Prova


Non preoccuparti della pioggia, lasciala cadere” (Marco Brignoli, Rifugio Baroni al Brunone, Sentiero delle Orobie Orientali)

mercoledì 26 settembre 2012

Oddio..., calano i consumi.

Il Centro Studi di Confcommercio ha stimato che negli ultimi quattro anni (2008-2012) il reddito disponibile delle famiglie italiane è calato in media di 5.000 euro. Sul mese pare che ogni famiglia abbia ridotto le spese di circa 230 euro. Un dramma spaventevole - a dar retta agli esperti - che non trova riscontro se non nel periodo subito successivo alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Giuseppe De Rita, presidente del Censis, intervistato da Repubblica afferma che il calo dei consumi che si registra in Italia, oltre ad avere una spiegazione nella minor disponibilità economica, risiede anche nel fatto che “desideriamo di meno”. E De Rita associa a quest’ultimo fattore un pericolo ancora maggiore del precedente, dal momento che “la caduta del desiderio rende antropologicamente povera una popolazione, perché spezza il rapporto che c’è fra il desiderio stesso e la legge destinata a trattenerlo. Se non c’è più desiderio […] le personalità si fanno più fragili, manca la spinta, predomina l’inconsistenza”. (La Repubblica, 26 settembre 2012, pag. 33).
Per dirla tutta, leggendo l’intervista mi ero convinto - almeno fino ad un certo punto - che De Rita stesse sostenendo che in fondo il fatto che un popolo desideri meno cose (soprattutto voluttuarie, occorre dirlo, visto che i cali di vendite riguardano soprattutto il beni durevoli) non fosse una cosa del tutto negativa. Che ci fosse una sorta di ritorno alla morigeratezza dei consumi, all’etica del risparmio consapevole, alla riscoperta di altri valori. E invece, terminando l’interista, De Rita sostiene che questo calo del desiderio è una specie di tragedia (“per la storia di un popolo tutto questo è tragico”). Come chiosa mi verrebbe da aggiungere: «Alla faccia di Diogene che, passeggiando per il mercato di Atene, diceva: “Oh guarda guarda, quante cose di cui non ho bisogno (πόσα πράγματα που δεν χρειάζεται)”». Senza voler scomodare i guru della “decrescita” - né le recenti statistiche che ci raccontano di quanto il mal di vivere e il numero maggiore di suicidi si registrino nei paesi più opulenti e sviluppati - ritengo invece che tutti i mali non vengano per nuocere: occorre rendersi conto che i modelli di sviluppo esistono solo in matematica, non in natura. La produttività, i consumi, questo volano impazzito sul quale ci siamo seduti da decenni, convinti che avremmo avuto sempre di più, sempre più benessere, sempre più felicità, era ovvio che dovessero ad un certo punto rallentare. Ci siamo fatti travolgere da tutto questo, senza quasi rendercene conto. Ed ora siamo qui a tirare le somme, e a disperarci. Bisognerebbe cominciare a ragionare sul fatto che, per esempio, non è indispensabile per forza avere l’auto nuova ogni tre anni, né che la casa dev’essere di proprietà o niente, né tanto meno che è indispensabile mandare il figlio all’università (sempre le statistiche ci dicono che ci sono più avvocati a Roma che in tutta la Francia: abbiamo bisogno ancora di sfornare migliaia di laureati in legge ogni anno?). Vedremo quel che ci riserva il futuro. L’importante a mio avviso è cercare di sfruttare questa situazione per riscoprire il gusto dell’essenziale, la gioia dell’attesa, la conquista guadagnata un passo per volta. Basta con il “tutto e subito”: non ce lo possiamo più permettere. E oltretutto non da neanche la felicità. Vi lascio con un piccolo aneddoto personale. L’altro giorno all’Iper mi sono soffermato ad osservare un uomo anziano, anzi per dirla tutta, piuttosto vecchio e mal ridotto: la schiena incurvata, il passo lento e malcerto, lo sguardo spaesato, frastornato. Si aggirava stancamente tra i banchi dei dolciumi. Guardandolo mi è venuto in mente che mio nonno diceva spesso di avere la bocca amara e per questa ragione - orrore a dirsi - zuccherava perfino il vino. Ebbene questo vecchio ad un certo punto si è fermato davanti ad uno scaffale di biscotti al cioccolato, dopo lunga osservazione ne ha preso una scatola e l’ha messa nel suo carrello semivuoto. Ma fatti appena due passi si è fermato, ha messo mano al portafogli, che custodiva nella tasca posteriore dei pantaloni grigi, e aprendolo vi ha guardato dentro come se scrutasse il buio cupo dell’abisso oceanico. E’ rimasto immobile qualche istante, inespressivo. A quel punto ha fatto un gesto appena percettibile col capo e, serrando leggermente le labbra, l’ha riposto nella tasca. Dopo di che è tornato sui suoi passi - il capo ancora più sprofondato sul petto - e ha ricollocato la scatola dei biscotti al suo posto. Sul momento, osservando la scena, mi è venuto da sorridere: un sorriso empatico, s’intende. Poi però mi sono quasi fatto travolgere dal piccolo dramma a cui avevo assistito e per un momento ho pensato di offrirmi di regalarglieli io quei fottiti “costosissimi” biscotti. Sarebbe stato un bel gesto per il mio amor proprio, chissà come mi sarei sentito orgoglioso una volta detto: “Si figuri, l’ho fatto con grande piacere…”. E il vecchio poi - ho pensato - come si sarebbe sentito? A parti invertite come l’avrei presa io? Sicuramente non bene. A quel punto ho desistito e, dirigendomi verso la corsia dei latticini e insaccati, ho lasciato uscire quella sagoma tremolante dalla mia vista e dalla mia vita. Oltretutto - ho pensato - chi me lo diceva che aprendo il mio di portafogli non vi avrei trovato un abisso più abisso di quello visto dal vecchio…? No, lasciamo perdere: meglio riservare queste emozioni forti per gli anni “azzurri” a venire.

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