Prova


Non preoccuparti della pioggia, lasciala cadere” (Marco Brignoli, Rifugio Baroni al Brunone, Sentiero delle Orobie Orientali)

martedì 30 ottobre 2012

Per ben figurare...

Un tempo, nel mondo contadino soprattutto, la stretta di mano valeva più di un contratto stipulato alla presenza di un notaio. Bastava la parola perché ci si impegnasse reciprocamente, ed il venir meno ad una promessa equivaleva a perdere per sempre la fiducia di tutti: un’onta che spesso rendeva poco dignitoso lo stesso continuare a vivere. Oggi al contrario, non c’è minaccia che tenga, non bastano le ingiunzioni dei più feroci legulei per indurre le parti a rispettare gli accordi. Gli onesti sono considerati dei timidi nella migliore delle ipotesi, e dei fessi completi nella peggiore. Mentre i dritti sono quelli scaltri, quelli che sono capaci di cavarsela sempre e in ogni occasione, anche al costo di infrangere le più elementari leggi di etica, ancor prima delle norme di diritto. Oggi però, invece di trattare del sempre caro tema della deriva morale del nostro disgraziato paese, ci soffermeremo sul gesto della stretta di mano.
In origine porgere la mano significava dimostrare di non essere armato, e quindi di essere disponibile ad un dialogo pacifico, leale. Oggi invece è diventato un rituale d’introduzione, un gesto che apre alla conoscenza tra sconosciuti. Ora uno studio che sarà pubblicato a dicembre sul Journal of Cognitive Neuroscience dimostra in modo scientifico che la stretta di mano è davvero cruciale per la prima impressione tra due individui che non si conoscono. Gli psicologi sostengono che i diversi tipi di stretta che diamo o riceviamo, dipendono dal rapporto che ciascuno intende instaurare con l’altro: c’è chi ha il ruolo dominante e chi, invece, è un tipo sottomesso; c’è chi da una mano fredda e umidiccia - orrore - e chi invece ti porge solo la punta delle dita…, non sia mai che gli ciuli un anello; e poi ancora la mano avvolgente ed “acchiappesca”, quella floscia da relitto umano, quella ondeggiata con foga, manco si stesse pompando acqua da un pozzo artesiano. E così gli esperti, per ben figurare, consigliano una stretta decisa, ma non troppo. Ecco appunto, per ben figurare…! Questi esperti ci dicono sempre come sarebbe meglio comportarsi all’apparenza. Questa faccenda non mi ha mai convinto: perché se la mia indole è quella di dare al posto della mano una seppia morta, dovrei simulare un carattere del tutto diverso, fornendo una stretta schiacciasassi da Franco Fiorito? Dove mi porta questo comportamento? Per non parlare degli ultimi consigli dei sedicenti esperti nell’approcciare un colloquio di lavoro: mai muovere o stritolarsi le mani, mai guardare per aria verso sinistra, mai toccarsi la gola, sbattere le palpebre, guardare di sbieco; mai tenere le labbra serrate (meglio leccarsele forsennatamente), mai deglutire, mai irrigidire la mascella; ridere va bene, ma non troppo (si apparirebbe servili), mai tossicchiare, schiarirsi la voce, sospirare; mai toccarsi la gola, tamburellare con le dita sul tavolo, o giocherellare con qualche altra appendice corporea; toccarsi la cravatta, i capelli (per chi ce l’ha) o ruotare l’anello al dito si può ed è consigliato; mai braccia conserte (segno di chiusura), mai testa china né gambe attaccate alle gambe delle sedie; mai usare oggetti come fossero delle “protesi” dei propri arti (tipo la penna); e poi il busto sempre ben eretto, mai parlare troppo velocemente, mai cantilenare o ripetere inutili intercalare tipo “diciamo”. Ecco, tutto ciò sempre per ben figurare, per dare una buona impressione. E così capita che, dissimulando una spaventosa timidezza, un poveraccio che ha fregato uno psicologo del lavoro, si trova a fare l’intrattenitore su una nave da crociera - . Leggendo questi consigli mi è tornato in mente un episodio di molti anni fa. In quel periodo lavoravo per una società di servizio presso la fiera di Milano ed ero responsabile d’area. Mi occupavo anche di assunzioni. Ogni giorno avevo qualche colloquio e ne vedevo veramente di tutti i colori. Una volta mi capitò un tale di nome Balocco, era un ragazzo sicuro di se, di bella presenza e pochissime parole: ispirava fiducia. Lo presi convinto di aver fatto un affare per la mia società. Alla prima mostra Balocco fu subito inserito tra gli effettivi. Anche grazie alle mie note gli fu affidato, come primo incarico, un compito di rilievo e rappresentanza: doveva essere la prima persona che i visitatori ed espositori incontravano entrando in fiera. Una sorta di biglietto da visita. E così quando la mostra aprì i battenti cominciai il solito giro d’ispezione. Mi accompagnava il mio diretto superiore. Quando giungemmo nei pressi dell’ingresso Giulio Cesare il nostro sguardo fu rapito da un assembramento selvaggio. Ci avvicinammo per cercare di capire di cosa si trattasse. Intorno al nostro Balocco si accalcavano decine, forse centinaia di persone, in cerca d’informazioni. E con grandissimo sgomento ci accorgemmo che il nostro uomo, paonazzo in viso e tartagliando furiosamente, cercava di districarsi in mezzo a quella folla rumoreggiante. Ad un tratto ci parve anche che, nella foga della balbuzie, si fosse staccato un pezzo di lingua a morsi e, dopo averla raccattata in terra, se la fosse messa opportunamente in tasca. Il mio superiore mi guardò di traverso e mi disse: “L’hai assunto tu quello là, vero?”. Abbassai il capo e mi limitai ad annuire come un penitente trappista. Il fatto era - come ci spiegò egli stesso - che in condizioni di calma e tranquillità il poveretto non aveva alcun problema e riusciva a controllare quel suo leggero difetto. In caso contrario la faccenda diventava esplosiva. Provvidi senza perder tempo alla sostituzione: Balocco fu spedito sul tetto del Portello, là dove c’era - oltre ad un sole spietato - un posteggio, un parcheggiatore serbo-croato e pochissimo contatto con il pubblico. Dispiaceva, ma dovevamo pur sopravvivere. Ecco tutto questo per dire che forse avevano ragione i nostri vecchi: “Per conoscere veramente una persona devi mangiare insieme sette anni di sale”.

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