, sai come vanno le cose…, ormai nessuno più fa figli…, e quindi…».
«E sì, è triste ammetterlo, ma è proprio così. Però, ora che ci penso, non tutti i mali vengono per nuocere…».
«Cosa vorresti dire?».
«Stavo pensando che noi abbiamo cominciato in quella scuola il nostro cammino…, quando ci avvicineremo alla fine…, beh abbiamo un posto dove tornare: dalla culla alla tomba. Così chiudiamo il cerchio…!».
«A no, questo no: alla mia vecchiaia ci penserà la mia bella famigliola…».
«Ah sì, ne sei proprio sicuro? Sei proprio certo che troverai in casa qualcuno che ti prepari tutte le sere il semolino, ti dia lo sciroppone prima di coricarti e ti cambi il pannolone? Ad ogni modo io mi porto avanti: meglio essere previdenti. Proverò a rintracciare il bidello, Briguglio. Te lo ricordi?».
«È morto venticinque anni fa…».
Qualche tempo fa così conversavo in chat con un vecchio amico delle scuole elementari. Avendo lasciato neanche ventenne la città in cui ero nato e vissuto, avevo perso il contatto con quella realtà. Realtà che chiaramente era mutata, si era evoluto, distaccandosi anche notevolmente da quella che avevo vissuto io. E così, attraverso quei vecchi-nuovi contatti via web, riuscivo a ricostruire gli avvenimenti e a riempire i vuoti di quel passato. La mia cara, amatissima scuola “Anna Frank” non raccoglieva più i bimbi del quartiere Rondinella, la chiassosa e spensierata infanzia che si appropinquava alla vita, ma l’ultima tappa della terza età. Segno dei tempi.Stamane i giornali, oltre alle notizie riguardanti le manifestazioni – anche violente – svoltesi ieri nelle piazze italiane ed europee contro le misure di austerity imposte dai governi nazionali, si occupano anche dell’annuale rapporto Istat. Tra tutti i dati, quello che emerge più forte è il calo della natalità nel nostro paese: quindicimila bambini in meno rispetto all’anno passato. E il dato sarebbe ancor più preoccupante se non ci fossero gli stranieri che continuano a moltiplicarsi nonostante la crisi. Tra le coppie italiane infatti, dal 2008 ad oggi si registra un calo di quarantamila nascite. Emerge inoltre dal rapporto che un quarto dei neonati nascono da coppie non sposate, tendenza che va consolidandosi, mettendo il luce il fatto che l’istituto matrimonio non è più considerato propedeutico e indispensabile per mettere al mondo figli. I sociologi spiegano questi dati con il momento di crisi che stiamo affrontando: ci sono meno risorse, meno certezze, il futuro ci appare gravido di brutti presagi e senza speranza; a chi lasciare poi i figli, in un periodo in cui anche ai nonni – ormai da tempo considerati la stampella a cui appoggiarsi in caso di bisogno – viene imposto di andare in pensione sempre più tardi? Tutti buoni motivi per non fare figli. O per rimandarli il più in là possibile: il sette per cento dei nati nel 2011 ha madri ultraquarantenni. Ed oltre a ciò si sottolinea la mancanza di politiche economiche a sostegno della famiglia, l’assenza di incentivi e sgravi fiscali, l’inadeguatezza del sistema di permessi per maternità/paternità. E così ecco spiegato questo trend negativo. Non manca peraltro qualche illustre opinionista che accoglie questi dati con un certo entusiasmo: “Siamo ormai troppi sulla Terra, rischiamo il collasso economico e ambientale: se si fanno meno figli ne guadagna tutta l’umanità”. Bell’affare verrebbe da dire: rinunciamo ai bambini per tenerci i vecchi cui la medicina ha allungato l’aspettativa di vita (per fortuna, s’intende). Ad essere sincero la questione economica non mi convince del tutto. È vero che la mancanza di risorse fa compiere determinate scelte, ci si limita in alcune cose, si cambiano i programmi. Ma questo cosa significa, che i figli saranno esclusivo appannaggio dei ricchi? Possibile che in così pochi decenni siamo arrivati al ribaltamento dei ruoli? Un tempi le classi povere venivano chiamate “proletari”, perché erano ricche solo di figli. E poco importava che ci fosse poco o nulla per tirarli su. Ed erano figli voluti nella maggior parte dei casi, e non piovuti dal cielo. Voluti perché due braccia in più facevano comodo alla famiglia: erano un investimento sicuro sul futuro. Oggi invece si cerca di spiegare la diminuzione della natalità semplicemente con fattori economici. Quando ero piccolo in casa non avevamo telefono – giù all’angolo della strada c’era una cabina telefonica, e quella bastava - niente automobile, niente vacanze - se non un paio di settimane ad agosto a casa dei nonni - ; i vestiti, soprattutto dei bimbi, venivano sfruttati e passati tra fratelli e cugini fino a che non diventavano lisi per il consumo; la spesa - una volta ritirata la busta paga - si faceva una volta al mese: e doveva bastare. Si viveva meglio allora che non oggi? C’erano più quattrini allora nei portafogli degli italiani rispetto ai nostri giorni? Non credo proprio. Eppure i nostri genitori non avevano timore di metter al mondo figli. Cos’è che ci frega allora? La mancanza di futuro. Tutto qui. Per le vecchie generazioni l’avvenire era visto come un tempo e un luogo dove tutti sarebbero stati meglio, un eden da conquistare, una cornucopia che avrebbe dispensato felicità e armonia. La guerra aveva fatto intravedere il baratro, ma era ormai alle spalle. Da ora in poi – pur nella fatica – sarebbe stato festa tutti i giorni. Per noi invece, non si aprono che scenari da incubo, privi di speranza, privi di valori. Gli ideali che hanno ispirato intere generazioni sono tutti perlopiù tramontati, la politica – ma anche l’impegno civile – è vista come il male peggiore, la Chiesa non è più considerato un faro per l’umanità. È un po’ ciò che accadde nel tardo impero romano, le cui analogie con i nostri tempi sono inquietanti. Nessuno più metteva al mondo figli, la disillusione e la decadenza permeavano tutti gli strati della società, mancanza di vitalità, assenza di fiducia. Sembra di rivivere quei giorni. E quindi, dobbiamo rassegnarci a questa sorte? Parrebbe di sì, guardandoci intorno. Ma per fortuna abbiamo una grande maestra a cui affidarci: la storia c’insegna infatti che ogni qual volta ci si trova a raschiare il barile, bene o male ci rialza. Alle invasioni barbariche infondo successe il medioevo, epoca luminosissimo sebbene poco conosciuta. Si tratta di un momento, un brutto momento per l’umanità. Ma passerà. Come diceva Eduardo “Ha da passa’ ‘a nuttata”.

mercoledì 14 novembre 2012

L’ipocrisia è un omaggio che il vizio rende alla virtù (François de La Rochefoucauld)

Hanno suscitato grande clamore le dimissioni del Generale David H. Petraeus da direttore della Cia. Ne hanno parlato giornali, radio, telegiornali, siti web, blog. Tutto il mondo dei media da giorni inonda le case dei cittadini italiani con le vicende sentimentali che hanno travolto la vita di uno dei militari più decorati d’America. Dimissioni, come ha dichiarato lo stesso Petraeus in una tragicomica conferenza stampa, rese necessarie dal fatto che, in un momento di debolezza, egli ha tradito la moglie.
E tale tradimento quindi, con tutto ciò che ne comporta a livello etico e morale, gli impedisce di restare un solo istante di più su quella poltrona. In realtà poi, volendo dar retta agli informatissimi giornalisti gossippari - che in queste faccende ci sguazzano più che un branco di suini nella fanga - pare che il momento di debolezza sia stato più di uno. E che la donna del tradimento non sia stata solo la giornalista Paula Dean Broadwell. Ora, al di là del fatto che, come italiani una notizia di questo genere ci muove ad un sorriso quasi di tenerezza - considerato il liquame nel quale si rotolano i nostri politicanti - , si rendono necessarie alcune considerazioni. Petraeus si dimette in primo luogo perché un direttore della Cia non può essere un personaggio chiacchierato. Il puritanesimo ipocrita e sessuofobico americano rende non solo necessarie le dimissioni immediate in casi come questo, ma pretende anche che il soggetto interessato versi un tributo pubblico di espiazione e mortificazione, un’autoflagellazione che si concreta in una gogna mediatica che funga da catarsi collettiva, un rito tribale che consente la riparazione al vulnus creato nell’Universo etico delle stelle fisse. Già il Presidente Clinton dovette sottoporsi a questa pratica pubblica quando fu travolto dallo scandalo Lewinsky, e solo grazie all’attivismo della moglie - con tanto di perdono lacrimoso in diretta - evitò di perdere la Casa Bianca e l’impeachment. Ma la storia americana, e non solo, è piena di esempi similari. In paesi di matrice protestante, ci si dimette per faccende che ai nostri occhi davvero risultano risibili, e non tanto perché siano risibili in se stesse, quanto perché appunto, siamo ormai abituati ad ogni genere di nefandezza. Il Presidente ungherese Pal Schmitt ad esempio si dimette perché si scopre che una parte della sua tesi di dottorato è stata copiata; in Inghilterra ci si dimette da importantissime cariche di Stato per non aver versato pochi euro di contributi alla colf; in Germania il solo sospetto di non essere un politico cristallino fa si che si venga allontanati dal partito di appartenenza. Bazzecole ai nostri occhi. L’affaire Petraeus da noi sarebbe derubricato a bagatella risibile, ed il politico di turno ne verrebbe fuori con un sorriso sornione e l’espressione da trivio: “E che volete…, a me piace la gnocca”. E tutti giù a ridere. In America la faccenda cambia. Cambia anche ipocritamente, come abbiamo già detto. Il effetti, se non fosse scoppiato lo scandalo e i giornali non se ne fossero interessati, che ne sarebbe stato del nostro Generale? Avrebbe fatto mea culpa, lacerato dal rimorso, o al contrario si sarebbe accompagnato ancora segretamente alla bella Paula? E poi siamo sicuri che le dimissioni siano spontanee e frutto del senso dell’onore, o non piuttosto un obbligo dettato dal fatto che il capo della Cia non possa e non debba essere ricattabile? Domande irrilevanti, visto e considerato che comunque, per una ragione o per l’altra l’America riesce in ciò che per noi è impossibile: fare a meno delle persone “indispensabili”. Ad ogni modo in Italia l’opinione pubblica è stata colpita da questa liaison, non solo perché i media ce l’hanno propinata in tutte le salse, ma anche perché - occorre ammetterlo - gli argomenti pruriginosi hanno pur sempre il loro fascino. Non si capirebbe altrimenti il successo delle riviste di gossip spinto. Tutti concordi nel sollevare il dito indice accusatore contro il “marmittone” fedifrafo: orrore, scandalo, infamia, oscenità. Tutti d’accordo con le dimissioni: “E no, non si fa…, non è lecito”. Poi all’improvviso, nelle immagini trasmesse dai telegiornali, è cominciata a spuntare la figura di una donna non particolarmente avvenente alle spalle del Generale. Una donna con i capelli grigio topo, l’aspetto dimesso, la simpatia prorompente della bibliotecaria polverosa e inacidita. E tutti a chiedersi chi mai sarà costei, chi sarà quella donna che accompagna Petraeus in tutti i luoghi pubblici. Qualcuno a quel punto, nelle more d’informazione, ha ipotizzato che si trattasse di una segretaria, di un esponente dello staff. Fino a che non è saltato fuori che trattasi della moglie. Al che quasi tutti gli uomini, da stare seduti comodamente sui propri divani, hanno fatto un salto evidentissimo: “La moglie…? Oddio mio…, ma allora…”. E così, duole ammetterlo, ma nella mente prima, e nelle mezze frasi dopo, piano piano qualcuno ha cominciato prudentemente ad ammettere: “Certo però…, tra quella moglie e quella sventola della giornalista…, onestamente…!”. Confessioni fatte ovviamente da uomo a uomo, e in totale assenza di mogli, fidanzate, sorelle e soprattutto femministe d’assalto. E già, spiace confessarlo, ma di fronte a quell’ingeneroso raffronto, di fronte al paragone tra l’immagine di una donna bella, giovane e dallo sguardo ammaliante, e quello di una donna anziana, brutta da vedersi e trascurata, il pensiero che si fa largo, senza trovare uno sbarramento che sia uno, è inevitabilmente questo: “Ma sì…, ha fatto bene porca miseriaccia ladra…”. E appena confessi a te stesso questo pensiero, ti senti subito un poco di buono e cominci a sentirti nelle orecchie: “Ma come, quella è la moglie…! E se non gli piaceva che se l’è sposata a fare? Perché lui, è forse un adone?”. Domande e riflessioni che si leggono più o meno su quasi tutti i blog che trattano della faccenda. E così ero sul punto di contristarmi definitivamente di questo mio pensiero malsano, quando per caso alla radio ho sentito un’intervista a Massimo Fini, giornalista e scrittore tra i miei preferiti. E cosa diceva Fini alla trasmissione La Zanzara? «Poveraccia, la moglie di Petraeus, è una cessa come tante altre. Lo dico da un punto di vista oggettivo. Il Generale ha fatto quello che chiunque al posto suo avrebbe fatto. E poi andava cacciato per i casini che ha combinato in Iraq, non per aver tradito una donna brutta. È la solita sessuofobia americana». Ecco… onesto, scomodo, irriverente e cristallino come al solito. Grazie vecchio mio, ora mi sento decisamente meno in colpa.